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Bormio

IL COMUNE IN SINTESI (DATI RELATIVI AL 1996)
Abitanti (Bormiesi): 4104 Maschi: 2045, Femmine: 2059
Numero di abitazioni: 3672 Superficie boschiva in ha: 4426
Animali da allevamento: 2148 Escursione altimetrica (altitudine minima e massima s.l.m.): m. 1152, m. 3467 (Punta del Chiodo)
Superficie del territorio in kmq: 41,81 Nuclei con relativa altitudine s.l.m.: Bormio m. 1225


Bormio deve le sue fortune storiche alla felice collocazione, climatica e strategica, nella piana ove confluiscono due valli principali, Valdidentro e Valfurva, ma anche Val Fraele e Valle del Braulio, tutte legate ad antichi itinerari che congiungevano Valtellina e quindi bacino padano e regioni della Rezia di lingua romancia e tedesca.
Nel suo studio “I principali toponimi in Valtellina e Val Chiavenna” (Giuffrè, Milano, 1955), Renzo Sertoli Salis avanza le seguenti ipotesi sull’origine del nome: “Bormio. È nome della stazione termale romana: in greco thermos, in lat. fornus e in tedesco warm: conformi tutti gli AA. da P. Kretschmer all'Olivieri, all'Orsini. È lo stesso che Worms e le Aquae Bormiae di Cassiodoro: vedi il fiume Bormida e Bormi nel Lucchese. Perciò la derivazione dal ligure o dal gallico borm, caldo, è in un certo senso superata dal termine greco.”  
Lo storico secentesco bormiese Gioacchino Alberti, nelle sue Antichità di Bormio (edizione della Società Storica Comense, 1890), vorrebbe che dopo il diluvio universale di biblica memoria Zabet, figliuolo di Jesel, nipote di Noè, venuto dalla Scizia, abbia occupato questo paese. Un’altra leggenda vuole Bormio fondata da una colonia etrusca guidata dal mitico Reto, capostipite della stirpe retica. Ma, tralasciando gli ipotetici pronipoti di Noè e ed i miti retici, la ricerca storica evidenzia che insediamenti nella piana di Bormio sono antichissimi e sicuramente preromani: abitarono questa terra i Liguri, popolazioni preindoeuropee, poi i Reti, di probabile origine estrusca, e forse anche gruppi di origine celtica. Furono, però, i Romani a fare entrare questo paese nella storia, dopo il 15 a.C., al tempo dell’imperatore Augusto, quando la zona montana retica fu conquistata con la campagna militare di Druso e divenne provincia romana.


Bormio

È congettura accreditata che i Romani conoscessero ed apprezzassero Bormio per le sue acque termali. Si cita, come prova, un passo del celebre naturalista comasco Plinio il Vecchio, il quale, nella sua “Historia naturalis” (I sec. d. C.), scrive: “Ma la natura è stupefacente per il calore di innumerevoli fonti, cosa che avviene anche tra i gioghi delle Alpi e pure all’interno del mare tra l’Italia e Ischia nel golfo di Baia e all’interno del fiume Liri e in molti altri" (trad. Anna Quadrio Curzio). Nel passo non vi è alcun riferimento preciso al luogo o ai luoghi alpini cui il naturalista si riferisce; si ipotizza che il riferimento riguardi Bormio a partire da due indizi: Plinio era di Como e non poteva non conoscere la Valtellina; solo a Bormio vi sono molteplici fonti (nove) di acqua termale. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, subentrò, dal 493 d.C., la dominazione degli Ostrogoti. E proprio in una lettera dell’erudito Cassiodoro ad un re Ostrogoto, Teodato (535), di cui era ministro, che troviamo il primo riferimento sicuro alle “aquas Bormias”, dotate di proprietà terapeutiche contro la gotta.


Apri qui una panoramica sulla Valle del Braulio, la Reit e la piana di Bormio

A quel medesimo periodo risale la diffusione del Cristianesimo nella valle dell’Adda e furono gettate le basi della divisione di Valtellina e Valchiavenna in pievi. “La divisione delle pievi”, scrive Enrico Besta, “appare fatta per bacini… aventi da epoche remote propri nomi, come è infatti accertato per i Bergalei, i Clavennates, gli Aneuniates”. Esse, dopo il mille, erano San Lorenzo a Chiavenna, S. Fedele presso Samolaco, S. Lorenzo in Ardenno e Villa, S. Stefano in Olonio e Mazzo, S. Eufemia o S. Pietro in Teglio, dei martiri Gervasio e Protasio in Bormio e Sondrio e S. Pietro in Berbenno e Tresivio; costituirono uno dei poli fondamentali dell'irradiazione della fede cristiana.
L’offensiva Bizantina riconquistò probabilmente alla “romanità” la valle della Mera e dell’Adda, anche dopo l'irruzione e la conquista dei Longobardi (568); nell'VIII secolo, però, con il re Liutprando il confine dei domini longobardi raggiunse il displuvio alpino. Con i successori Rachis ed Astolfo, nel medesimo VIII secolo, queste valli risultano donate alla chiesa di Como. Sconfitti, nel 774, i Longobardi da Carlo Magno, Valchiavenna e Valtellina rimasero parte del Regno d’Italia, sottoposto alla nuova dominazione franca.
In un diploma di Carlo Magno dell'803, ed in un altro dell'Imperatore Lotario dell'824, la chiesa di Bormio si trova menzionata con il titolo di battesimale, insieme a quella di Mazzo e di Poschiavo. La frammentazione dell’Impero di Carlo portò all’annessione del Regno d’Italia al sacro Romano Impero. Con Carlo Magno Bormio e la Valtellina vennero infeudate al lontano monastero parigino di S. Dionigi. A questo periodo dovrebbe risalire la costituzione di Bormio e del suo territorio in contea. Agli inizi del secondo millennio, però, vennero create le premesse per quegli sviluppi storici che separarono, sotto diversi aspetti, l’evoluzione storica del bormiese da quella della Valtellina. Nell'XI secolo la chiesa dedicata ai SS. Gervasio e Protasio era già arcipretale e collegiata. Il 3 settembre 1024 l’imperatore Corrado succedette ad Enrico II, inaugurando la dinastia di Franconia, e confermò al vescovo di Como i diritti feudali su Valtellina e Valchiavenna, già concessi nel 1006; nel medesimo periodo, però, un altro potente vescovo, quello di Coira, estendeva i suoi diritti feudali su Bormio e Poschiavo. Si trattava dei diritti di gastaldia (finanziario: tasse e pedaggi) e di curia (giurisdizione bassa: cause minori civili e penali), che venivano esercitati non direttamente, ma attraverso i Signori di Matsch, in Val Venosta. Como, tuttavia, non riconobbe mai i diritti di Coira, e rivendicò sempre i propri diritti feudali sul bormiese, ed in particolare la cosiddetta giurisdizione alta (le più importanti cause civili e penali). I Bormini, da parte loro, costituiti in comune, cercarono di resistere alle pressioni del Vescovo di Como, il quale, dunque, decise di imporsi con la forza delle armi, invadendo e devastando il loro territorio. Nel 1201 Bormio dovette cedere, accettando un gravoso trattato di pace con Como.
Il trattato di pace impose al comune un Podestà, che esercitava, a nome del Vescovo di Como, un controllo sulle autonomie comunali. Si trattava però, solo di una tregua. Nel 1238 il dominio di Coira su Bormio, passò alla potente famiglia dei Venosta di Mazzo ed agli inizi del secolo successivo Bormio rimise in discussione il trattato del 1201, affidandosi alla protezione di Coira. Fu, questo, forse il periodo di maggiore autonomia del comune, che si arricchiva soprattutto con il commercio del vino valtellinese verso i paesi di lingua tedesca e con l’attività estrattiva del ferro nelle officine di Semogo e di Premadio.
Esso era originariamente articolato nell’assemblea popolare, nei consigli maggiore e minore e nei reggenti, e dal 1325 aveva esteso la sua giurisdizione al livignasco.

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La situazione era, però, destinata a mutare di nuovo, perché nel 1335 Como, e con essa Valtellina e Valchiavenna, vennero inglobate nella signoria milanese di Azzone Visconti. Una potenza di ben maggiore capacità militare si sostituiva, dunque, a quella del Vescovo di Como. Nel 1350 l’avvocato Ulrico di Matsch scese alla piana di Bormio attraverso il passo di S. Maria di Monastero e la via detta dell’Ombraglio (oggi Umbrail), percorrendo l’alta valle del Braulio e la valle della Forcola. Bormio si trovò, dunque, al centro di uno scontro per l’egemonia sull’alta valle dell’Adda e decise di allearsi con quelli che riteneva i più forti, cioè i Visconti. Ulrico, infatti, fu sconfitto ed i Visconti poterono rendere effettiva la propria signoria sul Bormiese. Una signoria che parve all’inizio gravosa e negatrice delle aspirazioni di autonomia dei Bormini, i quali, dunque, approfittarono della sollevazione dei comuni guelfi valtellinesi  del 1370 per ritornare ad essere libero comune.
Ma la rivolta venne ben presto sedata e Galeazzo Visconti, deciso a riaffermare la propria signoria su Bormio, allestì una spedizione guidata dal capitano di ventura Giovanni Cane. Questi, invece di cercare di forzare le difese bormine alle torri di Serravalle, erette nella naturale strettoia al confine meridionale della contea con la Valtellina, le aggirò. Approfittò, infatti, dell’appoggio di Grosio e, il 30 novembre 1376, risalì l’intera Val Grosina, scendendo quindi per la Val Verva e la Val Viola, per piombare, infine, sulla piana di Bormio. Si narra che la corda della Bajona, storica campana di Bormio di quasi tre tonnellate, si spezzò mentre questa batteva i pesanti rintocchi per chiamare tutti alla difesa: era un segno del destino. Bormio fu messa a ferro e fuoco, ed il suo castello di S. Pietro smantellato. Furono anche distrutte, e mai più ricostruite, le difese di Serravalle. Era anche questo un segno dell’impossibilità di separare la storia della Magnifica Terra della Contea di Bormio da quella della Valtellina. A quell’epoca pare che Bormio contasse 5000 abitanti ed andasse fiera per le sue 32 torri. I Visconti riaffermarono, dunque, la loro signoria, ma, saggiamente, concessero a Bormio ampia autonomia, con un documento ricordato come il privilegio del 1377, la magna charta delle libertà bormiesi. Per questo i rapporti di Bormio con Milano furono, da allora, sempre buoni. Proprio per la sua fedeltà a Milano Bormio ebbe a subire, nel 1432, l’occupazione ed il saccheggio delle milizie di Venezia. Secondo alcuni la località di Fumarono ebbe da allora questo nome perché lì vennero accatastati e bruciati i cadaveri.
Caduti i Visconti e terminata la breve esperienza della repubblica milanese (1447), i Milanesi accolsero come loro signore Francesco Sforza. Questi, con il diploma del 28 marzo 1450, concesse a Bormio condizioni assai favorevoli, in quanto poteva imporre liberamente dazi, pedaggi, decretare e modificare statuti a proprio beneficio ed esercitare l'alta giurisdizione con il potere di decretare la pena di morte; inoltre erano rimessi tutti i debiti contratti con la camera ducale; era confermata l'esenzione già concessa da Filippo Maria nel 1417 del dazio per 300 plaustri di vino estratti dalla Valtellina; era infine, concesso il monopolio nel commercio di vino attraverso i valichi di Fraele e dell'Umbrail.
Il quattrocento è, però anche il secolo nel quale si concretizzano le aspirazioni all'autonomia religiosa delle diverse comunità del Bormiese: la Valfurva si era di fatto separata dalla Pieve di Bormio già nel 1379; nel 1453 si separarono le Vicinanze di Semogo, Isolaccia, Trepalle e Pedenosso, costituendo la Parrocchia di S. Martino; nel 1467 le Vicinanze di Molina, Turripiano e Premadio costituirono la Parrocchia di S. Gallo e, dieci anni dopo, le contrade della valle di Livigno formarono la Parrocchia di S. Maria; rimasero soggette alla chiesa plebana soltanto le vicinanze di Valdisotto. Al medesimo periodo va ascritto il primo sinistro bagliore della caccia alle streghe (biennio 1483-85), destinato ad avere seguiti tragici nei secoli successivi.
Sul finire del secolo si affacciarono alla storia di Bormio quelli che sarebbero stati, dal 1512, i nuovi signori delle valli dell’Adda e della Mera, le Tre Leghe Grigie (Lega Grigia, Lega Caddea e Lega delle Dieci Giurisdizioni, che si erano unite nel 1471 a Vazerol), che miravano ad inglobarle nei loro territori per avere pieno controllo dei traffici commerciali che di lì passavano, assicurandosi lauti profitti.
Chiavenna fu incendiata, nel 1486, dalle loro milizie; nel febbraio dell’anno successivo anche Bormio, reduce da due severe epidemie di peste (1468 e 1476), vide affacciarsi le facce ferrigne dei soldati retici. Questi, fra il febbraio ed il marzo del 1487, saccheggiarono sistematicamente i paesi della valle da Bormio a Sondrio. Bormio dovette subire il secondo grave saccheggio della sua storia (27 febbraio 1487), sperimentando come il suo essere al centro di fondamentali vie di transito nel cuore della Rezia fosse non solo la sua forza, per via del controllo dei commerci, ma anche la sua debolezza, per il passaggio di milizie che sempre ne minacciavano la pace. Le truppe ducali si mossero per fermarne l’avanzata e, dopo alcuni episodi sfavorevoli, riuscirono a sconfiggerle nella piana di Caiolo. Non si trattò, però, di una vittoria decisiva e netta, come dimostra il fatto che le milizie grigione si disposero a lasciare la valle solo dopo la pace di Ardenno (1487), che prevedeva il cospicuo esborso, da parte di Ludovico il Moro, di 12.000 ducati a titolo di risarcimento per i danni di guerra.  Si trattò solo di un preludio, di un segno premonitore di quel che Valtellina e Valchiavenna sarebbero apparse ai loro occhi nella successiva generazione, una inesauribile macchina per far soldi, diremmo noi oggi.
Nell'autunno del 1493 passo per Bormio il solenne corteo che accompagnava Bianca Maria Sforza, nipote di Ludovico il Moro, nel viaggio che, passando per il passo dell'Ombraglio (Umbrail), andava ad incontrare a Innsbruck il suo sposo, l'imperatore Massimiliano I d'Asburgo. Leonardo era forse al suo seguito. leggiamo, infatti, nel "Codice atlantico": "In testa alla Valtolina è la montagna di Bormi. Terribili piene sempre di neve; qui nasce ermellini. A Bormi sono i bagni. Valtolina come detto valle circumdata d'alti terribili monti. Fa vini potentissimi e assai e fa tanto bestiame che da paesani è concluso nascervi più latte che vino. Questa è la valle dove passa Adda, la quale corre più che 40 miglia per la Magna."


Bormio e la Reit

Il quattrocento stava per chiudersi: aveva visto la diffusione anche a Bormio di stili e gusti umanistici, e si congedava con un’ultima dura epidemia di peste, quella del 1495. Di lì a poco, nel 1500, Ludovico il Moro (che già nel 1499 se n’era fuggito a Bormio, trovandovi favorevole accoglienza ed appoggio), con la sconfitta di Novara, perse il ducato di Milano ad opera del re francese Luigi XII. Per dodici anni i Francesi furono padroni di Valtellina e Valchiavenna; il loro dominio, però, per dispotismo ed arroganza, lasciò ovunque un pessimo ricordo, cosicché il loro rovescio e l’inizio della dominazione delle Tre Leghe Grigie (1512) venne salutato non con entusiasmo, ma almeno con un certo sollievo. I nuovi signori proclamavano di voler esercitare un dominio non rapace e prepotente, ma saggio e rispettoso delle autonomie dei valligiani, chiamati "cari e fedeli confederati" nel misterioso patto sottoscritto ad Ilanz (o Jante) il 13 aprile 1513 (di cui si conserva solo una copia secentesca, sulla cui validità gli storici nutrono dubbi); Valtellina e Valchiavenna figuravano come paesi confederati, con diritto perciò di essere rappresentati da deputati alle diete; le Tre Leghe promisero, inoltre,di conservare i nostri privilegi e le consuetudini locali, e di non pretendere se non ciò che fosse lecito e giusto. Ma, per mettere bene in chiaro che non avrebbero tollerato insubordinazioni, nel 1526 abbatterono tutti i castelli di Valtellina e Valchiavenna.
I Magnifici Signori Reti concessero, peraltro, alle contee di Bormio e di Chiavenna una condizione migliore rispetto a quella dei tre Terzieri di Valtellina: le contee non ebbero governatore, ma lo status di protettorato. I due contadi di Bormio e Chiavenna, dunque, si amministravano autonomamente. Avevano propri codici e statuti Chiavenna, la valle S. Giacomo, Piuro, le singole giurisdizioni della Valtellina, e la contea di Bormio. Nonostante qualche urto e frizione con i nuovi signori, i Bormini poterono continuare a trarre profitto dalle tradizionali fondi di maggior reddito, i dazi commerciali, soprattutto sul vino, e le attività di estrazione del ferro.

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Un quadro della situazione di Bormio a cavallo fra Cinquecento e Seicento ci viene offerto dalla celebre opera di Giovanni Guler von Weineck (governatore della Valtellina per le Tre Leghe Grigie nel biennio 1587-88), “Rhaetia”, pubblicata a Zurigo nel 1616 (e tradotta in italiano dal tedesco da Giustino Renato Orsini):
Fin qui si discorse della Valtellina in generale; ora invece vogliamo descrivere particolarmente, l'una dopo l’altra, ogni sua parte e di queste i vari luoghi.
Nell'alta Valtellina abbiamo il distretto di Bormio. Esso per ogni parte è circondato da alte vette nevose non altrimenti che una città dalle sue mura; tuttavia esiste un'apertura, attraverso la quale l'Adda trascorre in Valtellina: ivi i monti si accostano l'uno all'altro così strettamente, che nell'intervallo fra le due altissime catene l'acqua si acre uno stretto e profondo varco: la via poi corre sul lato sinistro della valle, lungo la falda del monte. Presso questa angusta chiusa, che oggi è chiamata di S. Brizio, fu edificata, in antico una difesa, che consiste in un muro fra monti e monti e in una torre che domina la strada, la quale si può sbarrare chiudendo le porte, come vediamo anche oggi. Del resto questo territorio non ha altri accessi, perchè i monti alti e scoscesi sono impraticabili per molta parte dell'anno, ossia in inverno e primavera, prima per la molta neve, poi per lo scioglimento della medesima. I passi più notevoli sono poi provveduti di antichi e robusti sbarramenti, così che non si potrebbe trovare altro paese, il quale per difese naturali ed artificiali presenti tanta sicurezza. Il distretto di Bormio confina a levante colla Val Mora. con la Val d'Adige, con la Val di Sole. e con la Val Camonica e con la Valtellina; a ponente colla valle di Poschiavo, col Bernina e con l'Engadina: a settentrione col monte Boffalora e con la parte posteriore della Valle di Monastero.
Nel Bormiese il clima è buono e salubre, sebbene d’inverno alquanto rigido; ma d'estate è così mite che molti, dalle regioni circostanti più calde, salgono lassù per qualche tempo a cercarvi ristoro.
Gli abitanti sono sani e d'indole riflessiva, d'ingegno acuto e di complessione robusta; si distinguono nelle lettere e nelle arti liberali, come anche nella milizia; nessuna fatica, così al freddo come al caldo, riesce per loro insopportabile.
Nel territorio bormiese non allignano le viti, nè gli alberi da frutta; si produce però del grano in abbondanza, così che non solo basta al consumo, ma ne rimane pure qualche eccedenza da esportare.
Il bestiame grande e piccolo è moltissimo, perciò anche il latte e i latticini sovrabbondano. I monti possono accogliere per l'alpeggio estivo dalle seicento alle settecento mucche, non compresi gli ovini ed i vitelli. Una parte dei pascoli alpini viene affittata per un canone annuo; ma la parte maggiore viene sfuttata dai terrieri stessi. Nel Bormiese si ottiene inoltre molto miele, il quale è così squisito e salubre che non se ne trova in altri paesi di migliore. Fra i monti esistono qua e là vene d'oro, di argento, ferro, rame, allume, piombo e zolfo; però sono particolarmente sfruttate.
Gli abitanti di questo territorio hanno un reggimento distinto da quello della Valtellina. Essi infatti, come gente di confine e come padroni di passi importanti, ottennero in ogni epoca dai loro principi molti privilegi ed immunità, che ancora oggi sono in vigore. Possono eleggersi da sè il podestà, i giudici e il consiglio, non che tutti gli altri funzionari del territorio; ma li nominano per sorteggio, scansando così ogni competizione ed assicurando nel miglior modo la pace comune…
In questo modo ogni quattro mesi vengono eletti due consoli come capi, sedici consiglieri e tredici giudici: questi poi, dalle vallate adiacenti e dai villaggi dove abitano, si raccolgono insieme nel capoluogo di Bormio dove sorge il palazzo del Governo; giudicano in cause civili e penali, ma alla presenza e con la collaborazione del podestà, che presiede il consiglio, alla presenza del suo cancelliere e di due uscieri, incaricati di tutte le procedure giudiziarie. Il podestà viene ora inviato ai Bormiesi, ed a loro spese, dalle Eccelse dominanti Tre Leghe: ed ogni due anni all'incirca si sostituisce.
Il Bormiese ha una costituzione locale scritta, detta statuto, e con essa si governa: per altro, in caso di controversia si può appellarsi al potere supremo, tanto in assemblea straordinaria, come in quella generale ordinaria, oppure ai commissari e funzionari a ciò deputati, ovvero anche alle onorevoli comunità del territorio. In guerra i Bormiesi si scelgono da sè il loro capitano e da sè fanno le leve di milizie, che costituiscono una bella ordinanza, ben provveduta di tutto il necessario.
Tutto il territorio di Bormio, nel quale l'anno 1608 io annoverai quattordicimila anime, è diviso in cinque comuni o vicinanze: il primo e più noto è quello di Bormio, che comprende il capoluogo con le sue adiacenze; il secondo è la Valfurva, che da Bormio risale a monte, lungo il corso del torrente Frodolfo; il terzo è la Val di dentro, che da Bormio si estende verso occidente: il quarto la Valle di sotto che giace lungo il corso dell'Adda, scendendo verso la Valtellina; il quinto ed ultimo è la Valle di Livigno, che si prolunga dalla Val di dentro sino al monte Fustani verso l'Engadina…
BORMIO. — Verso mezzodì alle falde dei monti ora ricordati — a certa distanza dall'Adda, sulla sua riva sinistra, ma poco lungi dal torrente Frodolfo, che esce dalla Val Furva — giace la signorile e celebre borgata di Worms, detta in latino Bormium, ed in italiano Bormio; da essa poi i tedeschi denominano i monti circostanti genericamente Wormserjoch. E' un luogo antichissimo, capoluogo di tutto il territorio: e può, per i suoi edifici, le sue torri e la sua ampiezza esser paragonato ad una cittadina; è munito di castelli e di fortezze; e, relativamente alla sua ampiezza, è luogo assai ricco e popoloso. Si annoverano in Bormio molte nobili ed illustri famiglie: per esempio gli Alberti, dei quali fioriscono rami anche a Venezia, a Firenze, a Milano e Vercelli; alcuni di essi divennero cavalieri, altri salirono alla dignità comitale, infeudati della contea di Colico sul lago di Como; ed anche oggi vivono in Bormio onoratamente. Ivi fioriscono pure i Fogliani, i Marioli, i Sermondi, i Fiorini, i Casolari, i Calderari, gli Zenoni ed altri nobili lignaggi, che in patria ed all'estero sono specchio di lealtà ed onoratezza.
In Bormio si trova a buon prezzo tutto il necessario; vi abbondano la carne ed il pesce, il buon pane ed il vino. Anzi io ritengo non esista altro luogo, dove si beva vino migliore; perciò sorse questo adagio:
se volete gustare del buon vino soffermatevi a Bormio un pochettino.
Infatti i Bormiesi comprano i vini più scelti, così in Valtellina che altrove.
Il torrente Frodolfo serve a trasportare molto legname, così per le fabbriche, come per gli usi domestici; viene anche adoperato per i mulini, le segherie, i magli ed altre industrie. Perciò le abitazioni sono comode e ben costruite.
L'anno 1520 scoppiò in aprile una morìa che durò sino a tutto il gennaio dell'anno seguente; e perirono allora duecento persone.”
Sempre sul finire del Cinquecento, le Tre Leghe Grigie concessero al vescovo di Como Feliciano Ninguarda, per la sua origine morbegnese, il permesso di effettuare una celebre visita pastorale, nel 1589, di cui diede un ampio resoconto pubblicato nella traduzione di don Lino Varischetti e Nando Cecini.
Ecco quel che leggiamo di Bormio:
“Bormio che giace in un'ampia pianura tra due fiumi, l'Adda a sinistra e il Frodolfo a destra, dista da Sondalo dieci miglia e dalla frazione de Le Prese, l'ultima località della Valtellina, sette miglia e mezzo. Ha una chiesa collegiata e arcipretale abbastanza antica con un pavimento in legno, dedicata ai SS. Gervasio e Protasio. C'è un arciprete con cinque canonici; quelli ora in sede sono i seguenti: rev. sacerdote Battista Fogliani, arciprete;prete Giovan Antonio Casulari, dottore in teologia e predicatore; prete Giacomo de Mazolis; prete Bartolomeo de Bartolomini; prete Giovanni de Fogliani; prete Martino de Bonizi. Tutti nativi del borgo di Bormio.
Oltre ai sopraddetti canonici vi sono lì o nei dintorni della stessa comunità altri sacerdoti e chierici che sono: prete Ermete Grossino di Bormio; prete Gabriele de Barachi di Cepina; prete Bartolomeo Florino di Bormio; suddiacono Giovanni Pietro Ferla.
Nel paese di Bormio vi sono inoltre le seguenti chiese: S. Vitale Martire;SS. Fabiano e Sebastiano martiri; S. Spirito; S. Lorenzo martire; S. Barbara vergine e martire; S. Francesco; SS. Pietro e Paolo Apostoli; S. Antonio Abate; S. Maria Vergine; S. Michele Arcangelo.
Inoltre fuori del paese di Bormio, vi sono le seguenti chiese, rette dai canonici designati dal capitolo. Oltre il fiume Frodolfo vi è la chiesa dei SS. Pietro e Marcellino de Poira, distante un miglio dalla matrice sul monte a sinistra. La chiesa di S. Maria di Piatta, che dista un paio di miglia dalla matrice sullo stesso monte, ma più in basso. La chiesa di S. Maria e di S. Giovanni Battista e S. Giovanni Evangelista di Piazza, distante due miglia dalla matrice.
Sul monte di Oga appena fuori del paese vi è la chiesa curata, dedicata a S. Lorenzo, distante più di due miglia da Bormio; officia in essa in veste di vicecurato il sacerdote Giovanni dei Fogliani, canonico. Sullo stesso monte di Oga vi è un'altra chiesa dedicata a S. Colombano, incorporata alla predetta chiesa di S. Lorenzo, distante da Bormio sei miglia.
Al di qua dell'Adda a destra di Bormio ai piedi del monte delle Terme, vi è la frazione di Molina con la chiesa dedicata a S. Giovanni Evangelista e Battista, distante dalla matrice un miglio. Nella stessa località e vicino alle Terme vi è un grande ospizio per i viaggiatori che passano di lì; c'è pure la chiesa dedicata a S. Martino Vescovo, distante dalla matrice un miglio e mezzo. A mezzo miglio dalle Terme si trova un luogo chiuso chiamato Serra dagli stessi abitanti.”
Ed inoltre:
"Bisogna sapere per prima cosa che la Valtellina e il Bormiese sono posti sulla stessa linea e senza alcuna interruzione e stanno tra due altissime catene di monti; una di queste, a destra scendendo, separa proprio questa valle dalla giurisdizione della Lega Caddea, una delle tre Leghe Retiche.L'altra catena la divide dalla giurisdizione di Brescia e di Bergamo, sottoposte al serenissimo arciduca Ferdinando. L'attraversa il fiume Adda fino al lago di Como: il fiume nasce sopra Bormio sul monte Braulio, volgarmente Mombrai, dove scaturisce da un'apertura dell'altissima roccia. Tra i due monti in un luogo stretto distante da Bormio sei miglia, c'è un muro alto e stretto, tanto che per di lì nessuno può passare, se non attraverso una porta costruita vicino al fiume; codesta porta in tempo di guerra o di pestilenza è ben custodita e per questo è chiamata "Serra", cioè la chiusa di quei monti, e separa la comunità bormiese dalla rimanente parte della Valle che è chiamata Valtellina.
La comunità bormiese poi, a due miglia e mezzo da Bormio, borgo assai importante dove ha residenza il pretore della giurisdizione territoriale, ha costruito, alquanto a monte delle rinomate acque termali, risalendo verso il suddetto Mombrai, un'altra chiusa simile, ma più salda. Per di lì si sale al Mombrai e dall'altra parte si scende nella valle di Santa Maria nella giurisdizione del vescovo di Coira, a dieci miglia dalla valle Venosta, ampia e fertile, soggetta all'Austria. Tra i paesi di Molina, di Premadio e di Fraele hanno costruito un'altra chiusa simile alle altre, ma più robusta, distante da Bormio cinque miglia, attraverso la quale si apre il passaggio più facile, anche se più lungo, non solo verso la valle di Santa Maria, ma anche verso l'Engadina inferiore.


Bormio e la Reit

La giurisdizione di Bormio fu così difesa da ogni parte grazie alla posizione e alle chiuse delle valli, da rimanere sicura e protetta dai nemici. Dai duchi di Milano ebbe molti privilegi, dei quali in certa parte gode e fruisce tuttora, ma non completamente come prima, per causa del dominio dei Reti, ai quali è sottoposta. Per ciò la si considera per nome e per governo distinta dal resto della Valtellina, che è quattro volte e oltre più grande, larga e fertile.
Benché Bormio sia famoso è tuttavia isolato con alcuni paesi e contrade a lui soggetti; la sua giurisdizione si estende in linea retta per circa dieci miglia e in larghezza per circa un quarto, eccetto vicino a Bormio dove si allarga per due miglia. Comprende alcuni monti e due lunghe valli, quantunque strette; una a destra, chiamata valle Furva, di sette miglia fino a Vico Magnavacca e di altre sette, attraverso il monte Gavia, fino alla giurisdizione da una parte, a sinistra, in val di Sole, soggetta al serenissimo arciduca Ferdinando e dall'altra parte in Valcamonica, soggetta a Brescia. L'altra valle, a sinistra, lunga sette miglia, è chiamata valle di Pedenosso con un passaggio alpino di otto miglia fino al paese di Livigno, sui confini dell'Engadina, soggetto alla giurisdizione di Bormio; è abbondante di carni, di formaggio e di burro, manca però di vino e di castagne, che sono importati dalla Valtellina, poiché lì per il freddo eccessivo non può essere piantata né vigna né albero di castagno; di quando in quando manca di frumento, di legumi e di altre granaglie.
Invece la Valtellina, dalla predetta divisione di Serravalle fino al confine del lago di Como, si estende in linea retta per cinquantacinque miglia; all'inizio del lago di Como è larga due miglia e mezzo, in qualche luogo due, in altri uno e mezzo, in un luogo uno ed infine mezzo miglio; verso il termine, al confine di Serravalle, non supera il mezzo miglio e da ultimo non raggiunge la larghezza di un quarto di miglio. Sia in pianura che sui due pendii della montagna vi sono borgate importanti e numerosi villaggi con diverse valli, molto fertili e ricche non solo di carni, formaggio e burro, ma anche di vino e di castagne e con grande abbondanza di frumento e di legumi.

V'è poi il versante a sinistra risalendo la Valtellina, disseminato di paesi e borgate, che è così ricco di vigneti, che le viti si sviluppano per quaranta miglia e salgono ovunque sul monte per almeno un miglio, in alcune parti per due, e in altre anche più, tanto che oltre alla richiesta della stessa valle una grande quantità di vino è esportata ogni anno, soprattutto in Germania."
Nel 1617, a Basilea, viene pubblicata l'opera "Pallas Rhaetica, armata et togata" di Fortunat Sprecher von Bernegg, podestà grigione di Teglio nel 1583 e commissario a Chiavenna nel 1617 e nel 1625; vi si legge (trad. di Cecilia Giacomelli, in Bollettino del Centro Studi Storici dell’Alta Valtellina, anno 2000): ""Dapprima ci recheremo nel territorio di Bormio, che si trova nella parte alta ed è circondata tutt'intorno da alte montagne, come pure da una cinta di mura. Bormio è collegata alla Valtellina solo da uno stretto passaggio, attraverso cui scorre il fiume; in questo luogo in tempi antichi si trovava una fortificazione per la difesa del territorio. Il territorio del Bormiese si divide in cinque Vicinanze, che possiamo anche definire cinque piccoli comuni.
I Il primo è il territorio principale di Bormio, che dà il nome all'intera zona. La ridente località, fortificata da alte torri, ha subito notevoli danni a causa dei numerosi incendi. A Bormio hanno la loro sede l'arciprete, i canonici e le autorità. Al territorio appartengono i paesi di Piazza, Piatta, Oga e Fumarogo. Fumarogo significa fumans rogus, ossia pira fumante e deve il suo nome ad una triste circostanza. Infatti, quando al tempo di Filippo Maria Visconti i Veneziani rasero al suolo la Valtellina e penetrarono nel Bormiese, gli abitanti del luogo li attaccarono e li cacciarono. Per non infestare l'aria, i loro cadaveri vennero arsi. Nel 1503, nel giorno di Santa Lucia, questa zona fu funestata da un incendio.
II Il secondo comune è quello di Valfurva (Val Forba)...
III Il terzo comune è Valdidentro (la valle interna) ...
IV Il quarto comune è la Valdisotto (valle di sotto) ...
V Il quinto comune, la valle di Livigno ...

Nomi di tutti i podestà della Contea di Bormio a partire dall'anno 1512
1512 Johann Planta di Turm
1513 Kaspar Planta di Zuoz
1515 Martin Planta di Guarda nell'Engadina Inferiore
1517 Johann Antoni Zanoli di Poschiavo
1519 Mathis Florin dal Pràttigau
1521 Gaudenz Bischoff dal Domleschg
1523 Hans Fisel di Malans
1525 Engelhard Briigger di Parpan
1527 Balthasar Buosch di Vaz
1529 Georg Hermann di Maienfeld
1531 Simon Donau
1533 Difrig Effan di Schlans
1535 Bartholome Kunz da Davos
1537 Peter Balmatter
1539 Johann Sigron da Obervaz
1541 Johann Dolf di Jenins
1543 Ott Fyt di Langwies
1545 Jakob Toscan da Mesocco
1547 Heinrich Rinold da Misox
1549 Laurenz Kdchli da Parpan
1555 Thomas Adank da Flàsch
1556 Valentin Buoltorrn da 'Ferma
1559 Hans Ruosch da Schiers
1561 Hans Capell da Stalla
1563 Hans Florin da Obersaxen
1565 Ott Fyt, già citato
1567 Joder Avers
1569 Christen Trepp dal Rhcinwald
1571 Andreas Aliesch dal Pràttigau
1573 Meng Janctt da Schleins
1575 Martin Florin da Ruis
1577 Michel Wehrli da Saas
1579 Johann Diotta da Stalla
1581 Gaudenz Canova5() da Obersaxen
1583 Jakob Salet da Fideris
1585 Peter Stampa dalla Val Bregaglia
1587 Peter Joanello di Calanca
1589 Matthias Gregori
1591 Johann Hermann dalla Val Monastero
1593 Wieland Buchli da Safien
1595 Hans Buol da Seewis
1597 Daniel Urs dalla Val Monastero
1599 Joos Hungcr da Tschappina
1601 Hans Pitschen da Malans

Dopo la Riforma
1603 Johann Sigron da Obervaz
1605 Johann Caveng da Kàstris
1607 Meinrad Buol da Davos
1609 Jakob Candrian dalla Val Monastero
1611 Leonhard Camenisch da Rh.dziins
1613 Georg Schmid da Saas

Dopo la ribellione e la riconquista
1639 Joos Crest da Jenaz in nome degli eredi di Christen Florin
1641 Oswald von Capol dalla Val Monastero
1643 Moses Simonett dallo Schams
1645 Andreas Biàsch da Porta
1647 Dusch von Cadusch da Obervaz
i 649 Moses Simonett, già citato
1651 Samuel Kasper da Maienfeld
1653 Johann Janill da Schleins
1655 Balthasar Splendor da Calanca
1657 Peter Battaglia da Churwalden
1659 Jakob Catogg dalla Val Monastero
1661 Johann Berchter da Disentis
1663 Juli Pellizzari dallo Schanfigg
1665 Paul Marquard da Bergi.in
1667Anton Liver dallo Heinzenberg
1669 Kaspar Schwarz da Davos
1671 Niklaus Rimathe di Schleins.

Abitando nelle immediate vicinanze del confine, i valligiani godono da sempre di notevoli diritti e libertà. Per questo, al fine di evitare irregolarità e situazioni spiacevoli nelle votazioni, si procede per estrazione utilizzando fagioli neri e bianchi. All'inizio di maggio ci si riunisce per la distribuzione delle cariche pubbliche; per l'occasione presenziano nel grande consiglio di zona sessanta rappresentanti del popolo per la zona principale di Bormio, altrettanti per le tre valli, mentre Livigno partecipa solamente con tre. I rappresentanti del popolo eleggono due Ufficiali che ricoprono la carica più alta, e i Consiglieri. Sedici consiglieri giudicano in materia penale: dieci di essi sono di Bormio, mentre i rimanenti sei provengono dalle valli. La materia civile compete invece a tredici consiglieri o emettitori di sentenze, tutti provenienti da Bormio. La valle di Livigno dispone, per i casi più semplici, di un proprio balivo civile. Per l'emissione delle sentenze queste popolazioni seguono determinate leggi locali e adottano ordinamenti propri. Tutti i ricorsi pervengono ai consiglieri delle Tre Leghe nella dieta federale. Il territorio di Bormio ha il proprio capitano militare e i propri ufficiali che presiedono un drappello di 500 uomini."

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Molto interessante, per la situazione di Bormio nel primo quarto del Seicento, anche la testimonianza di Giovanni Tuana, nel “De rebus Vallistellinae” (“Fatti di Valtellina”, a cura di Tarcisio Salice, traduzione dal latino di Abramo Levi, Sondrio, Società Storica Valtellinese, 1998):
Bormio, estremo lembo della regione e dell'Italia, segna il confine con Reti e Germani tramite montagne scoscese e aspre poste a settentrione a mo' di baluardo; a oriente confina con le Venezie e il Trentino, a cui si giunge attraverso la Valfurva e il passo Gavia, sempre di difficile ascesa e coperti di nevi perenni; a occidente la via si apre verso i Reti dell'Engadina e i Sammariani, attraverso una valle buia per le [sue] gole, ma con numerosi villaggi; a sud si trova la Valtellina.


Bormio e la Reit

Il borgo di Bormio, celebre per antichità, per posizione del luogo, ampiezza, religiosità, chiese, edifici, appare per la verità molto più grande se osservato da lontano che da vicino; infatti, afflitto da stragi e varie calamità, devastato da saccheggi di guerra e arso da pochi anni da un incendio appiccato dalla licenza dei soldati, è stato abbandonato da moltissimi abitanti tanto che, costretti a cercare altrove una sede, hanno lasciato gran parte del borgo desolata e sepolta dalle sue stesse ceneri e rovine.
I Bormini godono di proprie leggi e hanno propri governanti, eletti ogni due anni in assemblee comunitarie, alle quali sono ugualmente ammessi i più umili e i più ragguardevoli purché all'altezza di esercitare la carica; in tal modo si evita ogni possibilità di invidia e di ambizione. I maggiorenti, poiché si fanno valere per ingegno e censo, e poiché non vengono facilmente destituiti da colpi di mano, hanno cura che i giovani siano educati in teologia, in diritto e in medicina nelle accademie d'Italia, Germania, Francia e nelle loro province: assicurando con operosità, in tal modo, a se stessi, alla patria, alla famiglia sia lustro sia vantaggio. Alcuni, anche del popolo, e non sono pochi, esercitano la mercatura; il volgo è dedito all'agricoltura e alla pastorizia: la popolazione è ingegnosa, nata per portare a compimento con facilità tutto quanto ha intrapreso.
La campagna produce raccolti abbondanti, più di quanto serva agli abitanti, ma soprattutto abbonda di latticini e alimenti; i monti, tranne quelli posti a settentrione, sono assai adatti alla fienagione, alla raccolta di legname, al pascolo, nonché alla caccia e all'uccellagione. A settentrione si trovano monti calcarei e gessosi, attraverso i quali, con lun Non lontano dai bagni, verso occidente, la strada, quando serve, viene chiusa da un'antichissima torre, con due porte. Da un lato e dall'altro infatti strapiombano le rupi, alte fino al cielo e incombenti sulla testa dei passanti, e il fiume che corre sotto il precipizio impedisce ogni altra possibilità di passaggio da quelle parti.
I passi retici distano dalla torre e dai citati bagni dieci miglia: si stendono su un vasto piano a stento libero dalla neve in piena estate: qui riposano pellegrini e postiglioni nella casa cantoniera. Ora però dobbiamo tornare da quelle aspre giogaie ai più placidi tetti di Bormio.
Per la natura del sito il paese è aperto ai venti da ogni lato; pertanto il clima è ugualmente freddo e salubre; vi scorre il fiume Frodolfo che nasce dalle nevi eterne della Valfurva; con lo stesso sono irrigati i vasti prati dei borghigiani, volti a mezzogiorno. Non lontano dal paese, ad occidente, vi era stata un tempo una difesa, peraltro con un fossato e un bastione rudimentale, costruita dagli Spagnoli nell'anno 1620 per frenare le incursioni dei Reti, poi consegnata alle truppe pontificie e, infine, occupata dai Francesi. Rasa al suolo per decisione unanime dei capi, ora sene vedono i ruderi sotto mucchi di terra.
Nel borgo vi sono undici chiese: quella antica della Madonna, detta del Sassello per la rupe sulla quale sorge, S. Antonio a Combo oltre il Frodolfo, S. Spirito, S. Vitale, S. Lorenzo, SS. Fabiano e Sebastiano, S. Francesco, S. Barbara, S. Bernardino, S. Ignazio di Loiola, ove si trova l'ospizio dei Gesuiti. Ma la chiesa più importante per antichità del culto è consacrata ai SS. Gervasio e Protasio: è chiesa arcipresbiterale, preposta a tutte le parrocchie del contado; nella cura d'anime [l'arciprete] è coadiuvato dai canonici. Questa chiesa, prima di essere bruciata, fu completamente saccheggiata dagli eretici bernesi e retici nell'anno già ricordato: la suppellettile sacra fu impiegata per giochi profani, l'acqua battesimale fu usata per abbeverare i cavalli dei soldati, il tempio santissimo fu adibito a cucina e stalla. Taccio il resto: il crisma e l'olio santo consacrato per i morenti furono utilizzati per ingrassare le calzature dei soldati e per lucidarne le borchie, i calici, destinati a contenere il sangue divino, [furono] oltraggiati sulle mense degli ubriachi, e infine, affinché non mancasse il sacrilegio, la santissima pestilenze, diedero il nome di Fumarogo alla località, per il fumo dei roghi.
Fitte nel borgo sono le torri, e a tutt'oggi sono chiuse da portoncini di ferro. Lì puoi ammirare sia l'opulenza dei tempi antichi, sia il contrasto con le sopravvenute rovine, per cui, al di là della magnificenza che conferiscono al luogo, esse sono quasi inutili. Le vie in tutto il borgo sono molto ampie; lo potresti considerare una città, se il numero degli abitanti corrispondesse al luogo. Nel Bormiese non vi è posto per la vite; ci si serve con liberalità e in abbondanza del vino importato, e del migliore: il luogo infatti è congeniale ai piaceri: una volta si sarebbe detto sibaritico, se non fosse stato temperato dal pungolo delle guerre e della pietà. I cittadini sono valenti e civilissimi.
Le falde dei monti sono assai adatte alla coltivazione, le parti medie e alte buone sia a pascolo che a bosco. Le fonti in tutta la zona sono fresche e leggerissime, i cereali ottimi e saporosi.
Il resto del contado di Bormio si divide in valli: la Valfurva, ovvero quella orientale, quella occidentale ossia la Val di Dentro, quella meridionale ovvero Cepina e Oga, paese montano.”
La visita pastorale del Ninguarda rappresenta un’eccezione: le autorità grigione, infatti, avevano promosso, nella seconda metà del cinquecento, una politica tesa a favorire la penetrazione della Riforma in Valtellina e nelle contee di Chiavenna e Bormio, il che aveva creato un clima di sempre maggiore tensione, essendo qui la popolazione pressoché interamente cattolica. Questa politica portò, in particolare, all’espulsione dei Padri della Compagnia di Gesù che erano a Bormio predicavano, confessavano e si dedicavano all’istruzione. La riforma non attecchì, però: a Bormio solo tre persone vi aderirono.
La situazione andava precipitando. Nel 1618 in Europa ebbe inizio la Guerra dei Trent’Anni, nella quale Valtellina e Valchiavenna furono coinvolti come nodi strategici fra Italia e mondo germanico; a Sondrio, al colmo delle tensioni fra cattolici e governanti grigioni, che favorivano i riformati in valle, venne rapito l’arciprete Niccolò Rusca, condotto a Thusis per il passo del Muretto e fatto morire sotto le torture; la medesima sera della sua morte, il 5 settembre 1618, dopo venti giorni di pioggia torrenziale, al levarsi della luna, venne giù buona parte del monte Conto, seppellendo le 125 case della ricca e nobile Piuro e le 78 case della contrada Scilano, un evento che suscitò enorme scalpore e commozione in tutta Europa. Due anni dopo, il 19 luglio del 1620, si scatenarono la rabbia della nobiltà cattolica, guidata da Gian Giacomo Robustelli, la sollevazione anti-grigione e la caccia al protestante, nota con l’infelice denominazione di “Sacro macello valtellinese”, che fece quasi quattrocento vittime fra i riformati. Fu l’inizio di un periodo quasi ventennale di campagne militari e battaglie, che videro nei due schieramenti contrapporsi Grigioni e Francesi, da una parte, Imperiali e Spagnoli, dall’altra.
Bormio si trovò di nuovo in mezzo ad un conflitto fra potenze contrapposte: la scelta fu quella di persuadere il Podestà grigione e riformato Christel Floris di Partenz lasciare il Contado, con una scorta di armati che gli garantisse l’incolumità. I Bormini non erano entusiasti di quello che era accaduto, ma temevano possibili atti di forza dei Valtellinesi, per cui conclusero con loro, il 24 luglio del 1620, un patto di alleanza tra Bormini e Valtellinesi. I Grigioni tentarono di riportare Bormio dalla propria parte offrendo 30000 zecchini veneti per avere libertà di passaggio nella campagna che stavano organizzando per riprendere la Valtellina. I Bormini, per tutta risposta, uccisero al ponte di Turripiano il loro ambasciatore e cancelliere di Zug, Giovanni Zuccaio, col suo segretario. Frattanto i Grigioni, calando dalla Valmalenco, occuparono Sondrio e ricevettero aiuti da Berna e Zurigo, oltre che dai Veneziani. I Valtellinesi ottennero, invece, protezione dalla Spagna ed il Duca di Feria, governatore di Milano, dichiarò la guerra ai Grigioni. Bormio era di nuovo minacciata, perché le milizie bernesi e zurighesi, al comando del colonnello Müller, e quelle delle Tre Leghe, al comando del colonnello Güler, attraverso Livigno, il passo d'Eira e la Val Viola, marciarono sulla città, vincendo ogni resistenza.
Una Bormio spopolata perla fuga di buona parte della popolazione sui monti, fu per 12 giorni sottoposta ad un saccheggio (il terzo nella sua storia) profanatore dai soldati avidi di vendetta e di bottino. Questi sfogarono la popria furia, come scrive il già citato Gioacchino Alberti, "commettendo ogni scelleratezze e profanamenti particolarmente nelle cose sacre, depredando le chiese, tagliando le imagini e spezzando li altari in minuzie, con depredar Bormio molto fornito di mobili, non avendo avuti disturbi di guerre dal 1376, al tempo di Galeazzo in poi, per più di tre secoli. Questi disordini furono commessi dalli Bernesi e Zurigani, non ostanti li giuramenti fatti di non metter mano alle chiese, donne e figliuoli ed anco agli uomini, fuorché ne' fatti d'arme; ed avendo intesi Giovanni Güller, comandante della nazion griggiona, tanti disordini, particolarmente contra le cose sacre e chiese, ne ricevè gran sdegno e gettò il capello in terra, prottestando, benché fosse Prottestante, che gli erano imminenti sinistri incontri dalla mano di Dio". L'Alberti un fatto prodigioso legato a quelle nere giornate: le empie milizie spararono ripetutamente colpi d’archibugio contro il dipinto della Beata Vergine Maria e dei Santi Gervasio e Protasio che stava sopra il portale dell’antica chiesa parrocchiale, ma questo non ne ricevette danno alcuno.
Le milizie proseguirono scendendo la valle e saccheggiando Sondalo, Tiolo, Grosio e parte di Grosotto. A Tirano avvenne la battaglia decisiva: l'11 settembre del 1620 le truppe dei ribelli cattolici, aiutate da contingenti spagnoli, sconfissero quelle riformate. Queste il 14 settembre abbandonarono Bormio ripiegarono in Engadina, lasciando dietro di sé una situazione di desolante devastazione che riportava alla memoria lo scempio operato dalle truppe viscontee nel 1376. Ci si misero, infatti, anche gli Spagnoli che inseguivano le truppe retiche ad aggravare lo scempio. Scrive, nella sua cronaca, Giasone Fogliani che questi, anziché aiutare la popolazione provata, "incominciarono anche essi a rubbare, aggravare et a farsi contribuire dal povero paese [...] et duemilla guastadori incominciando un forte reale dentro in mezzo della campagna, qual occupava seimilla pertiche di terreno dei migliori, senza pagar cosa niuna, così per niente, e essi occuporno la maggior parte delli nostri campi nel forte et in strade." Mentre si costituiva la Repubblica di Valtellina, Bormio chiese agli Spagnoli di conservare le tradizionali autonomie. Questi accondiscesero, a patto i poter edificare a poche centinaia di metri dal borgo il forte Dos de Lugo.
La pesante intrusione della Spagna in Valtellina e nel Bormiese suscitò in Europa una pronta reazione:  nel febbraio 1624 si costituì una lega antispagnola, fra Francia, Venezia, Leghe Grigie e Savoia. Avvampò di nuovo la guerra, ed il marchese di Coeuvres, a capo delle truppe della lega, assediò e prese Tirano e Sondrio. Le truppe della lega ripresero anche Bormio, che il 3 dicembre 1624 accettò di tornare sotto la protezione delle Tre Leghe Grigie. Il 5 marzo 1626, il Trattato di Monzon riportò la Valtellina ed i Contadi di Bormio e di Chiavenna alla situazione antecedente al 1620, con la garanzia, però, che l’unica religione ammesse era quella cattolica.
Ma la Valtellina godette solo per breve periodo della riguadagnata pace: il nefasto passaggio dei Lanzichenecchi portò con sé la più celebre delle epidemie di peste, descritta a Milano dal Manzoni, quella del biennio 1630-31 (con recidiva fra il 1635 ed il 1636). L’Orsini osserva che la popolazione della valle, falcidiata dal terribile morbo, scese da 150.000 a 39.971 abitanti (poco più di un quarto). La stima, fondata sulla relazione del vescovo di Como Carafino, in visita pastorale nella valle, è probabilmente eccessiva, ma, anche nella più prudente delle ipotesi, più di un terzo della popolazione morì per le conseguenze del morbo.
Bormio riuscì ad evitare il flagello nel 1630, grazie ad un cordone sanitario alla storica stretta di Serravalle. Ugualmente, però, la peste si affacciò alla Magnifica Terra nel 1635. A tale flagello è connesso quello della caccia alle streghe: fra il 1631 ed il 1633 vennero decapitate e bruciate trentaquattro persone fra uomini e donne. Procerssi e condanne a morte, peraltro, proseguirono per tutto il seicento ed il settecento. I Gesuiti tornarono in Bormio e fondarono un Ginnasio destinato ad avere storia illustre.
L’iniziativa della Francia riportò la guerra in Valtellina, con le campagne del francese duca di Rohan, alleato delle Tre Leghe Grigie, contro Spagnoli ed Imperiali. Il duca, penetrato d'improvviso in Valtellina nella primavera del 1635, con in una serie di battaglie, a Livigno, Mazzo, S. Giacomo di Fraele e Morbegno, sconfisse spagnoli e imperiali venuti a contrastargli il passo. Prima della vittoria francese, però, Bormio dovette subire, per tre settimane, un quarto catastrofico saccheggio, il peggiore, ad opera degli Imperiali del Fernamont, alleati della Spagna: le cronache narrano che in una sola giornata questi fecero 142 vittime. Poi, nel 1637, la svolta, determinata da un inatteso rovesciamento delle allenze: i Grigioni, che pretendevano la restituzione di Valtellina e Valchiavenna (mentre i Francesi miravano a farne una base per future operazioni contro il Ducato di Milano), si allearono segretamente con la Spagna e l'Impero e cacciarono il Duca di Rohan dal loro paese. Le premesse per la pace erano create e due anni dopo venne sottoscritto il trattato che pose fine al conflitto per la Valtellina: con il Capitolato di Milano del 1639 i Grigioni tornarono in possesso di Valtellina e Valchiavenna, dove, però l’unica religione ammessa era la cattolica. I Grigioni restaurarono l'antica struttura amministrativa, con un commissario a Chiavenna, un podestà a Morbegno, Traona, Teglio, Piuro, Tirano e Bormio, ed infine un governatore ed un vicario a Sondrio. Terminava il periodo più nero della storia di Bormio e della Valtellina: la cronaca di Giasone Foliani stima che, per le conseguenze della peste e della guerra, la popolazione bormiese scese da 15.000 a 10.000 abitanti.

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Seguì un periodo di chiusura e di rivendicazione di istanze esclusivistiche: su istanza dei Bormini, per esempio, la Dieta delle Tre Leghe Grigie stabilì, il 14 luglio 1749, che nessun forestiero potesse aprire o gestire osterie in Bormio. Una Bormio che, peraltro, si divideva in fazioni per le rivalità e contrapposizioni fra le sue maggior famiglie, rivalità che culminò nella cacciata dei padri Barnabiti, successi ai Gesuiti, nel 1785.
Il Settecento fu, nel complesso, in Valtellina e Valchiavenna, secolo di ripresa economica, non priva, però, di arresti e momenti difficili, legati soprattutto ad alcuni inverni eccezionalmente rigidi, primo fra tutti quello memorabile del 1709 (passato alla storia come “l’invernone”, “l’inverno del grande freddo”), quando, ad una serie di abbondanti nevicate ad inizio d’anno, seguì, dal giorno dell’Epifania, un massiccio afflusso di aria polare dall’est, che in una notte gelò il Mallero e parte dell’Adda. Ed ancora, nel 1738 si registrò una nevicata il 2 maggio, nel 1739 nevicò il 27 ed il 30 marzo con freddo intenso, nel 1740 nevicò il 3 maggio, con freddo intenso e nel 1741 nevicò a fine aprile, sempre con clima molto rigido e conseguenze disastrose per le colture e le viti.
Alla metà del settecento risalgono queste note dello storico Francesco Saverio Quadrio, nelle “Dissertazioni storico-critiche sulla Rezia…” (1757):
Il Contado di Bormio è il Confine, e il Termine della Valtellina ugualmente, che dell'Italia, il quale dal Settentrione, mediante i Retici Gioghi, da' Germani e da' Reti l'una e l'altra divide. Dall'Oriente ha i Veneziani, e i Tirolesi, a' quali per la Val Furva, e per il Monte Gavio si passa, Strada in oggi scoscesa, e per le nevi difficile; ma da' Romani ab antico assai frequentata. Dall'Occidente per una Valle, oscura veramente, ed angusta, ma pur di Terre, e di Borghi assai zeppa, confina con gli Engaddini: e fa via altresì a Poschiavo; e dal Mezzogiorno si continua colla Valtellina, di cui è Parte: nè cominciò a far Governo da sè, che quando smembrato da essa, ne furono i Venosta dagl'Imperadori investiti: e fu tal Porzione per ciò da loro eretta in Contado. Esso è diviso in cinque Comunità, che sono Bormio, la Val Furva, la Valle di Pedenosso, la Valle di Cepina, e la Valle di Luvino: le quali cinque Comunità comprese erano dagli Antichi sotto il nome di Breoni o Breuni: e tali cinque Comunità sono da alte Montagne all'intorno circondate per modo, che non lasciano che una sola apertura, chiamata la Serra, per dove l'Adda nel rimanente della Valtellina trapassa, con a lato contigua sul Piè del Monte la Via.
Bormio (Breunum) in Tedesco Worms, giace in una pianura al Piè de' predetti Retici Gioghi, in capo alle dette Valli, o più tosto nel cuore delle medesime situato, onde quasi da Centro si partono. L'Adda da un lato, e il Fredolfo da un altro lo chiudono, che non molto sotto esso confondono le loro acque. Fu Luogo assai popolato, e a sofficienza ampio, a cui giustamente però il nome di Città conveniva; e ch'era già di varii Castelli, e Fortezze all'intorno munito. Veggonvisi in fatti pur ora diverse Torri all'intorno, che sono però più per segnale dell'antica sua Nobiltà, che per servirgli di presente a difesa: e sul Ridosso del Monte, che il fiancheggia dal Settentrione, vi si conservano altresì le rovine d'un buon Castello, ch'ivi era, con una Torre separata, e da un lato, che imbocca colla veduta la Valle per guardia. Nella Pianura poi dall'opposto Fianco un Forte vi era, che dal Duca di Feria, che ve l'aveva fatto costruire, preso aveva il suo Nome. Fu anche Luogo assai ricco, dove fioriva maravigliosamente il Commercio: da che ivi facevano scala tutte le Merci, che dall'Italia alla Germania passavano; e da questa all'Italia: onde pure una magnifica, e gran Dogana ivi tuttavia resta, compassionevole avanzo, e indizio di quel, ch'era una volta. Ebbe quivi altresì molte illustri Famiglie, che grandeggiavano ne' tempi andati, fralle quali trovo in antiche Carte specificati particolarmente gli Agnelli, gli Alberti, gli Andreani, gli Anesini, oggi Nesini chiamati, gli Angeli, gli Arrivabeni, i Bontempi, i Casolari, i Caspani, i Clari, i Coleoni, i Conforti, i Cremona, i Curti, i Diviziani, i Ferravi, i Fini, i Fiorini, i Fogaroli, i Fogliani, i Furvi, i Giannazzini, i Giuliani, i Gollredi, glimeldi, i de Marchis, i Marioli, i Moresi, i Murchii, i Pascolini, i Peri, i Presta, i Sermondi, i Zenoni, i Zucchi.

A Bormio s'aspettano anche i Villaggi, o Terre di Piazza, Piatta, Oga, e Fumarogo, che con esso una sola Comunità costituiscono.
Nel Settecento il malcontento contro il dominio delle Tre Leghe Grigie nei tre terzieri di Valtellina, ma anche in Valchiavenna, crebbe progressivamente, soprattutto per la loro pratica delle di mettere in vendita le cariche pubbliche. Tale vendita spettava a turno all'una o all'altra delle Leghe e chi desiderava una nomina doveva pagare una cospicua somma di denaro, di cui si sarebbe rifatto con gli interessi una volta insediato nella propria funzione, esercitandola spesso più per amore di lucro che di giustizia. Gli abusi di tanti funzionari retici, l'egemonia economica di alcune famiglie, come quelle dei Salis e dei Planta, che detenevano veri e propri monopoli, diventarono insopportabili ai sudditi. Il malcontento culminò, nell'aprile del 1787, con i Quindici articoli di gravami in cui i Valtellinesi (cui si unirono i Valchiavennaschi, ad eccezione del comune di S. Giacomo) lamentavano la situazione di sopruso e denunciavano la violazioni del Capitolato di Milano da parte dei Grigioni, alla Dieta delle Tre Leghe, ai governatori di Milano e, per quattro volte, fra il 1789 ed il 1796, alla corte di Vienna, senza, peraltro, esito alcuno. Per meglio comprendere l’insofferenza di valtellinesi e valchiavennaschi, si tenga presente che la popolazione delleTre Leghe, come risulta dal memoriale 1789 al conte di Cobeltzen per la Corte di Vienna, contava circa 75.000 abitanti, mentre la Valtellina, con le contee, superava i 100.000. I Bormini, però, non si associarono al coro delle lamentele: per loro la sudditanza alle Tre Leghe era molto più formale che sostanziale. Da altri versanti, cioè dalla Valtellina, poteva venire un’autentica minaccia alla loro autonomia. Fu, comunque, la bufera napoleonica a tagliare il nodo di Gordio, con il congedo dei funzionari Grigioni e la fine del loro dominio, nel 1797. I Bormini, in verità, temendo di perdere la loro plurisecolare autonomia, erano oltremodo riluttanti a separare la propria sorte da quella delle Tre Leghe, ma si indussero ad aderire alle istanze dei Valtellinesi per paura di ritorsioni.
Napoleone intendeva inizialmente associare Valtellina e contadi, su un piano di parità, alle Tre Leghe Grigie; queste, però, dopo un referendum, rifiutarono, cosicché egli, il 22 ottobre 1797, decise di annettere queste terre alla Repubblica Cisalpina. Bormio aveva tentato, invano, il 17 ottobre 1797 di essere dichiarato provincia separata dalla Valtellina.

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Era la fine definitiva del Contado di Bormio e dei suoi autonomi statuti. Invano, fra il 1814 ed il 1815, dopo la caduta di Napoleone, Bormio tentò di riconquistare l’autonomia aggregandosi ai Cantoni Svizzeri: il Congresso di Vienna sancì la sua definitiva inclusione nel Regno Lombardo-Veneto, dominio degli Asburgo d’Austria. La severa amministrazione asbuargica, peraltro, non era scevra di iniziative volte a migliorare la situazione infrastrutturale dei suoi domini: così, nel 1825, su progetto dell’ingegner Donegani, venne tracciata quella strada dello Stelvio che costituì un autentico capolavoro di ingegneria. Con l’ottocento, e più ancora con il novecento, Bormio venne ad assumere, nel quadro del Regno d’Italia, quel profilo a vocazione prevalentemente turistica che ancora oggi la caratterizza. Un turismo legato alle cure termali, alla villeggiatura e, in epoca più recente, alla pratica dello sci.
Alle guerre risorgimentali parteciparono diverso bormini: Luigi Andreoli (1866), Enrico Bracchi di Gaspare (1860-61), Martino Bradanini (1866), Stefano Bestogne (1866), Pietro Cantoni (1866), Giuseppe Confortola (1866), Fortunato Canclini (1866), Valentino Cantoni (1866), Luigi De Gasperi (1866), Giuseppe De Monti (1866), Nicola Erlingher (1866), Nicola Martinelli (1866), Giuseppe Meraldi (1866), Luigi Pedrini (1866-70), Giacomo Pedrini (1866-70), Antonio Pedrana-Battistella (1866), Pietro Pedranzini (1866), Francesco Raisoni (1866), Giuseppe Rini (1866), Antonio Rini (1866), Felice Cesare Sartorelli (1866), Flaminio Schena (1859-66), Vincenzo Secchi (1866), Domenico Schena (1866) e Gervaso Tenni (1866).
La statistica curata dal prefetto Scelsi nel 1866 ci offre il seguente quadro della popolazione: a Bormio vivevano 1609 persone, 829 uomini e 780 donne, in 350 famiglie e 236 case, di cui 16 vuote. In case sparse, infine, vivevano 21 persone, 11 uomini e 10 donne, cioè 3 famiglie per 7 case, di cui 2 vuote.
Pressoché costante la crescita della popolazione dalla proclamazione del Regno d’Italia nel 1861 al 2001: dai 1714 abitanti del 1861 si è passati a 1806 nel 1871, 1878 nel 1881, 1953 nel 1901, 2126 nel 1911, 2169 nel 1921, 2359 nel 1931, 2276 nel 1936, 2733 nel 1951, 3293 nel 1961, 3905 nel 1971, 4089 nel 1981, 4104 nel 1991 e 4096 nel 2001.

Ecco come presenta il paese la II edizione della Guida alla Valtellina curata da Enrico Besta ed edita dal CAI nel 1884:
Alberghi. - Albergo della Posta, di Luigi Clementi; Stazione del Club Alpino — Albergo fola, nella stessa via dell'Indipendenza — Albergo Cola, sulla piazza della Chiesa — Albergo Berbenni.
In tutti e quattro, ma nei primi tre specialmente, puossi trovare comodo alloggio e buon vitto a buon mercato. Alcune famiglie affittano stanze o appartamenti mobiliati a convenientissimi prezzi.
Caffè. — Caffè Cola, sulla Piazza. — Caffè in Via Vittoria.
Vetture. - Presso il Mastro di Posta, l'Albergo della Posta e l'Albergo Cola trovansi vetture a uno o due cavalli per tutte le direzioni. La Diligenza vi giunge una volta al giorno da Sondrio, e nella state passa anche lo Stelvio.
Bormio (1225 m.1878 ab.), capoluogo di Mandamento, quantunque in vicinanza di ghiacciai, ha un clima mite e temperato, come lo dimostra la vegetazione ond'è ubertoso il suo piano, fondo lacustre. Vi prospera il frumento, e nei giardini maturano ciliege, pere, mele, susine, fragole e perfino qualche varietà d'uva. Tanta mitezza di clima, in luogo si elevato, debbesi alla postura favorevolissima, essendochè le roccie calcaree della Reit, mentre deviano i venti del nord, riflettono i raggi solari sul piano. Le "numerose chiese, i ruderi di castelli, di torri e di fortificazioni, che dominavano dalle alture provano che Bormio aveva in altri tempi l' importanza d'una vera e prosperosa città.
Era allora una stazione dell'attivissimo commercio di transito tra la Lombardia e la Venezia e le città tedesche. Allora annoverava trentadue torri, e vuolsi contasse più di diecimila abitanti. Guerre, incendi, peste, e più di tutto la deviazione del commercio veneziano, che, divenuto già meno attivo dopo la scoperta delle vie alle Indie pel Capo di Buona Speranza, trovò poscia altra via meno lunga e disastrosa, il ridussero per lungo tempo in umile condizione. Ora, per l'affluenza di italiani e stranieri, che cercano salute alle sue acque o vigore al suo clima, mite e saluberrimo, e per la migliorata coltivazione del suo territorio, accenna a riprendere l'antica floridezza…
Notevole è il campanile della chiesa parrocchiale «coll'aerea sua cupula piramidale, arditamente giganteggiante, di struttura svelta e solida ad un tempo, con quei suoi finestroni ogivali, com'è a vedere nei monumenti di stile lombardo (Valenti).» E sono del pari notevoli due affreschi antichi, l'uno di stile bizantino, colla data 1393, sotto l'arco della volta che congiunge la casa parrocchiale col muro dell'attigua chiesa collegiata, e l'altro del 1476 sopra il solo muro rimasto in piedi dell' oratorio che era accanto alla chiesa e che fu distrutto nell'incendio del 1855.
L'attuale chiesa data dal 162i e fu costrutta sulle rovine del vecchio Tempio distrutto dal memorabile incendio appiccato al borgo dalle amiche truppe spagnuole. Ma della chiesa di Bormio sono antiche le memorie. Essa si trova menzionata col titolo di battesimale in un diploma di Carlo Magno dell'803, e in un altro di Lotario dell’824. Per vero dire l'autenticità di questi diplomi è contestata ; ma è indubitato che la chiesa di Bormio era collegiata fin dal secolo XI…
A lato della chiesa sulla piazza sorgeva l'antico palazzo della Ragione. Ora non rimane in piedi che la torre colle campane del Comune. Tra esse trovasi il Campanone che serviva un tempo a chiamare il popolo del Contado all'armi o ai consigli, e che serve tuttora per la convocazione del Consiglio comunale. Le campane di questa torre suonano assieme a quelle del campanile della chiesa solamente quando trattasi di solennità a cui il Comune prende parte. anche questa è singolarità di Bormio.
Al di là del Frodolfo, che si passa sopra un ponte in pietra, sta la contrada di Combo colla chiesa di S. Antonio, o, come è più comunemente chiamata, del Santo Cristo, o Santo Crocifisso, per più titoli notabile.
Sono pure degne di essere visitata la chiesa di S. Sebastiano, ove esiste un quadro ad olio di valente pennello, quella di S. Vitale con pregevoli affreschi antichi, e quella di S. Ignazio, che fu già dei Gesuiti, di forma ottagona, colla cupola dipinta da Giovanni Battista Muttoni allievo del celebre prospettico padre Andrea Pozzi. I Gesuiti accettati in Bormio nel 1580, espulsi dalle tre Leghe nel 1611, vi furono riammessi nel 1632 e vi durarono sino alla fine del secolo passato. Nel loro convento ora trovatisi gli uffici del Comune, il Ginnasio e le Scuole elementari, Accanto alla chiesa di S. Vitale. di cui trovasi mensione fin dal 1100, sta la chiesa di S. Spirito, ora ridotta a fienile, le cui pareti sono ancora coperte da antichi affreschi.
Sul poggio della Reit, alle falde del quale s'adagia Bormio, appaiono due muraglioni diroccati «alti, scrive il Valenti, come fantasmi, solitari, bruni, come due sentinelle coll'armatura di ferro, proiettanti la loro lungo ombra sul verde declivio del monte; per l'effetto pittoresco del quadro bisognerebbe farli apposta ove non esistessero.»…
Le case di Bormio sono per la massima parte coperte di legno, e quindi assai soggette ad incendi, che furono più volte fatali a quel borgo. Si riccorda fra i più dannosi quello del 1855, le cui traccio si vedono ancora nelle case lungo la strada che s'addentra nella Valfurva.
Nel territorio di Bormio fiorisce da tempo e sì migliora ogni giorno più l'allevamento di bovini e di suini di ottime razze. La patata è da quasi un secolo fonte di ricchezza per il Contado. Le qualità che vi si producono sono pregevoli tanto da non temere in tutta Europa rivali. Se ne fa larga esportazione. Celeberrimo è poi il miele di Bormio, che per isquisitezza non può essere vinto. Alla coltivazione delle api nel Bormiese, alla fabbricazione del miele e al suo smercio ha dato largo impulso Bartolomeo Bottarini, morto testè. Venne ai piedi delle Alpi dal Piemonte e trovò in quest'industria fonte di fortuna. Il Pelloni prepara un ottimo liquore amaro a cui pose nome Braulio…
Grandioso è l'edificio dei Bagni Nuovi (1366 m.Stazione del Club Alpino); armonica la facciata, davanti alla quale stendesi un giardinetto, il cui suolo è sostenuto in parte artificialmente da arcate. L' edificio venne costrutto negli anni 1834-35; dietro invito, o meglio per ordine del governo austriaco, a spese dei tre comuni di Bormio, Valdidentro e Valdisotto, proprietari delle fonti, i quali consumarono per ciò un capitale di circa 400,000 lire, cui ritrassero dalla vendita dei boschi che possedevano in comunione. La cattiva amministrazione dello Stabilimento Indusse il consorzio dei tre Comuni a venderlo insieme ai Bagni Vecchi ad una Società svizzera pel capitale di L. 60.000..
Gli attuali proprietari posero ogni cura nel renderlo sempre più commodo ed elegante, tantoche ora è dotato di tutto quello che ai tempi nostri puossi esigere da: uno stabilimento di primo ordine destinato a rendere agevole e gradito l' uso di una delle più efficaci acque termali anche a coloro ai quali gli agi confortevoli della vita sono divenuti bisogni confortevoli della vita sono divenuti bisogni. Nessuna meraviglia adunque se lo Stabilimento è divenuto ormai da molti anni nella calda estate, il soggiorno preferito di moltissimi fra i ricchi italiani e stranieri. L' edifizio ha tre piani e può capire più di centoventi persone: una quarantina di celle balneari, munite per lo più di vasche in marmo, rendono possibile in ogni ora l'uso dei bagni, non essendovi penuria d'acqua , perché le fonti possono fornirne oltre 700 litri al minuto, quantità sufficiente per 120 bagni all'ora. Le acque servono anche pei bagni a fango. Nello Stabilimento vi sono sale per la cura idroterapica coi metodi più recenti e più razionali. Dal terrapieno che si stende avanti i Bagni Nuovi lo sguardo abbraccia tutto il verdeggiante bacino triangolare nel quale convergono le varie vallate.


La Reit

Di sotto fino al piano si stendono, in molti e bizzarri seni, campi e prati fra massi calcarei talvolta enormi. Son questi i ruderi di un'antica morena sulla quale giace il villaggio detto Ca di Molina. Più oltre nel piano la solitaria chiesuola di S. Gallo. L'Adda scorre rasentando le falde del monte che sta ad occidente, e sul quale dispiegasi il folto e fantastico bosco di S. Gallo. Lungo la sua sponda sinistra sorgono molti massi erratici. In fondo, al confluente del Frodolfo, le case e la chiesa di S, Lucia, quindi la valle che va restringendosi, e lungh'essa la strada che scendo nella Valtellina. Guardando a destra, allo sbocco della Val Viola, veggonsi le case di Premadio , e più a settentrione, tra le falde scoscese del Monte delle Scale e la sponda dell' Adda, la chiusa fonderia di Premadio. Che se lo sguardo si eleva in alto alle vette dei monti, più mirabile ancora diviene la scena.
A settentrione la dentata cresta della Reit; all'est nna lunga schiera di ghiacciai in fondo ai quali si estolle la triangolare piramide del Tresero. Più vicina è la Cima di Gobbetta pur essa ricoperta di ghiacci. Ad occidente vanno gradatamente elevandosi belle collinette adorne di boschi, di pascoli e di campi, sparsi di chiese e di villaggi. E al di sopra ergonsi maestosamente il Piz S. Colombano, il Rinalpi, la Cima dei Piazzi, co' loro ghiacciai. Tra i fianchi del Piz S. Colombano e le erte pareti calcaree del Monte delle Scale, apresi una valle amenissima, detta Valdidentro , che poscia si svolge a libeccio nella Val Viola. Chiudono la scena i monti oltre ai quali sta la Valle di Livigno, dominati dalla cupola nevosa del Monte Foscagno.
A settentrione e a occidente dei Bagni Nuovi cresce folto e vigoroso un giovane bosco di pini e di larici piantati oltre vent' anni fa e coltivati poi con somma cura. Attraverso il bosco si sono aperti viali strade e sentieri, sicché può dirsi che esso è ormai trasformato in parco. Una bella via corre ombreggiata e quasi piana dai Bagni fino alla Fonte Pliniana in un burrone vicino all'Adda: l'acqua di tale fonte vuolsi migliore di quella di tutte le altre sorgenti termali vicine. Un'altra strada carrozzabile recentissima sale attraverso il bosco dai Bagni Nuovi ai Bagni Vecchi, un quarto d'ora più in alto.
I Bagni Vecchi (1436 m.) sorgono, quasi appiccicati al monte, in un piccolo seno fra le rupi. Lo Stabilimento è formato da tre o quattro fabbricati fra i quali ve n'ha uno costrutto negli anni 1866-67. Lì accanto trovasi la vecchia chiesuola di S. Martino. I Bagni Vecchi sono capaci essi pure di cento venti persone, e sono fatti per coloro i quali, più che l'eleganza e il lusso, desiderano proprietà, commodìtà ed efficacia della cura balnearia non disgiunte dalla modicità nei prezzi. Qui sono le fonti principali, le quali alimentano i due Stabilimenti.
Molte altre abbondanti sorgenti, sgorgando da roccie di dolomia mista a schisti calcarci, precipitano nell'Adda senza che si sia mai sentito il bisogno ditrarne profitto. Ove l'acqua viene a contatto coll'atmosfera formansi non indifferenti masse di tufo calcareo che incrostano le roccie. Le acque depongono eziandio melme dovute, più che al deposito di materie minerali, alle alghe, al cui sviluppo è favorevolissima l'acqua termale.”


Piana di Bormio

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Sul monumento ai caduti nel piazzale della scuola elementare di Bormio sono riportati i seguenti nomi di soldati morti nella prima guerra mondiale: Andreola Igino, Anselmi Pietro, Berbenni don Paolo, Bertolina Pietro, Canclini Casimiro, Canclini Celeste, Canclini Cesare, Canclini Francesco, Cantoni Cesare, Cantoni Emilio, Cantoni Nicolò, Capitani Stefano, Castellazzi Felice, Cisco Tigellio, Confortola Francesco, De Gasperi Domenico, Faifer Giuseppe, Faifer Costantino, Fumagalli Angelo, Gervasi Camillo, Longa Massimo, Meraldi Pietro, Mevi Alfonso, Pedrini Giovanni Maria Francesco, Peloni Luigi Erminio, Peloni Giovanni, Pianta Emilio, Pozzi Nicola, Rainolter Emilio, Rainolter Giuseppe, Rocca Luigi, Roner Cesare, Schena Achille, Spechenhauser Giacinto, Strambini Ernesto, Valota Alessandro.

Ecco lo spaccato che di Bormio ci offre, nel 1928, Ercole Bassi, in “La Valtellina – Guida illustrata” (V edizione):
“Bormio - Notizie artistiche. – Bórmio (m. 1221 -ab. 2173 - P. T., telef. - R. C. - auto per Tirano km. 38, est. per i Bagni, il Giogo dello Stelvio e Spondinig; Valfurva, S. Caterina e Livigno - staz. clim. est. - campo sci - tass. sogg. - Soc. Pro Bormio Climatica - alb.: della Posta con pens. e rimessa per auto, della Torre Bormio, Nazionale, Braulio, Fraele, Clementi - diversi caffè - nolegg. auto e vetture - cinema - teatro filodram. - offellerie - ristoranti - med. - farm. Peloni con carburo e benz.).
Bórmio è antica borgata a vie regolari, sede di Mandamento e di Pretura, Ginnasio che rimonta al 1632, Scuola compierli., in cui si insegna anche il disegno e il tedesco; agenzia della Cassa di Risp. di Milano, della Banca Pop. di Sondrio, del Piccolo Cred. Valt.; ha una coop. di cons. ed agric., una società di M. S., una coop. di lavoro fra muratori, altra fra falegnami ed affini, altra per l'industria bormiese del legno; una soc. elettrica, altra pei Bagni di Bormio, altra «Terme Bormiesi». Possiede una scuola d'arti e mestieri, piccole industrie di ornati, intagli, trafori in legno, secchie, scodelle, boracce, vasi in cemento, lavori a tombolo; molti telai per panno casalingo; una biblioteca del Pio Ist. Scolastico fondata dal Collegio dei Gesuiti nel 1632 con documenti storici e pergamene che rimontano al 1100 e 1300; la biblioteca Sertorio del Clero, con documenti del 1200, ricca di manoscritti del Bardea, Foliani, Picci e di opere teologiche; ecc.; una fornace di calce a fuoco continuo; industria biscotti e caramelle.
Bormio, per il suo clima mite, asciutto, difeso dai venti del nord, è una delle migliori stazioni alpine. Risulta da scritture del 1552 che in quel tempo vi erano castagni e noci sull'Areit. Anche ora, negli orti, maturano pere, susine, mele ed altra frutta, e alligna perfino qualche pianta di vite. Vi si produce miele squisitissimo.
Il territorio di Bormio è ricco di alabastrite bianca sull'Areit, di preziosi marmi, statuario e da costruzione, a Piatta in Val Sobretta, Zebrù, Trepalle, Fraele e in Vai Bruna; di gesso in Val d'Uzza; di alabastrite orientale, agata, onice e marmo giallo sopra Premadio, nonchè di ricche miniere di ferro oligisto in Val Zebrù, a Pedenollo in Val del Braulio, questa coltivata sino al 1875, e della quale ora si studia di riprendere lo sfruttamento…
La parrocchiale, dallo svelto campanile, eretto nel 1551, e dai finestroni ogivali, fu rifatta dopo l'incendio del 1621, col concorso di tutto il contado, ma la memoria di essa risale fino a Carlomagno, in un diploma del quale è ricordata come battesimale. Pregevoli la pala dell'altare di San Antonio del Marni, del 1555; la grande tela dell'organo, dello stesso in concorso col pittore Paolo Colbergh (Monti, pag. 372), o, secondo altri, del Canclini (che costò, a detta del Bardea che riproduce la scrittura del contratto, 200 ducatoni ossia L. 2000). L'organo fu fatto nel 1639 per $50 ducati da Pietro Rogantino di Morbegno…
Nonostante gli incendi più volte sofferti, molte case in Bormio conservano ancora portoni e finestre del 400 e del 500. In contrada Dossiglio, nell'attuale caserma degli alpini, trovasi la bella torre che nel 1406 alloggiò Lodovico Sforza colla moglie Beatrice. Si conservano ancora la torre della casa De Simoni e un avanzo della casa Pedranzini (riparto Buglio). Da pochi anni rovinò la torre del castello: ne rimane un solo muraglione. Meritano menzione le case Fiorini, ora Gobbi (via De Simoni, 88), sul cui portale ad arco in pietra sono scolpiti due delfini, una tazza e frescate due deità; Dea, con portale in pietra a sesto acuto, finestre ogivali, cortiletto a loggiati; quella in via Giunio Bruto n. 105, che porta un affresco coll'Annunciazione e due sante di espressione delicata, di buon colorito e di corretto disegno, abbastanza ben conservato, attribuito al Valorsa, nonchè un S. Cristoforo bergognonesco; l'antica casetta in via Cincinnato, con finestre a sesto acuto, porta del 400, fregi policromi e due stemmi: in un angolo è dipinto il Padre Eterno. Nell'andito della casa Pedranzini sono dipinti molti stemmi tedeschi e si scorgono traccie di vecchi affreschi. La casa al N. 19, oltre l'affresco sulla porta, attribuito al Valorsa, è ricca di fregi policromi e di decorazioni antiche a grafite. La casa Gobbi (via Indipendenza, 32) ha pure un affresco attribuito al Valorsa colla V., il B., S. Sebastiano, S. Lucia; la casa eredi Cola (via Morcelli 130) porta dipinti l'Annunciazione e Angeli. Poco distante vi è altra porta ogivale con finestrelle a incorniciature classiche; una con figura dipinta a mo' di cariatide con lo stemma sforzesco. La casa Peloni, in via Giardino 284, ha la porta ad arco pieno e un affresco del 400 colla Vergine e Santi; la casa De Simoni possiede bei stucchi e moltissimi mobili e cornici intagliate e di pregio del 600, 700 ed 800, fra i quali un letto intagliato e dorato del 700, ricchissimo, e stemmi sulla testata, ove, dicesi, avrebbe dormito Francesco I quando fu a Bormio in occasione dell'inaugurazione della strada dello Stelvio; la casa Trabucchi, ora Longa, sulla strada di Valfurva, che in un magazzeno superiore ha decorazioni e pitture del 1626 col panorama di Bormio; la casa Bruni, ora Dea, via De Simoni 80, che possiede una stufa artistica.
In contrada Combo, presso il ponte, sono notevoli la casa medioevale con porta arcaica e finestrino formato da tre blocchi con scolpito il giglio guelfo; la casa Pedranzini, già Cottamini, con porta a sesto acuto e finestre del rinascimento; nonchè le case Nesini e Settumini. In una vana a p. t. del palazzo Alberti, dalle mura merlate e con una bella bifora del 400, sono dipinti gli stemmi delle famiglie con le quali gli Alberti si erano imparentati. Tutti questi avanzi di passata agiatezza rimontano al 400 e 500, quando il borgo godeva dell'importante transito tra la Svizzera e la Repubblica Veneta. Questa, per tenersi amici i Bormiesi, mantenne per molti anni a loro favore quattro borse di studio alla Università di Padova.
Il palazzo posto nella parte alta della piazza era la sede del Podestà: vi abitò nel 1838 Ferdinando I d'Austria. Nella torre sovrastante vi è la Baiona, campana che pesava kg. 2900. Essa si sentiva in tutto il contado e serviva alla chiamata del Consiglio delle Valli. Dopo l'incendio del 1855 fu ridotta a kg. 2450. In questi ultimi anni Bormio si è abbellita di diverse graziose ville; durante la guerra ebbe a soffrire qualche danno per tiri di medii calibri nemici.
A Bormio si conservano alcune antichissime usanze: curiose quelle del Re del Carnevale; dell'agnello pasquale che si fa benedire e si distribuisce in dono a tutte le famiglie ricche e povere; e quella, comune ad altri luoghi della Valle, per la quale un estraneo che sposa una Bormiese deve pagare in speciale cerimonia una regalia ai giovani del luogo…
Sono di Bormio i pittori: Aloisio de Sermundo della fine del 400, Antonio Canclini del 500, di cui vi sono due buone tele del 400, Antonio Canclini del 500, di cui vi sono due buone tele del 1585 nella chiesa é dell' Assunta d i Morbegno, ed altra del 1591 coll'Assunzione nella chiesa di Biolo sopra Ardenno; che dipinse la vecchia chiesa di S. Nicolò in Val Furva, delle quali pitture resta ancora la M. e il B. all' esterno della casa parrocchiale; Carlo Marni del 1600; lo scultore Giuseppe Settumini del 1600,del quale il Monti possedeva un bel bassorilievo in marmo col Cristo morente; Giuseppe Tamagnini pure scultore; il letterato Sigismondo Fogliani, valente latinista del 1500; il padre Francesco de Sermondi morto nel 1583, caro a S. Carlo, che l'inviò nella Svizzera per introdurvi l'ordine dei Cappuccini; Giacomo degli Alberti della metà del 600, canonico di Coira, prelato di Bolzano e del capitolo di Bressanone; Corrado Foliani della fine del 500, che per le sue virtù venne in fama di santità sotto il nome di B. Francesco da Bormio; il padre B. Pedrazzini che fu missionario in Cina e che donò diversi arredi sacri alla chiesa parrocchiale. Sono pure di Bormio: Francesco Giuseppe Rezzoli della fine del sec. XVI, letterato ed epigrafista; Ant. Murchio, che scrisse la storia delle Indie Orientali (1680); il canonico Ignazio Bardea, nato nel 1736, morto nel 1815, che lasciò due manoscritti molto interessanti di storia bormiese e fu pure buon poeta; Alberto De Simoni, nato nel 1740, acuto giureconsulto; Gioachino Alberti del 1600, che scrisse le «Antichità di Bormio» edite nel 1890 (Como, Tip. Ostinelli) a cura della Società Storica Comense; G. B. Donati, lettore di filosofia a Milano nel 1700; Giovanni Negri, che si distinse nelle guerre dell'indipendenza; il prof. Martino Anzi, rinomato botanico, morto sulla fine dello scorso secolo, autore di varie opere assai pregiate sulle crittogame. Fu suo discepolo il naturalista Massimo Longa, da poco defunto.
Di Bormio può considerarsi anche G. B. Mattoni, sebbene nato a Scarnafigi (Piemonte), perchè vi passò buona parte della sua vita. Gesuita, per disgusti lasciò l'abito e morì ottantenne a Vervio nel 1742; fu scolaro di Andrea Pozzo da Trento, pure gesuita, famoso architetto e pittore di feconda fantasia e facilità d'esecuzione, ma, come all'epoca, manierato e pesante. Fu arciprete a Bormio, dal 1828 al 1844, il nob. Gio. Battista De Picchi, morto canonico a Corno, uomo di molta dottrina. Sono di Bormio i patrioti: cap. Pedranzini… ed Edoardo Rami, che, medico di S. Caterina a Milano, nel '59 fuggì e prese parte alle campagne del 1859 e del 1866, raggiungendo il grado di colonnello medico. Morì nel dicembre 1910 a Verona.”

Nella seconda guerra mondiale caddero Bertolina Renato, Canclini Flavio, Canclini Gianbattista, Canclini Primo, Colturi Luigi, Donadoni Ugo, Faj Gianfranco, Giacomini Giuliano, Longa Pietro, Morcelli Ezio, Morcelli Fulvio, Richelda Ermanno, Rocca Giovanni, Sosio Mario, Spiller Massimo, Vincenzoni Lucio, Vitalini Gervasio e Vitalini Sergio. Furono dichiarati dispersi Binda Achille, Canclini Roberto, Capararo Rinaldo, Casa Alfredo, Catelazzi Guerrino, Compagnoni Stefano, Confortola Enrico, Confortola Eugenio, Dei Cas Guerrino, Faifer Italo, Giacomelli Pietro, Olivotto Gino, Pozzi Goffredo, Pedrini Guido e Rocca Pietro. Caddero, infine, i partigiani Colturi Adolfo, Confortola Augusto, Corgatelli Costante, Praolini Aldo e Sosio Franco.
Concludiamo questa presentazione di Bormio, che non ha, ovviamente, alcuna pretesa di completezza, con una nota di colore, cedendo la parola ad Ercole Bassi, il quale, ne “La Valtellina (Provincia di Sondrio)” (Milano, Tipografia degli Operai, 1890), così tratteggia il carattere bormino, comparato con quelli di altri paesi della Magnifica Terra: “Gli abitanti del Chiavennasco e del Bormiese, memori di aver appartenuto a contadi indipendenti dal resto della Valtellina, non si consideravano come Valtellinesi, ed anzi il Bormiese riguardava il Valtellinese con certo dispregio e ripeteva il proprio proverbio: «Abbisognano tre Valtellinesi per fare un Bormino; tre Bormini per fare un Livignasco; tre Livignaschi per fare un Trepallino.» E cioè per eguagliare in accortezza e furberia. Ed in vero il Bormiese gode nel resto della Valtellina fama di molta scaltrezza. Sotto l'apparenza di molta bonomia, di un contegno molto ossequioso, sono assai guardinghi e diffidenti. Più ancora quelli di Livigno, di Valfurva e di Trepalle, frazione di Livigno. Questi, per la loro vita selvaggia ed isolata buona parte dell'anno, raggiungono una diffidenza esagerata oltre ogni misura. Il Livignasco invece, avvezzo a percorrere il mondo recandosi, per ragione di lavoro e di commercio, non solo in Lombardia, ma anche in maggior tatto ed avvedutezza, ed ostenta una certa superiorità d'intelligenza anche sul Bormiese.”

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