Diabolici cacciatori turbano la quiete delle valli alpine...
La
figura del cacciatore ha, nella cultura popolare, una valenza in genere
positiva, anche perché a lui è riservata la difesa delle
comunità contadine da nemici un tempo temibili, quali lupi ed
orsi. In alcune leggende, però, si impone il tema della caccia
maledetta, o caccia demoniaca, condotta da un cacciatore misterioso,
che non si sa da dove venga né dove vada, e soprattutto non si
sa chi sia e cosa cacci. Un cacciatore che, sicuramente, nessuno vorrebbe
trovare sulla propria strada.
Scrive
Remo Bracchi, insigne linguista e studioso di tradizioni e cultura popolare: "Si spigola diffusa in tutta Europa la credenza nella caccia selvaggia, secondo la quale si riteneva che in determinati luoghi passasse di notte un corteo diabolico, detto càscia salvàdiga o càascia disperàda, composta da cavalieri vestiti di nero, cani neri dagli occhi di fuoco, gatti, lupi, maiali, buoi, accompagnati da ogni sorta di rumori (latrati di cani, versacci di animali, musiche strane, campanelli grandi e piccoli, grida disperate, lamenti, schiocchi di frusta)... Si tratterebbe di folle di spiriti, anche di defunti che devono purgarsi dalle loro colpe."
Così in valle di Scais (o val Caronno) una leggenda su questo
tema assume decisamente la coloritura dell’horror. Si tratta di
una leggenda riportata in una ricerca della scuola elementare di Piateda (“Leggende delle nostre valli”, 1976). Alla valle si accede
imboccando, da Piateda, la strada per i maggenghi e staccandosene, dopo
Previsdomini e Monno, ad un tornante sinistrorso, sulla destra, non
appena si trovano le segnalazioni per il rifugio Mambretti. Si raggiunge
così dapprima Vedello e poi, prendendo a sinistra, Agneda; attraversata,
quindi, la bella piana alle sue spalle si prosegue a piedi sulla carrozzabile
che conduce alla casa dei guardiani del grande sbarramento della diga
di Scais (m. 1494). Prima che venisse costruita la diga, la piana di
Scais ospitava baite e pascoli, scenario della caccia maledetta di cui
parla la leggenda.
Qui, una tranquilla notte d’agosto, un pastore udì rumori
insoliti, che lo destarono dal sonno. Tese l’orecchio e distinse
dei passi. Qualcuno stava scendendo lungo la mulattiera che dalla piana
dell’alpe di Caronno conduce a Scais. Si alzò allora dal
giaciglio e si affacciò all’uscio della sua baita, per
vedere chi mai fosse in cammino a quell’ora della notte: forse
qualcuno che si era perso, forse un forestiero. Era una bella notte
di luna piena, ed il pastore non faticò a distinguere in quel
misterioso viandante notturno la figura di un cacciatore. Per quanto
si sforzasse, però, non riusciva a distinguerne il volto, che
sembrava nascosto dal bavero rialzato. Riusciva a vedere, invece, che
il cacciatore stringeva qualcosa, che sicuramente doveva essere il frutto
di quella singola caccia notturna. Una preda anche piuttosto ingombrante,
per quel poco che si poteva scorgere. La caccia doveva essere stata
molto buona. Il nostro pastore non era un tipo facilmente suggestionabile,
ma curioso sì, questo lo era, parecchio.
Per
questo, senza timore alcuno, non esitò a rivolgersi all’ignoto
cacciatore, buttando là una battuta che voleva essere un pretesto
per attaccar bottone: “O casciadù de la bona cascia, portemen
anca a mi de la vosa cascia”, cioè “O cacciatore
della buona caccia, portate anche a me qualcosa della vostra caccia”.
Non ebbe alcuna risposta: il cacciatore passò ad una certa distanza
da lui e proseguì oltre, con passo deciso, finché il buio
della notte lo inghiottì. Il pastore rimase ancora qualche istante
sull’uscio, finché anche l’ultimo flebile rumore
dei passi si spense, poi, scrollando le spalle e lamentandosi fra sé
dell’insocievolezza di certi uomini (“i è tucc malmustùs
encóo”, bofonchiò, cioè “sono tutti
scostanti, al giorno d’oggi”), se ne tornò a dormire.
Non tardò a riprendere sonno, finché venne l’alba.
Era solito, come tutti i pastori, alzarsi di buon’ora, e così
fece anche quella mattina. Lì per lì, al primo risveglio,
non ricordò neppure il singolare incontro notturno. Si alzò
e si accinse alle svelte occupazioni di sempre. Fu allora che il suo
occhio cadde alla catena che pendeva dal camino: uno spettacolo orripilante,
un cadavere, anzi, mezzo cadavere, la
metà inferiore di un cadavere tagliato in due. E, tutt’intorno,
tracce di sangue, il sangue dell’uomo ucciso. Il sangue del pastore,
invece, gli si ghiacciò nelle vene. Rimase per qualche istante
paralizzato per lo shock e per il disgusto, poi corse fuori dalla sua
baita e si diresse, sempre di corsa, giù, ad Agneda, a quei tempi
villaggio importante, con diverse decine di famiglie. Un fatto di quel
genere non poteva essere frutto degli uomini, ci doveva essere qualcosa
di diabolico, e se c’era, l’unico che avrebbe potuto dirgli
come comportarsi era il parroco.
Lo raggiunse mentre, nella chiesetta di S. Agostino, era intento a recitare
il mattutino. Il curato ascoltò il racconto concitato del pastore,
rivolse al Signore una breve implorazione di misericordia (così
si usava, a quei tempi, quando si aveva notizia di qualche fatto sconvolgente)
e, dopo una breve meditazione, diede questo consiglio: “Lascia
il cadavere là dove lo hai trovato ed anticipa il taglio del
fieno d’agosto, tagliane un po’ ed aspetta: se vedrai tornare,
la prossima notte, il diavolo, perché è il diavolo che
si cela dietro il misterioso cacciatore, digli di riprendersi la sua
caccia. Ma, bada bene, dovrai startene nascosto sotto il fieno fresco
di taglio, perché il primo fieno tagliato è sempre benedetto. Lì
sarai al sicuro ed il cacciatore ti lascerà in pace”.
Il pastore se ne tornò a casa e fece come gli era stato detto.
Tagliò una parte dei suoi prati, fece un mucchio del fieno tagliato
e, calata la notte, vi si nascose, attendendo che passasse di nuovo
il cacciatore maledetto. Nel cuore della notte, ecco di nuovo risuonare
quei passi decisi e sinistri, ecco di nuovo la figura nera del cacciatore
profilarsi sul fondo del sentiero e venire avanti speditamente. Il pastore,
con il cuore in gola, si appellò a tutto il coraggio che gli
rimaneva e gridò al suo indirizzo: “O casciadù de
la bona cascia, vignìn pür a tosla la vosa cascia”,
cioè “O cacciatore della buona caccia, venite pure a riprendervela
la vostra caccia”. Poi si acquattò, più che potè,
dentro il fieno umido. Non osò guardare quel che accadde. Attese,
lì, l’alba. Solo a giorno fatto uscì per vedere
quel che era successo. Si precipitò all’interno della baita,
e non trovò più alcuna traccia del cavadere dimezzato.
Giurò che da quel giorno si sarebbe fatto i fatti suoi, e non
volle neanche più pensare chi potesse essere la disgraziata vittima
del cacciatore infernale. Nessuno lo seppe mai.
Rimaniamo
sul versante orobico, spostandoci, però, più ad occidente,
in Val di Tartano. Anche qui si trova una leggenda legata ad una caccia
infernale. In questo caso, però, il cacciatore è rappresentato
a cavallo, come accadeva nelle antiche cacce nobiliari. La caccia, nei
tempi antichi, era, infatti, lo sport più amato dalla nobiltà,
anche perché funzionava come esercizio alla pratica delle armi.
Un’antica leggenda parla, quindi, di un guerriero nero, che balza
fuori, improvviso e terribile, dalle forre più profonde della
valle, laddove il Tartano si è scavato una dimora nascosta agli
occhi degli uomini. Anche il suo cavallo è nero, un cavallo dagli
occhi di fuoco. Segue cavallo e cavaliere una muta di cani neri, anch’essi
dagli occhi di fuoco. La leggenda dice che chi si trova ad essere sorpreso
dalla caccia infernale deve mettersi prontamente in salvo, cercando
rifugio nella macchia, dietro qualche masso, in qualche anfratto, per
evitare di essere sbranato dai cani famelici o trascinato via dal cavaliere,
che altri non è se non un figlio dell’Inferno in cerca
di anime da trascinare giù nel baratro.
A
proposito di cani: può essere interessante osservare come questo
animale, definito il miglior amico dell’uomo, assuma, qualche
volta, nelle leggende una connotazione sinistra, diabolica. È
il tema del cane nero, nel quale si immagina incarnata un’anima
dannata o uno spirito malvagio, e che tende agguati agli incauti ed
ai malcapitati. In bassa Valtellina, per esempio, si parla di un misterioso
cane nero che, di notte, inseguiva i carrettieri che si trovassero a
percorrere la strada che da Morbegno conduce a Colico. Di un cane nero
che percorreva, latrando, i sentieri sul far della sera si parla anche
in una leggenda di Pendolasco (l’attuale Poggiridenti): si trattava
di spiriti malvagi che tendono insidie agli uomini.
Ma torniamo al tema della caccia maledetta, per segnalare un’ultima
leggenda, raccolta in Valdidentro, che parla di una caccia selvaggia.
Ne ono protagoniste, questa volta, le anime infelici che sono condannate
ad espiare i propri peccati, prima del perdono divino, cavalcando bianchi
cavalli durante le tempeste più violente che si scatenano, soprattutto
nel periodo estivo. Fra il sibilo del vento, lo scoscio della pioggia
torrenziale e lo scoppio fragoroso dei tuoni si possono udire, assicurano
i pastori, i
nitriti dei cavalli selvaggi e le urla degli spiriti senza pace, lanciati
in una caccia furiosa che avrà termine solo
quando Dio vorrà.
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