ALTRE ESCURSIONI IN COMUNE DI ALBAREDO - GOOGLE MAP - GALLERIA DI IMMAGINI - CARTA DEL PERCORSO

Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in altezza
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
Dosso Chierico- Abete di Vesenda
1 h e 30 min
300
T
SINTESI. Dopo Albaredo, proseguendo verso il passo di San Marco, ad un tornante SX lasciamo la provinciale imboccando a destra la pista che scende alla Madonna delle Grazie. Parcheggiata l'auto, proseguiamo sulla pista che scende ai ponti sulla Valle Piazza e la Valle Lago e risale al Dosso Chierico. Poco prima rientare nel bosco, lasciando le ultime baite del dosso, troviamo, sulla destra, una deviazione (sentieri 135 e 134). La imbocchiamo scendendo fino ad un secondo bivio, proseguiamo diritti, ci portiamo sul fondovalle, attraversiamo il torrrente Bitto e seguendo i segnavia saliamo verso l'alpe Vesenda Bassa. Ben prima dell'alpe però guardiamo a destra: da una macchia di abeti vedremo svettare in altezza l'abete di Vesenda, che raggiungiamo facilmente.

Non tutti i musei sono racchiusi fra le mura di edifici illustri o meno illustri. Ad Albaredo (albarée), centro dell’omonima valle del Bitto, è stato allestito un Ecomuseo interamente inserito nell’ambiente naturale del Parco delle Orobie Valtellinesi. Per visitarlo occorre percorrere un sentiero, lungo circa 3 km e mezzo, che dalla chiesetta della Madonna delle Grazie, poco oltre Albaredo, porta, in circa un’ora e mezza di cammino, fino all’alpe di Vesenda bassa, appena oltre i confini del comune, in territorio del comune di Bema. L’idea è quella di mostrare alcuni luoghi tipici dell’attività contadina di questa antichissima comunità orobica, presentandoli nella loro cornice naturale, per esaltare l’effetto di immersione totale in una dimensione che oggi facciamo fatica ad immaginare. Niente biglietti, quindi, e nessuna limitazione per gli orari di accesso.
Ecco come si dipana la visita all’Ecomuseo. In automobile saliamo dalla piazza S. Antonio di Morbegno ad Albaredo per S. Marco (m. 900 circa), procedendo oltre, sulla strada provinciale per il passo di S. Marco, per circa 2 km, fino a trovare, poco dopo il primo secco tornante sinistrorso, sulla nostra destra la deviazione, segnalata, per il ristoro Via dei Monti, per la Madonna delle Grazie e per il dosso Chierico. Imbocchiamo la stradina che, superato il ristoro, alla nostra sinistra, porta alla chiesetta della Madonna delle Grazie, dove, al parcheggio, lasciamo l’automobile, a circa 1157 metri di quota. È, questo, un luogo denso di mistero, legato alla leggenda del Sassello, un pastore che, passando di qui una notte, diretto alla casera di Pedena, dovette servire ad una messa inquietante, la messa delle anime defunte del Purgatorio, che gli apparvero nella forma di pallidi fantasmi. A questa leggenda si riferiscono i cartelli blu-notte che segnalano il Sentiero dei Misteri.


La chiesetta della Madonna delle Grazie

Ma noi siamo sulla traccia delle orme della storia, e non della leggenda. E calpestiamo l’antica Via Priula, tracciata sul finire del Cinquecento per volere della Repubblica di San Marco, che la sfruttò, nei secoli successivi, per incrementare i suoi commerci con l’Europa settentrionale. Il suo tracciato qui scende, con qualche serpentina, fino al ponte Binnocchio, che scavalca il torrente della Valle Piazza, e prosegue fino al successivo ponte delle Leghe, sul torrente Pedena.
Qui troviamo la prima tappa dell’Ecomuseo, con una scheda-cartello che illustra la struttura e le funzioni dell’antica segheria, costruita nel 1935, quando l’energia elettrica proveniente da Gerola permise di azionare il motore a nastro (mentre prima funzionava una lama a telaio, azionata da una ruota idraulica mossa dalle acque del torrente). La grande ricchezza di boschi di conifere della Valle del Bitto di Albaredo ha favorito l’affermazione del mestiere del boscaiolo, detto “burelèr” (“bur” è il grosso tronco; “nà a burèla" significa rotolare lungo un pendio, come farebbe, appunto, un tronco). I tronchi delle piante abbattute venivano convogliati fin qui con il sistema della fluitazione, cioè sfruttando i torrenti, il Bitto, il Pedena, il Piazza, che venivano arginati in modo tale che questi, seguendo una sorta di scivolo detto “val”, non uscissero dall’alveo o non si mettessero di traverso.


Apri qui una panoramica del Dosso Chierico

Oltrepassato il ponte, incontriamo un secondo cartello, che segnala, appena sotto la strada, l’allestimento di una carbonaia. Incontriamo, così, idealmente una seconda figura di lavoratore connesso con il bosco e la sua ricchezza, il carbonaio. La sua attività è sopravvissuta in valle fino ad un paio di generazioni fa. Un’attività che richiedeva attenzione e maestria, perché errori o disattenzioni rischiavano di mandare letteralmente in fumo il lavoro di giorni. Si doveva trovare una radura pianeggiante, nel cui mezzo si costruiva, con tronchi di piante fogliate, una camera, il forno, al cui interno veniva lasciata una cavità di circa mezzo metro. Intorno al forno si appoggiavano, poi, in posizione verticale, pezzi di legno lunghi non più di un metro, avvolgendolo con due o tre giri e circondandolo interamente, sopra e sotto, in modo da formare una specie di cupola. Al suo centro doveva essere assicurata un’apertura, una sorta di caminetto, collegata con la camera centrale. La cupola veniva, quindi, ricoperta di terra, letale e foglie, in maniera tale che rimanessero alcuni canali di sfiato.
Terminata la carbonaia (il “puiàt”), si accendeva il fuoco al suo interno, introducendo dal camino piccoli rami secchi incendiati. Lo scopo era quello di produrre una lenta e costante combustione, che andava sempre sorvegliata, per evitare che il fuoco ardesse troppo, bruciando la carbonaia, o si spegnesse. Se necessario, si interveniva anche con l’acqua per moderare la combustione: per questo i puiàt venivano costruiti non lontano da corsi d’acqua. Quando tutto andava bene, la lenta combustione, che durava giorni, produceva il carbone. Al termine della combustione, annunciato dal fumo più chiaro, il carbone veniva estratto, posto in sacchi, pesato e venduto, soprattutto a Morbegno.
Procediamo ancora per un breve tratto, riprendendo a salire in direzione del dosso Chierico, fino a trovare, sulla destra della pista, la terza tappa dell’Ecomuseo, dedicata al casello del latte. Nei caselli veniva posto il latte appena munto, e lasciato il tempo necessario perché affiorasse la panna. Ad una funzione analoga servivano, nei maggenghi e negli alpeggi, apposite grotte (“canivèi”) o costruzioni (“budelére” o “budülére”, baitelli di alta quota al cui interno scorreva un ruscelletto, per tenere in fresco il latte).
La valle è assai legata al prodotto principe della sua economia contadina, il formaggio Bitto, il cui pregio raffinato è assai noto, prodotto negli alpeggi. Non bisogna però dimenticare altri prodotti, a torto definiti “minori”. Fra questi, i “matusc". Dalla panna ricavata dalla scrematura nei caselli (per la quale si utilizzava la “cazzetta” o “spanaruola”) si ricavava il burro, mentre con il latte scremato si producevano anche formaggelle magre (in forme che non superavano i 2,5 kg) dette, appunto, “matusc", complemento importante dell’economia contadina e frutto di un’attività casearia prevalentemente femminile. La loro lavorazione prevedeva che il latte fosse portato a 35°, prima che si aggiungesse il caglio costituito da liquido di vitello. Rotta la cagliata a dimensione di piccoli piselli, veniva depositata nelle fascere e pressata per l'eliminazione del siero in eccesso. Dopo qualche giorno le forme venivano salate esternamente a secco e poi poste in ambiente fresco e ben arieggiato per la stagionatura, che durava almeno 45 giorni.
Salendo ancora, raggiungiamo le baite più basse del dosso Chierico (m. 1219), ed un bivio, al quale dobbiamo lasciare la via Priula, che prosegue verso il passo di S. Marco, per imboccare una larga pista-mulattiera che scende sulla destra (indicazioni per l’abete di Vesenda, l’alpe di Vesenda bassa ed alta, la casera di Garzino e la casera Melzi). Si tratta della mulattiera che si addentra in direzione del cuore della valle, raggiungendo, infine, il torrente Bitto, per passare sul lato opposto e salire all’alpe di Vesenda bassa.
Seguendola, ignoriamo due deviazioni sulla destra, che scendono al torrente Bitto, ed affrontiamo un tratto in leggera salita, prima di uscire dal bosco ed incontrare la quarta tappa dell’Ecomuseo, dedicata ai forni fusori, di cui incontriamo alcuni ruderi dei muri perimetrali, a quota 1180, nella zona del bosco d’Orta. Lo sfruttamento del ferro, che, nel sistema produttivo medievale era metallo molto prezioso, risale al Duecento, quando vengono perimetrate le concessioni minerarie. Fu soprattutto la zona ai piedi dei monti Pedena ed Azzarini ad essere interessata dall’attività estrattiva; la lavorazione dei minerali, che si avvaleva di forni di cui sono rimaste tracce sul fondovalle, nei pressi del torrente Bitto, e per la quale venne costituita la Società dei Forni di Ferro, poteva avvalersi dell’abbondante disponibilità di legname e fu vitale almeno fino alla fine del secolo XVIII.
La ricchezza di legname del bosco e la vicinanza del torrente Bitto hanno dettato la costruzione dei forni in questa zona. All’interno dei muri perimetrali si trova una fasciadi terra che li isola dal forno vero e proprio, al centro, di forma conica.
Nel forno veniva bruciato il carbone, fino a raggiungere una temperatura di 1200 gradi, che permetteva di separare il minerale di ferro dalla roccia che lo conteneva. Il processo, durante il quale il fuoco veniva alimentato da grandi mantici azionati con la forze delle acque del Bitto, durava diversi giorni. Durante la notte i bagliori di questi fuochi si diffondevano in questa zona, conferendole un’atmosfera sinistra difficile da immaginare. La produzione del ferro, fin dal medioevo, fu un importante elemento nell’economia delle valli orobiche: il prodotto veniva poi trasportato nella bergamasca attraverso i valichi alpini.
Manca la quinta ed ultima tappa dell’Ecomuseo, posta al di là del Bitto, nel territorio che è già di
Bema, all’alpe di Vesenda Bassa. Si tratta del più celebre albero della Provincia di Sondrio, l’abete di Vesenda. Lo raggiungendo proseguendo sul sentiero e scavalcando il Bitto: usciti dal bosco nei pressi di una bella radura, posta proprio nel cuore della valle, ci portiamo riva orientale del torrente, e lo possiamo attraversare sfruttando un ben visibile ponte formato da grandi massi (m. 1251). Sul lato opposto troviamo facilmente il sentiero che sale verso l'alpe di Vesenda bassa. Saliamo per un tratto, superando un boschetto di abeti, fino a giungere in vista dei muretti diroccati che segnano il confine dell'alpe, poco sopra i 1350 metri. Ora guardiamo alla nostra destra: vedremo un fitto bosco di abeti, dal quale emerge la solitaria chioma diradata dell'Abete di Vesenda, riconoscibile, appunto, non solo per i suoi rami volti all'insù (caratteristica dell'abete bianco), ma anche per la povertà dei rami nella parte alta del tronco. Per questo il suo profilo spicca nella compagine degli alti abeti del bosco. Avviamoci quindi verso il limite del bosco ed addentriamoci fra gli abeti per un tratto: in breve ci troveremo presso due tavoli in legno, ideali per una sosta ristoratrice.
Il grande abete si solleva verso il cielo a pochi metri dai tavoli, vetusto nel suo carico d'anni ma sempre possente nella sua sorprendente mole. Dalla parte bassa del tronco, in particolare, parte un grande ramo dalla forma singolare, che ha tutta l'aria di rappresentare una sorta di grande braccio piegato ad angolo retto verso l'alto. Qualche numero ci può dare l’idea della sua imponenza: si tratta di un abete bianco (abies alba) dall'età veneranda (dai 300 ai 350 anni) e dalle dimensioni ragguardevoli (38,50 metri di altezza, 5,65 metri di circonferenza, 1,79 metri di diametro a petto d'uomo, 32,60 metri cubi di volume totale). Qui non è l’uomo, con i suoi manufatti ed i segni della sua attività, ad essere protagonista, ma la natura, con la sua sorprendente capacità di creare monumenti di fronte ai quali si resta prigionieri di una profonda meraviglia.

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