SANTI (clicca qui per aprire la pagina relativa a questo giorno dal sito www.santiebeati.it): S. Barbara, S. Giovanni Damasceno, Isa

PROVERBI

Santa Barbara e San Simùn, Diu te salvi di saètt e di trun
(A santa Barbara e a San Simone, Dio ti salvi dalle saette e dai tuoni - Ponte in Valtellina)
Sànta Bàrbara e san Simùun protegìm da la saéttà e dal trùun, santa Bàrbara benedéttà liberìm da la saéttei (s. Barbara e s. Simone proteggetemi dalla saetta e dal tuono, s. Barbara benedetta liberatemi dalla saetta (Villa di Chiavenna)
An da pìgna àn da néf (anno di pigne, anno di neve – Livigno)
Néf desembrìna la dura a dina a dina (la neve di dicembre dura a lungo – Bormio)
Tre fèmma int in cà ai va ben: üna viva, üna morta e una petüràda sü la porta
(tre donne in una casa vanno bene una viva, una morta ed una dipinta sulla porta – Montagna in Valtellina)
Al bun amìs, al rüa mài a màa vöidi (il buon amico non arriva mai a mani vuote - Tirano)
La messa dei spùus l'è la messa dei curiùus (la Messa degli sposi è la Messa dei curiosi - Sacco, Valgerola)
Al sarà `l cóolt, al sarà fréc, al sarà l’asän che 'l ven vec’
(sarà il caldo, sarà il freddo, sarà l'asino che diventa vecchio - Villa di Chiavenna)
Ma ie nu poss, — nu'm las-c maridär, ch'i à tropa tema... pülasc da ciapär
(no, proprio non posso sposarmi: ho troppa paura di prendermi le pulci - Val Bregaglia)
Brüt in cüna, bel in plaza (brutto nella culla, bello una volta cresciuto - Poschiavo)

VITA DI UNA VOLTA

Si celebra oggi la memoria di Santa Barbara, rappresentata con una corona o con un calice.

Fra le storie paurose che si raccontavano nelle lunge serate invernali, quando più famiglie si riunivano in una stalla per recitare il rosario e "contarla su" (era il "fafilò", o "filogna", o "filugna", cioè filare il lino), un posto d'onore spettava sempre a quelle che avevano come protagoniste le streghe. Eccone alcune, che ci portano nello splendido scenario delle Valli del Bitto di Albaredo e Gerola.
Qual è l’aggettivo che meglio disegna la natura di una strega? Di sicuro “pestifera”. In un duplice senso. Innanzitutto nel senso etimologico del termine, di “apportatrice di peste” ed, estensivamente, dei più diversi morbi, che potevano colpire i raccolti, le bestie e talora anche le persone. In secondo luogo nel senso più comune del termine, cioè di persona dedita ad ogni sorta di scherzi, molestie, vessazioni, angherie a danno degli altri.
Un esempio illustra bene questa natura. Riferiamoci alle streghe del Bitto, di cui ci racconta Renzo Passerini nel numero del settembre 1994 de “’L Gazetin”. Possiamo denominare così una congrega di maliarde che aveva eletto come luogo di ritrovo per il Sabba la zona alla confluenza delle due valli del Bitto, quella di Albaredo, ad est, e quella di Gerola, ad ovest. I due rami del torrente Bitto si congiungono qui, nel punto in cui il lungo dosso di Bema, che sale, a sud, fino alla vetta del pizzo Berro, precipita, a nord, in uno sperone roccioso e selvaggio. Non lontano dal punto di confluenza si trova, ad est, il ponte di Bema, dove ora passa la tormentata strada che costituisce l’unica via di accesso all’omonimo paesino, collocato a mezza costa, in posizione amena, sul dosso.
Nei pressi del ponte, infine, si trova il dosso Barnabà ed il Bon Cavriil, nella cornice di un bosco di castagni, località denominata così perché vi si trovava un ricovero per le capre. Era questo il luogo del sabba scelto dalla congrega delle streghe del Bitto. Un luogo che rappresentava la degna cornice per la blasfema adunanza: abbastanza selvaggio, cupo e solitario, posto com’era ai piedi del selvaggio e dirupato versante montuoso che quasi precipita nel letto del Bitto di Albaredo, e, nel contempo, adatto ad accogliere le danze animalesche nelle quali le streghe si scatenavano in attesa del convitato d’onore, il Diavolo. Quel che accadeva in questi sabba è difficile a descriversi: aiutati dall’immaginazione, figuratevi quanto di più blasfemo, bestiale e sconcio possa partorire un’anima umana votata al male: probabilmente il quadro che ve ne sarete fatti si allontana dal vero per difetto.
Su, a mezza costa, dove se ne stavano, e se ne stanno tutt’ora, i paesini di Campo Erbolo (campèrbul) e Valle (val, sulla strada per Albaredo), ad est, e di Bema, ad ovest, giungevano, nelle notti senza luna, appena attutite dalla distanza, le urla disumane, i versi raccapriccianti, i gemiti e le risa sguaiate di questi esseri immondi. E fosse stato solo questo il danno prodotto dalla loro presenza, lo si sarebbe potuto sopportare. In realtà le streghe non si accontentavano di celebrare il sabba: il desiderio del male, a differenza di quello del bene, raramente conosce riposo. Eccole, allora, risalire l’aspro versante orientale della Valle del Bitto di Albaredo, per ripidi sentierini, raggiungendo le case di Campo Erbolo e Valle. Eccole presentarsi, con un’impudenza inaudita, alla piena luce del giorno, o sul far del tramonto.
Eccole molestare ed infastidire gente di tutte le età e condizioni. Ai bambini facevano paura, mostrando uno sguardo torvo e due occhi di brace che li riempivano di terrore. Occhiate tutt’affatto diverse lanciavano ai baldi giovanotti: facevano gli occhi dolci, accennavano qualche moina, qualche frase vezzosa, invitandoli a raggiungere con loro un certo posto appartato, per godere delle gioie dell’amore. Non è necessario aggiungere che inviti di questo genere venivano cortesemente declinati, e che i giovani pensavano bene di eclissarsi in men che non si dica, tutt'altro che conquistati dai sorrisi sdentati delle megere. Gli anziani, infine, venivano letteralmente minacciati, e si assisteva al penoso spettacolo di queste donne decrepite che inveivano contro quelli che chiamavano “vecchiacci”. Questo, e altro, facevano, importunando tutti, nessuno escluso.
Ma c’era di peggio, perché non era solo la pazienza della gente ad essere minacciata, ma anche i loro beni e la loro salute. Alle beffe si aggiungevano i danni. Danni alle cose: orti devastati, pollame, canapa, miglio e legna rubata, canali di irrigazione deviati. Danni alla salute: malattie che colpivano i raccolti ed il bestiame. Fino a giungere ai danni diretti alle persone.
Il malocchio era ciò che più la gente temeva. Queste ribalde, infatti, passavano, di tanto in tanto, fra le vie dei paesini, assumendo una cert’aria stanca ed affranta, bussando alle porte e chiedendo la carità di qualche soldo. La gente capiva che si trattava di un inganno, e neppure apriva. Queste approfittavano del rifiuto per scagliare contro i malcapitati qualche terribile maledizione, il temutissimo malocchio. Le si vedeva andar via borbottando nonsoché, con l’aria cattiva e con un ghigno di soddisfazione. E, puntuali, arrivavano le disgrazie: moriva un vitello, qualche caro si procurava una frattura cadendo, dissidi fra famiglie che da sempre avevano vissuto in armonia, discordie all’interno delle famiglie, tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra coniugi, ragazze lasciate dai fidanzati e ragazzi traditi dalle fidanzate, insomma, cose di questo genere, ed anche più gravi.

Ai Bemini capitava anche di peggio. Costoro, per salire al loro paese, dovevano passare proprio nei pressi del famigerato dosso Barnabà, prima di impegnare la bella mulattiera di San Carlo, che risale il dosso di Bema, tenendosi approssimativamente sul suo filo. Ed allora non sapevano mai cosa li attendesse, soprattutto se l’ora era un po’ più tarda del solito, e già la campana dell’Ave Maria, da Sacco o da Bema, aveva fatto udire i suoi rintocchi.
Allora venivano giù sassi dal monte sul sentiero, quando andava bene, ma potevano anche capitare incontri faccia a faccia con le malefiche arpìe, qualcosa che non avresti augurato al tuo peggiore nemico. Accadeva perfino, di rado, ma accadeva, che di qualcuno si perdessero le tracce. Cosa fosse avvenuto non lo si poteva sapere, ma lo sventurato non ricompariva più e veniva pianto per morto, senza la consolazione di una sepoltura in terra benedetta.

Le cose non potevano più andare avanti così. Le comunità di Bema e Campo Erbolo, quindi, tennero consiglio congiunto, e decisero di edificare una serie di cappellette, per propiziarsi l’aiuto dei santi e della Madonna. Eressero, dunque, una cappelletta sul sentiero vecchio di Bema, una al Bon Cavriil, una al dosso Barnabà, una alla Ca’ Rosa, sotto Campo Erbolo, ed infine il gisöo di mezzavia. Tutti offrirono quanto occorreva per l’opera, perché il flagello delle streghe non risparmiava nessuno.
La gente attese, fiduciosa, che le cappellette adempissero al loro compito e disinfestassero la zona dalla presenza del male. All’inizio, però, non sembrava che fosse cambiato granché: le temute presenze non si erano diradate, la gente continuava ad essere vessata dalle streghe. Poi venne in mente a qualcuno che le cappellette potevano allontanarle solamente dopo una solenne benedizione, perché è soprattutto l’effetto dell’acqua benedetta ciò che questi essere malvagi temono. Una per una vennero dunque asperse con l’acqua che è segno della vittoria del bene sul male, con le formule più solenni che i buoni curati potessero trovare sui loro libri sacri. Formule in latino, che suonavano misteriose e potenti.

Ed allora fu veramente la fine per la comunità delle streghe del Bitto. Dovettero lasciare quei luoghi, nei quali avevano fin troppo a lungo fatto i loro comodi, e ripiegare su luoghi più scomodi e remoti. Risalirono il ramo del Bitto di Albaredo, insediandosi nelle forre nelle quali il versante orientale della valle precipita, proprio sotto il paese. La via per Bema era libera, ed ancora oggi la possiamo percorrere, dal bivio sulla strada Morbegno-Albaredo (ad 1,5 km circa da Morbegno) fino al ponte di Bema con la macchina (nelle fasce orarie in cui il transito è consentito), dal ponte fino a Bema a piedi, sulla bella mulattiera di San Carlo (la troviamo, dopo il ponte, scendendo un po’ a destra, sul primo troncone della strada nuova, fino a trovare, sulla sinistra, poco prima della galleria, la partenza, scalinata, del sentiero che, dopo un tratto ripido, porta ad essa; salendo, troveremo anche i ruderi dell’antichissima cappelletta dedicata a San Carlo e risalente ai secoli XII o XIII).
E di Albaredo, che dire? Che notizie ci giungono dalla città così legata alla più illustre Venezia? Notizie di urla, lamenti, imprecazioni, maledizioni, che salgono su, dal tenebroso Bitto, nelle notti senza luna, ma come attutite, lontane. Nessun altro segno delle temute streghe. Per ora.

Portiamoci, ora, più ad ovest, in Val Gerola. Anche qui non mancano le storie di streghe. Una per tutte, quella legata al "puz di strìi", presso Sacco, il primo paese che si trova salendo da Morbegno in valle.
Puz di Strii, Pozzo delle Streghe: è questo uno dei molti luoghi che, in terra di Valtellina, sono legati alla credenza del convegno fra streghe, stregoni e demonio, il terribile sabba, nel quale le forze oscure consolidano la loro alleanza, praticano riti sanguinosi od osceni, rinnovano il voto di operare a danno di uomini ed animali. Siamo in una valle densa di storia e leggenda, la Val Gerola, e proprio al suo ingresso, cioè in quel paese di Sacco che ebbe, in passato, un ruolo importante dal punto di vista economico.
Appena sotto il paese, in un bosco a monte dei prati della Morata, si trova, nascosto agli occhi dei curiosi, il pozzo maledetto. Non di vero e proprio pozzo, però, si tratta, bensì di una roccia posta alla sommità di un avvallamento, nel folto della selva, con una spaccatura, nel mezzo, che trattiene l’acqua piovana, che, quindi, vi ristagna per buona parte dell’anno (la si trova anche d’inverno, ghiacciata). L’acqua che ristagna è uno dei simboli del male, come tutte le realtà naturali che sembrano rovesciate rispetto all’ordine consueto. L’acqua, fonte di vita quando è chiara e pura, diventa invece veicolo di malattie quando si intorbida, stagnando. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se l’immaginazione popolare ha eletto questo luogo, ombroso e nascosto, sul ciglio di un piccolo dirupo, segnato dalla presenza costante di una piccola pozza nera, come punto di ritrovo delle streghe.
La credenza affonda le sue radici nei secoli passati: ancora prima che il Seicento scatenasse una vera e propria caccia sistematica alle streghe, nel Quattrocento l’Inquisizione era all’opera nella valle, partendo da Morbegno, dove risiedevano, nel convento di S. Antonio, quei frati domenicani cui era stata affidata la missione di estirpare eresie e pratiche malefiche. Il pozzo, quindi, era uno di quei luoghi che si raccomandava di evitare accuratamente, soprattutto dopo le sei di sera, cioè dopo quel suono della campana dell’Ave Maria che segnava il passaggio dal dominio della luce a quello delle ombre (Suna l’Ave Maria, gira la stria, cioè Suona l’Ave Maria, si mette all’opera la strega, così recita un detto assai diffuso in Valtellina). Per sapere di più sul pozzo e su altre leggende della valle, può essere utile consultare il libro di Serafino Vaninetti intitolato "Il pozzo delle paure".
Visitare questi luoghi può essere l’occasione per una bella passeggiata che parte da Morbegno e ripercorre l’antica via di accesso alla valle, che è anche il primo tratto dell’antichissima Via del Bitto, fra Valtellina (Morbegno) e Valsassina (Introbio). Partiamo, dunque, da Morbegno, a 260 metri circa. Raggiungiamo l’imbocco della strada ex statale 405, ora strada provinciale, della Val Gerola, staccandoci sulla destra dalla ss. 38 dello Stelvio all’altezza del primo semaforo (per chi viene da Milano) all’ingresso di Morbegno. Non imbocchiamo, però, la statale, ma, parcheggiata l'automobile, una più stretta stradina, che se ne stacca subito sulla sinistra (cartello con l’indicazione per il rifugio Trona), e che termina dopo 1,5 km. Essa, inizialmente, ha un fondo in asfalto, poi si congiunge con la bella mulattiera che sale dal centro di Morbegno.
Possiamo, ovviamente, anche imboccare direttamente quest’ultima; per farlo, dobbiamo portarci al ponte sul Bitto che si trova più a monte, dove troviamo la statua di San Giovanni Nepomucéno (cui è dedicata anche la chiesa principale di Morbegno), posta a sorvegliare la forra terminale della Val Gerola, per difendere il paese dalle piene alluvionali del Bitto. Ad ovest del ponte troviamo la traversa, in direzione del fianco del monte, del vicolo Nani, che è anche il punto di partenza della Via del Bitto. Un cartello della Comunità Montana Valtellina di Morbegno ci informa che seguendo questo itinerario possiamo raggiungere in 45 minuti Campione ed in un’ora e 15 minuti Sacco. Si tratta di tempi larghi, ma è anche vero che questa passeggiata richiede, per essere gustata, un passo lento.
Saliamo, dunque, lungo la mulattiera che, superate alcune baite diroccate (m. 385), conduce, poco sopra quota 400, alla selva Maloberti, dove si trova un’area di sosta attrezzata, che costituisce un eccellente osservatorio su Morbegno, sulla bassa Valtellina e sulla Costiera dei Cech. Poi, oltrepassata una fontana dove un cartello ricorda il nesso fra pulizia e bellezza, ed intercettata, sulla nostra destra, la mulattiera che sale da Regoledo, raggiungiamo l’ampio terrazzo di prati e selve di castagni della località Campione (m. 580), che, alla bellezza ed amenità dello scenario naturale, unisce un motivo di interesse storico: qui nacque, infatti, nel 1417 la celebre figura di Bona Lombarda, eroina della storia del quattrocento italiano. Si trattava di una contadina di cui si innamorò il capitano Pietro Brunoro, che militava nell’esercito del Ducato di Milano (allora signoria dei Visconti), guidato dal capitano di ventura Niccolò Piccinino e dal valtellinese Stefano Quadrio, esercito che aveva appena sconfitto quello veneziano nella battaglia di Delebio (1432). I due si sposarono nella chiesa di Sacco e la moglie seguì poi il capitano, di origine parmense, nelle sue peregrinazioni legate alla compagnia di ventura per la quale militava. Fin qui niente di strano: ciò che, però, rese quasi leggendaria la figura della donna fu la pratica delle armi, nella quale, affiancando il marito, si distinse per coraggio e valore, tanto da farne un’eroina molto amata, soprattutto in epoca romantica.
Bene: dopo aver tributato il giusto omaggio al valore delle donne valtellinesi, lasciamo alle nostre spalle anche la cappella posta a ricordo del giubileo sacerdotale di Leone XIII, proseguendo fino ad intercettare, poco oltre le belle baite di Campione, la strada statale della Val Gerola, che però lasciamo subito, staccandocene sulla destra, per seguire una pista che porta a Sacco (m. 720), il primo paese che si incontra entrando nella valle, a 7 km da Morbegno, per chi percorre la strada statale. Saliamo lungo la pista per una cinquantina di metri, fino a trovare, sulla nostra destra, un ben visibile sentiero che se ne stacca, proseguendo per un tratto in leggera discesa, poco a monte della strada statale. Seguiamolo, fino a raggiungere una piccola radura sul ciglio di alcune roccette, detta Belvedere. Da qui infatti, nonostante la selva di betulle copra in parte la visuale, possiamo scorgere la parte terminale della bassa Valtellina e l’alto Lario. Buona è anche la visuale sulla Costiera dei Cech.
Il luogo è luminoso ed ameno, ma alle nostre spalle si apre una sorta di corridoio o valloncello, che conduce nel cuore ombroso della selva. Il sentiero, piegando a sinistra, lo risale, con traccia poco marcata, passando in mezzo a due modeste elevazioni, che culminano in altrettanto modeste formazioni rocciose. Superata l’elevazione di sinistra, pieghiamo leggermente a destra, fino a raggiungere il ciglio posto a monte di una evidente conca o avvallamento, e caratterizzato dalla presenza di modeste roccette affioranti dal sottobosco. Seguendo, raggiungeremo la roccia più grande, con la conca che raccoglie l’acqua piovana. Un cartello ci confermerà che questo è il Puz di Strii.
Torniamo, però, ora sulla pista per Sacco: questa, oltrepassata una cappelletta dove resta traccia di un dipinto della deposizione di Cristo, posta fra la selva dove si trova il pozzo (che resta a monte, alla nostra destra), ed i prati della Morata (che si stendono alla nostra sinistra, sopra la strada statale), ci porta al cimitero di Sacco, dal quale, in breve, siamo alla centrale piazza di san Lorenzo, dove troviamo l’omonima chiesa parrocchiale, dall’elegante facciata barocca. Fra le leggende del mondo contadino di cui qui possiamo trovare traccia vi è anche quella, famosa, dell’homo salvadego, figura irsuta di uomo solitario rappresentato con una clava in mano, pronto a rispondere ai torti altrui non con la violenza, ma con la semplice paura legata alla sua apparenza selvaggia. In lui si condensano vari temi, e soprattutto quelli del pastore inselvatichito dalla solitudine protratta e di una sorta di buon selvaggio, cioè di uomo che, recuperando una dimensione del tutto naturale, non chiede altro che di essere lasciato in pace e non ama affatto la violenza. Il museo dell’homo salvadego, che si trova nel paese, è proprio dedicato a questa singolare figura.
Se desideriamo prolungare questo incontro avvicinato con la Val Gerola della storia e della leggenda, possiamo proseguire l’escursione con una lunga ed affascinante traversata che ci porta nel cuore delle due valli del Bitto (quella di Gerola, appunto, e quella di Albaredo), passando per Bema, incantevole paese posto sulla parte inferiore del lungo dosso che separa le valli stesse. Si tratta di una traversata che richiede complessivamente, dalla partenza al ritorno a Morbegno, circa 5 ore di cammino, ed il superamento di un dislivello in salita di circa 720 metri. 
Per effettuarla, dobbiamo riportarci, dal centro di Sacco, alla statale 405, scendendo sulla via di accesso al paese, per poi lasciarla subito, imboccando la stradina che, correndo più a valle rispetto alla statale, conduce alla località il Dosso (m. 677), e prosegue in direzione del solco della valle del torrente Il Fiume, che viene superato su un ponte in corrispondenza della cascata della Püla. Subito dopo il ponte, sulla sinistra, troviamo il Museo etnografico Vanseraf, ricavato dalla ristrutturazione dell’antico Mulino del Dosso. Superato un tratto di più marcata salita, raggiungiamo, quindi, Rasura, passando proprio sotto il cimitero e l’imponente campanile della chiesa parrocchiale di S. Giacomo (m. 762), di origine medievale (anche se l’attuale edificio è l’esito di una ristrutturazione iniziata nel 1610).
Non dobbiamo salire al paese, ma, proprio sotto la chiesa, prestare attenzione ad un cartello che indica la partenza, sulla sinistra, del sentiero che scende al Ponte della Sorte (Punt de la Sort). Imbocchiamo il sentiero e cominciamo a scendere, in un ombroso bosco di castagni, superando qualche rudere di baita ed inanellando diversi tornantini. Intercettiamo anche, sulla sinistra, il sentiero che parte dal Dosso (e che non è facile da trovare, per cui è meglio iniziare la discesa da Radura). Dobbiamo perdere quasi 300 metri di quota, e, nell’ultimo tratto, cominciamo a sentire il rumore delle acque del Bitto, che corrono nella profonda gola del fondovalle.
Al termine della discesa, ecco il ponte, a 475 metri, gettato proprio nel punto in cui le due sponde della valle, rinserrata fra orride muraglie di roccia, si avvicinano. Lo spettacolo è davvero affascinante, ed il nome del ponte evoca gli arcani e misteriosi dettami del fato, nascosti agli uomini come è nascosto lo spettacolo del cuore oscuro di questa valle. In passato, per la verità, questo ponte era assai più frequentato, perché di qui passava la più facile via di passaggio fra la bassa Val Gerola ed il dosso di Bema. Pochi passi, e siamo sul fianco occidentale del dosso: il sentiero prosegue con un tratto verso destra, cui segue un ultimo tratto verso sinistra. Al termine la traccia confluisce nella nuova strada asfaltata, ancora chiusa al traffico, tracciata dopo la rovinosa alluvione del 2000, per sostituire quella che raggiunge Bema correndo sul lato opposto (orientale) del dosso. Seguendola (oppure seguendo il sentiero, di cui troviamo, poco sopra, la ripartenza) cominciamo la salita che si conclude alle prime case di Bema (m. 793).
Salendo, sostiamo, di quando in quando, per ammirare gli scenari unici che ci si offrono al nostro sguardo. Se guardiamo verso sud, cioè in direzione della media ed alta Val Gerola, vedremo apparire una parte della testata, con l’inconfondibile profilo del pizzo di Tronella e, alla sua destra, le forme simmetriche del pizzo di Trona ("piz di vèspui"). Ma ancor più interessante è quello che appare in direzione ovest e sud-ovest: si mostra il pauroso e scuro fianco della valle (e ci domandiamo come abbiamo potuto scenderlo interamente), mentre alla sua sommità fa capolino, come sentinella posta ai limiti di questo regno delle ombre, il campanile della chiesa di Rasura. Spostiamo lo sguardo a sinistra, in direzione sud-ovest: distingueremo, sull’aspro fianco della valle, alcuni prati che scendono arditamente verso la sua forra, con qualche baita che sembra sospesa sulla vertigine: si tratta dei prati della località Scacciadiavoli (m. 630), a valle della pista che congiunge Rasura a Pedesina. La denominazione dei prati ha un significato inequivocabile, ed esorcizza la paura di quegli spiriti maligni che la valle del Bitto sembra sempre poter vomitare dal suo cuore oscuro. Se guardiamo a nord, infine, ci appaiono, sulla solare Costiera dei Cech (che genera un singolare contrasto con la valle del Bitto), le sue più importanti cime, vale a dire la cima di Malvedello e, alla sua sinistra, il monte Sciesa.
Ma è tempo di riprendere il cammino, alla volta di Bema, paese quasi unico per la sua posizione isolata, di difficile accesso, ma anche per la sua collocazione climaticamente e panoramicamente assai felice, che giustifica l’antichità dell’insediamento. Ci accoglie la bella chiesa di San Bartolomeo, di origine medievale, ma profondamente ristrutturata a partire dal secolo XVII. Il centro del paese, con le case l’una a ridosso dell’altra, ci regala quell’inesprimibile sapore d’antico che contribuire a cacciare dalla mente i tetri pensieri legati alle forze oscure ed alla loro permanente minaccia. Da Bema partono due piste che percorrono entrambi i fianchi del lungo dosso; è anche possibile salire alla vetta del pizzo Berro, la cima che domina il paese.
Vale la pena di offrire un sintetico resoconto su questa ascensione, anche se si tratta di un’escursione a parte, da effettuare raggiungendo Bema in automobile (e tenendo presente che la strada è aperta solo nelle fasce orarie 7.00-8.30, 12.00-14.30 e 17.30-19.00). Lasciata l’automobile nel parcheggio che si trova all’ingresso del paese, proseguiamo sulla mulattiera che risale decisa il dosso sul quale è posto il paese. Dopo un breve tratto incontriamo una grande croce, posta a ricordo del Convegno Eucaristico Diocesano del 1997. Saliamo ancora e, superate alcune baite, ci rincongiungiamo alle due strade asfaltate che salgono dal paese. Proseguiamo sulla pista, fino a raggiungere il rifugio Ronchi, a 1200 metri circa. A questo punto, per salire al pizzo Berro ci sono due possibilità: la più facile segue il sentiero che parte più avanti e passa per la località Fracino; poco oltre il rifugio, si trova, invece, il sentiero della costa, ben segnalato da molti cartellini gialli sui tronchi degli alberi. Dopo una lunga diagonale in una bella pineta, questo secondo sentiero conduce alla località Pozzalle, a circa 1500 metri. Qui si trovano un tavolino, un’altalena ed un’amaca, l’ideale per una sosta riposante. Il sentiero riprende, più ripido ed un po’ esposto, verso la località Curt, piccolo poggio panoramico da cui è ben visibile la bocchetta di Stavello (“buchéta de Stavèl”), in alta val di Pai. Da qui parte il sentiero Lino, che nel primo ripido tratto presenta un passo un po’ ostico, servito da due corde fisse. Superato il primo tratto, la salita prosegue, seguendo il crinale, alla volta della croce della vetta, dedicata a Paolo Bozzetti e posta a m. 1847: la raggiungiamo con un ultimo sforzo, appena usciti dalla macchia.
Lo spettacolo dal pizzo è veramente ampio: ad ovest lo sguardo raggiunge le Alpi Lepontine, mentre a nord ovest domina la costiera dei Cech. A nord, si può ammirare, a destra della cima del Desenigo, buona parte della testata della Val Masino: si scorgono i pizzi Badile e Cengalo, sono ben visibili i pizzi del Ferro (sciöma dò fèr), la cima di Zocca e di Castello, la punta Rasica ed i pizzi Torrone. Chiude la testata l’imponente monte Disgrazia. Mancano all’appello le cime più alte della Valmalenco, ma è ben visibile il pizzo Scalino. Ad est si mostrano il monte Lago e, alla sua destra, i monti Pedena ed Azzarini, fra i quali si trova il passo di Pedena, che unisce la val Budria alla valle del Bitto di Albaredo. A destra del passo di Pedena si vede il più famoso passo di san Marco. A sud ovest si può ammirare la testata della val Gerola, nella quale spicca il pizzo di Trona e, a destra, la bocchetta omonima. Verso ovest, infine, si vedono le cime del versante occidentale della val Gerola, a partire dal pizzo dei Galli e dal pizzo Olano. La salita da Bema al pizzo richiede circa tre ore di cammino, per superare poco più di 1000 metri di dislivello.
Torniamo, ora a Bema, per chiudere la traversata. Non abbiamo altra possibilità, se non vogliamo tornare per la medesima via, che quella di seguire la strada asfaltata che scende sul fianco orientale del dosso, conduce al ponte sul Bitto di Albaredo, posto a 437 metri, e si congiunge con la provinciale Morbegno-Albaredo-Passo S. Marco. La discesa è un po’ monotona, ma ci permette di osservare attentamente i fianchi non meno selvaggi e dirupati della bassa valle del Bitto di Albaredo. Percorrendo i 7,5 km che portano da Bema al punto in cui la strada si congiunge con la provinciale per S. Marco possiamo, in particolare, osservare il punto di congiunzione fra le due valli del Bitto, punto in cui il dosso di Bema si assottiglia fino a diventare uno sperone roccioso, che precipita nel fondovalle. Raggiunta la provinciale per il passo di S. Marco, affrontiamo l’ultimo tratto della discesa a Morbegno.
Invece di seguire la strada per il rimanente chilometro e mezzo, imbocchiamo la segnalata via Priula, che se ne stacca sulla sinistra e, tagliando in un paio di punti la strada, cala poi direttamente sulla parte alta del paese. Nell’ultimo suggestivo tratto la mulattiera corre fra due alte mura, fino alla porta terminale, che si affaccia sulla via San Marco. Termina così, con questa nuova immersione nella storia, una faticosa ma indimenticabile camminata.


Ma i volti femminili della paura in Valle del Bitto di Albaredo non finiscono qui. Altri ve ne sono, a cominciare dalle terribili streghe della Val Viaga. La cornice è, dunque, la val Viaga, un ripido vallone che, poco a monte rispetto ad Albaredo, precipita, nell’ultimo tratto quasi verticalmente, nelle oscure forre del Bitto. La via Priula la attraversa con un ponte, e ad Albaredo si diceva che un masso fatto rotolare da qui sarebbe finito nel Bitto, oltre 500 metri più in basso.
Ma la val Viaga non era famosa per questo, bensì per un diverso e più inquietante motivo: da sempre, a memoria di contadino, era infestata da streghe particolarmente bisbetiche e petulanti, che traevano un particolare piacere a terrorizzare i viandanti, a combinare scherzi che, possiamo ben immaginarlo, erano sempre di pessimo gusto; ma non si limitavano a questo, poiché giungevano a minacciare anche la salute delle bestie e l’abbondanza dei raccolti. Un vero peso per la vita già faticosa dei poveri contadini, che ne avrebbero fatto volentieri a meno.
Ecco che, nel 1721, un tal Togn (cioè Antonio) di Albaredo ebbe la bella idea di far costruire, nei pressi delponte sul canalone della valle (il canàa de Viaga),una cappelletta (gesöo, con voce dialettale) dedicata alla Madonna, con l’intento di tenerlontane le pestifere megere da quella via, così importante per i contadini che dovevano salire ai monti, così come ai mercanti, che passavano dalla valle di Bitto di Albaredo alla bergamasca per il passo di San Marco.
Colse nel segno, e le maliarde accusarono il colpo: l’odore di santità che promanava da quella sacra edicola le costringeva a starsene alla larga. Ma non si diedero per vinte: meditavano un’atroce vendetta, ed alla fine la loro mente contorta e perversa la partorì. In una notte di sabba, oscura, tremenda, senza luna, con l’aiuto del loro signore, il diavolo, posero un grande masso proprio sopra la cappelletta, a strapiombo sulla mulattiera. Il masso era sì saldato alla parete di roccia che fiancheggiava la mulattiera, ma il suo equilibrio appariva quantomeno precario.
Il mattino successivo il primo contadino che passò di lì rimase esterrefatto: quel masso strapiombante non prometteva proprio nulla di buono, sembrava proprio lì lì per cadere sulla mulattiera. Tornò, quindi, ad Albaredo per informare la gente del paese, che accorse, curiosa, timorosa, interdetta.
Alla fine uno di coloro che erano saliti per vedere quell’inquietante masso, un tipo cui non difettavano coraggio e spavalderia, tagliò corto e se ne uscì con questa frase, con un tono che non lasciava spazio a repliche: “Ma quale prodigio e prodigio! Comunque sia arrivato fin qui, quel masso, non potrà certo saltar giù dalla roccia. Di cosa dobbiamo aver paura? Voi fate come credete, ma io certo non mi farò alcun problema a passare. Figuriamoci se adesso dobbiamo star qui a tremare per un grosso sasso!”
Alle sue parole seguì qualcosa di davvero stupefacente: il masso, come se fosse rimasto offeso da quella tracotanza, cominciò ad oscillare. Tutti rimasero paralizzati dalla paura. Solo il più audace, ormai troppo compromesso per tirarsi indietro senza perdere la faccia, fece qualche passo avanti, come se volesse oltrepassare il masso e proseguire sulla mulattiera. Appena questi giunse, però, sulla verticale del masso, accadde qualcosa di ancor più incredibile ed orribile: il masso si staccò dalla parete di roccia e gli piombò addosso, schiacciandolo.
Con grida di raccapriccio i presenti si diedero alla fuga. Passarono giorni prima che qualcuno osasse tornare sul luogo, e, cosa prodigiosa, del malcapitato contadino, vittima del masso, non c’era traccia. Il masso, dal canto suo, se ne stava esattamente là dove era comparso, come se fosse tornato, non si sa come, al suo posto. I contadini, però, lo sapevano bene come tutto ciò era potuto accadere: c’erano dietro quelle disgraziate di streghe della val Viaga, e magari la mano dello stesso demonio.
Era un gran bel guaio. Quella via era un passaggio obbligato per chi doveva salire ai maggenghi di Egul (Egolo), Gradesc e Corte Grande (Curt Granda), ed agli alpeggi di Baitridana e Piazza. Qualcuno, spinto dal bisogno, tentò di farlo, ma ogni volta la cosa finì in tragedia, perché il masso prese ad oscillare per poi precipitare infallibilmente sul capo del disgraziato.
Come fare? Se la Madonna aveva fatto la prima grazia cacciando, dopo la costruzione della cappelletta, le streghe della val Viaga, solo lei poteva fare la seconda grazia, ponendo fine alla maledizione del masso. Ma dove pregare per questa grazia, se non alla chiesetta della Madonna delle Grazie, al dosso Chierico? Così pensò un tal mandriano, che, armato di fede e determinazione, si recò proprio là, ritirandosi in preghiera.
Quando uscì dalla chiesetta, sapeva cosa fare. Chiese ai contadini di una baita vicina un pezzo di burro fresco (panèt), che immerse nell’acqua benedetta della chiesetta, recitando un’Ave Maria. Si incamminò, poi, alla volta del masso maledetto. Quando giunse nei suoi pressi, si ripeté la solita scena sinistra, il masso cominciò ad oscillare.
Il mandriano non si perse d’animo, e pose il burro proprio alla sua base. E fu grazia per la seconda volta: il masso si fermò, d’improvviso, e non fu mai più visto oscillare. Il burro si era fatto roccia, lo aveva rinserrato definitivamente al corpo della roccia della montagna. La maledizione era terminata.
Da allora chiunque passi di qui recita un’Ave Maria, che è insieme un ringraziamento ed una richiesta di protezione, un’Ave Maria perché il masso non venga più via. Possiamo andarlo a vedere anche noi: dalla piazza di Albaredo percorriamo la via San Marco, fino ad intercettare la provinciale per il passo di San Marco. Pochi metri oltre, vedremo, sulla sinistra, la partenza della via Priula (in questo tratto denominata “grisciùn”). Dopo aver intercettato una pista più a monte, proseguiamo verso destra, ed in breve eccoci alla cappelletta ed al masso che incombe sulla via. È ancora lì. Ben saldato alla roccia.
E le streghe della val Viaga? Non hanno più dato segno di vita. Che stiano meditando una nuova controffensiva?
Nell'attesa di una risposta a questo inquietante interrogativo, raccontiamo la storia di una figura che, ad un primo e superficiale sguardo, potrebbe essere confusa con quella della strega, ma che si rivela, ad un esame più attento, personaggio diverso, la "végia gòsa".

Se gloria della Valle del Bitto di Gerola è l’homo salvadego, rappresentato nella “camera picta” di Sacco, figura che esprime il mito di un’umanità originaria, che viveva in armonia con la natura e non sentiva ancora la necessità di consorziarsi in comunità e città, aA questa gloria risponde la valle gemella, cioè la Valle del Bitto di Albaredo, con il corrispondente femminile, vale a dire la “végia gòsa”, una vecchia con il gozzo, che viveva nei boschi, allo stato selvaggio, e compariva, di quando in quando, suscitando curiosità o paura a seconda delle versioni che la segnalavano in questo o quel luogo della valle.
Preannunciata da un roco ansimare, legato all’età avanzata, sbucava, imprevedibile, sul limite dei boschi, affacciandosi sui pascoli e mostrando la sua figura trasandata. Come l’homo salvadego, aveva una presenza insieme imponente e orrida: alta un metro ed ottanta circa, era ricoperta di una fitta peluria e da pochi stracci, rinforzati, d’inverno, con erba secca.
Viveva di quanto la natura offre spontaneamente, soprattutto di frutti di bosco, e, per sua natura, non recava danno ad alcuno. Nondimeno, era temuta, vuoi per il suo aspetto, vuoi perché, si diceva, aveva l’inquietante abitudine di accompagnarsi ad altre figure femminili tutt’altro che innocue, le streghe.
Quali streghe? Quella della val Viaga, che abbiamo già imparato a conoscere. I genitori ammonivano i bambini ad attraversarla in fretta, senza fermarsi, perché in caso contrario la végia gòsa, insieme con le sue compagne streghe, se li sarebbero portati via. Sulla via Priula, in corrispondenza del ponte della valle, vi è anche, come sappiamo, una cappelletta, di fronte alla quale i viandanti dovevano sostare per ottenere, con la preghiera, la protezione contro le forze del male.
Le streghe, e con loro la végia gòsa, se ne stavano sempre a spiare, pronte a scagliare, con orribili strepiti, la loro maledizione su coloro che passavano oltre senza fermarsi a pregare. Ma poteva capitare anche di peggio, perché lo spuntone di roccia detto “corna”, che incombe sulla cappelletta, era stato fissato, dalle streghe, al fianco del monte con del semplice burro, perché potesse con tutta facilità essere fatto rotolare sui viandanti che non si raccomandavano alla Madonna ed ai Santi. 
In definitiva, la figura della végia gòsa ha subito una sorta di diffamazione, finendo per essere assimilata a quella delle perfide streghe. Responsabili, i molti genitori che hanno trovato comodo prospettare ai bambini disobbedienti la sua presunta minaccia: “se non obbedisci, viene la végia gòsa e ti porta via”…
In realtà la solitaria vecchia si aggira ancora per i boschi, schiva e desiderosa solo di essere lasciata in pace: per lei vale quanto l’homo salvadego dice a tutti coloro che ne visitano l’immagine nella camera picta: faccio paura solo a chi mi offende, cioè a chi non rispetta la mia natura, che è singolare, sì, ma non malvagia.
Un'altra incarnazione, sempre al femminile, delle paure ancestrali è, in Valle di Albaredo, la "sciura di ciuning", cioè la signora dei maialini che, si racconta, abitava all'alpeggio Corticelle (Curtesell) e se ne andava in giro con 5 o 6 maialini. Quando sorprendeva qualche bambino da solo, se lo portava via e lo dava in pasto ai suoi maialini. Questa storia contribuiva, qualora non fossero bastate quelle legate alla végia gòsa, a dissuadere i bambini dall'avventurarsi da soli nei boschi.
Chiudiamo questa carrellata di storie legate alla Valle del Bitto di Albaredo con un vertiginoso salto a ritrosonel tempo, o meglio, raccontando una storia che riannoda, in modo arcano (ma, abbiamo visto, questa valle è davvero la valle dell'arcano) il presente alle ombre di un passato remotissimo, eppure in qualche modo ancora vivo.

Restiamo, infine, nel cuore delle Valli del Bitto, passando, però, dalle streghe al diavolo.

Quand el suna l’Ave Maria quiì che de fö ed diavul glia porta via”, dicevano in Val Gerola: quando suona l’Ave Maria, quelli che sono fuori casa il diavolo se li porta via. Un modo di dire che assicurava il rientro, soprattutto nelle fredde serate d’inverno, dei bambini più riottosi.
Già, ma il diavolo, che si porta via i disobbedienti, da dove viene? Da un luogo oscuro e pauroso, che sembra l’immagine stessa dell’inferno, il fondo della valle, dove le rocce strapiombano sul letto del torrente, in quello che viene, appunto, detto un “orrido”. Un luogo che, però, non può essere del tutto evitato dagli uomini, perché è anche un passaggio forzato per chi debba transitare dal lungo dosso di Bema, che separa la valle del Bitto di Albaredo da quella di Gerola, alla Val Gerola e da qui al fondovalle, evitando percorsi troppo lunghi.
Ed è proprio nel punto in cui i due versanti si avvicinano maggiormente che questo passaggio avveniva, su un ponte rudimentale costituito da tronchi gettato dall’uno all’altro sperone di roccia. Un transito insidioso, dunque, soprattutto in cattive condizioni di tempo, un transito il cui esito era legato all’imperscrutabile destino: di qui, probabilmente, il nome del ponte, Punt de la Sort, Ponte della Sorte. Nel 1820 iniziò la costruzione di un più robusto ed affidabile ponte in pietra, ed ora il transito dall’uno all’altro versante è assai più sicuro. Non ha perso, però, il suo alone di mistero, che si è addirittura infittito, perché in quel medesimo Ottocento la prova della veridicità della credenza che lega questi luoghi al diavolo parve offerta dal racconto di una figura del tutto degna di fede.
Si trattava di don Carlo Passerini, nativo di Arzo, parroco di Sacco dal 1826 al 1873, ricordato, nella lapide cimiteriale, come “pio pastore e caritatevole”. Nel cuore di una calda estate questi venne invitato dalla vicina parrocchia di Bema per celebrare la festa di san Rocco.
Accolse di buon grado l’invito, e scese da Sacco al Dosso, e da qui al ponte sul Bitto, per poi risalire, sicuro, il dosso di Bema, fino al paese. Vi giunse di buon mattino, per dar modo ai fedeli che intendessero onorare degnamente il santo di confessarsi. Concelebrò, poi, nella solenne Santa Messa, seguita dalla processione rituale e da un festoso banchetto. Si trattenne anche per i Vespri, prima di rimettersi sulla via del ritorno alla propria parrocchia, intorno alle quattro del pomeriggio. Era stata una giornata luminosa e serena, senza una nube in cielo.
Ma, d’improvviso, il tempo cambiò: prima ancora che don Carlo giungesse in vista del ponte, il cielo si rabbuiò, coperto da densi nuvoloni che non promettevano nulla di buono. In un batter d’occhio si scatenò una violenta tempesta, con lampi che squarciavano come lame la semioscurità nel cuore della valle e tuoni che sembravano scuoterne i baluardi rocciosi. C’era di che aver paura, ma la paura si mutò in sgomento quando il sacerdote, giunto in fondo alla forra, vide che il ponte non c’era più. Pensò che fosse stato travolto dalle acque del Bitto che si era ingrossato come mai prima s’era visto.
Restò fermo qualche attimo, smarrito, il tempo sufficiente perché apparisse davanti ai suoi occhi increduli, improvviso come il fulmine che l’aveva preceduto, un personaggio a dir poco singolare, vestito con grande eleganza, che gli parlò con estrema calma ed affabilità. “Se vuoi, posso farti passare in tutta sicurezza sull’altro lato della valle, disse, a patto che mi riveli il nome della fedele più giovane che stamane hai confessato”. Bastò un cenno della sua mano perché fra le due sponde si stendesse un nuovo ponte.
Non ci volle molto al sacerdote per comprendere che, dietro quell’apparenza così distinta e rassicurante, si nascondeva il Maligno: una richiesta del genere non poteva che celare l’intento di condurre a dannazione un’anima innocente. Gli venne, allora, rapida come le saette che non avevano cessato di solcare l’aria, un’idea: “Lo farò, rispose, ma solo dopo che tu avrai nascosto alla mia vista il fiume in piena, perché altrimenti non avrò mai il coraggio di attraversare”. Il distinto signore non batté ciglio, e, con un nuovo cenno, fece alzare una densa foschia, che nascose ben presto al sacerdote la vista del furore delle acque.
La nebbia, sempre più fitta, avvolse interamente il luogo: non si vedeva, quasi, ad un palmo dal naso. Era il momento che don Carlo attendeva: conosceva a memoria quei luoghi, ed approfittò della visibilità quasi azzerata per correre oltre il ponte, tracciare un marcato segno della croce sul primo tratto del sentiero per Rasura e cominciare a risalirlo, correndo con tutto il fiato di cui disponeva sul ripido versante della Val Gerola. La nebbia, però, non tardò a diradarsi, ed l’enigmatico signore si accorse di essere stato gabbato. Abbandonò, allora, le finte sembianze e si mostrò per quel che era, il diavolo, mettendosi, a sua volta, a correre per prendersi la sua vendetta su quell’impudente sacerdote. La sua corsa, però, fu subito frenata dal segno della croce, quel segno di fronte al quale non poteva far altro che arretrare, impotente. La sua rabbia, allora, si convertì in una maledizione, che don Carlò, qualche decina di metri più in altro, ebbe modo di udire: “Mi hai ingannato, ma dopo la tua morte questa montagna franerà”.
Fu per buona sorte o per prontezza d’ingegno che il sacerdotè poté scampare al demonio? Forse neppure lui avrebbe potuto dirlo. Quel che è certo è che, anche a distanza di parecchio tempo da quell’incontro tremendo, don Carlo amava chiudere il suo racconto con una battuta di spirito che ne stemperava la tensione: “poor Bemìn, se möri mi!”, cioè “poveri abitanti di Bema, se muoio io”. Si dovette attendere, però, oltre un secolo dopo la sua morte perché un movimento franoso interessasse, nel 1980, questo versante. Forse la grande frana annunciata dal demonio deve ancora venire.
Vogliamo sfidare, a nostra volta, la sorte e visitare i luoghi legati a questo suggestivo racconto? Imbocchiamo, allora, la ex statale 405, ora strada provinciale, della Val Gerola, lasciando la ss 38 dello Stelvio, sulla sinistra, all’ultimo semaforo all’uscita di Morbegno (per chi proceda in direzione di Milano), fino a raggiungere, dopo 7 km., il primo paese della valle, Sacco. Svoltiamo all’altezza della strada che si stacca, sulla destra, per salire in paese, e parcheggiamo l’automobile. Tornati sulla ex statale 405, ora strada provinciale,, imbocchiamo subito la stradina (la strada “del Picc”) che se ne stacca sulla sinistra e, correndo più a valle, conduce alla località il Dosso (m. 677), dove, poco sotto la stradina e le case, troviamo la bella chiesetta di San Giuseppe, che sembra messa lì, sul punto in cui il crinale si fa più ripido e pare sprofondare nel cuore oscuro della valle, a difesa delle forze del male che potrebbero emergere dal suo fondo.
Proseguiamo, poi, in direzione del solco della valle del torrente Il Fiume, che viene superato su un ponte in corrispondenza della cascata della Püla. Subito dopo il ponte, sulla sinistra, troviamo il Museo etnografico Vanseraf, ricavato dalla ristrutturazione dell’antico Mulino del Dosso. Superato un tratto di più marcata salita, raggiungiamo, quindi, Rasura, passando proprio sotto il cimitero e l’imponente campanile della chiesa parrocchiale di S. Giacomo (m. 762), di origine medievale (anche se l’attuale edificio è l’esito di una ristrutturazione iniziata nel 1610).
Non dobbiamo salire al paese, ma, proprio sotto la chiesa, prestare attenzione ad un cartello che indica la partenza, sulla sinistra, del sentiero che scende al Ponte della Sorte. Imbocchiamo il sentiero e cominciamo a scendere, in un ombroso bosco di castagni, superando qualche rudere di baita ed inanellando diversi tornantini. Intercettiamo anche, sulla sinistra, il sentiero che parte dal Dosso (e che non è facile da trovare, per cui è meglio iniziare la discesa da Radura). Dobbiamo perdere quasi 300 metri di quota, e, nell’ultimo tratto, cominciamo a sentire il rumore delle acque del Bitto, che corrono nella profonda gola del fondovalle.
Al termine della discesa, ecco il ponte, a 475 metri, gettato proprio nel punto in cui le due sponde della valle, rinserrata fra orride muraglie di roccia, si avvicinano. Lo spettacolo è davvero affascinante: non solo il nome del ponte, ma anche l’aspetto dei luoghi evoca gli arcani e misteriosi dettami del fato, nascosti agli uomini come è nascosto lo spettacolo del cuore oscuro di questa valle. In passato, per la verità, questo ponte era assai più frequentato, mentre oggi ben difficilmente incroceremo qualcuno.
Pochi passi, e siamo sul fianco occidentale del dosso: il sentiero prosegue con un tratto un po’ esposto verso destra (attenzione, in caso di neve o ghiaccio), cui segue un ultimo tratto verso sinistra. Al termine la traccia confluisce nella nuova strada asfaltata, ancora chiusa al traffico, tracciata dopo la rovinosa alluvione del 2000, per sostituire quella che raggiunge Bema correndo sul lato opposto (orientale) del dosso. Seguendola (oppure seguendo il sentiero, di cui troviamo, poco sopra, la ripartenza) cominciamo la salita che si conclude alle prime case di Bema (m. 793).
Salendo, sostiamo, di quando in quando, per ammirare gli scenari unici che ci si offrono al nostro sguardo. Se guardiamo verso sud, cioè in direzione della media ed alta Val Gerola, vedremo apparire una parte della testata, con l’inconfondibile profilo del pizzo di Tronella e, alla sua destra, le forme simmetriche del pizzo di Trona ("piz di vèspui"). Ma ancor più interessante è quello che appare in direzione ovest e sud-ovest: si mostra il pauroso e scuro fianco della valle (e ci domandiamo come abbiamo potuto scenderlo interamente), mentre alla sua sommità fa capolino, come sentinella posta ai limiti di questo regno delle ombre, il campanile della chiesa di Rasura.
Spostiamo lo sguardo a sinistra, in direzione sud-ovest: distingueremo, sull’aspro fianco della valle, alcuni prati che scendono arditamente verso la sua forra, con qualche baita che sembra sospesa sulla vertigine: si tratta dei prati della località Scacciadiavoli (m. 630), a valle della pista che congiunge Rasura a Pedesina. Di nuovo il diavolo, dunque. La denominazione dei prati ha un significato inequivocabile, ed esorcizza la paura di quegli spiriti maligni che la valle del Bitto sembra sempre poter vomitare dal suo cuore tenebroso. Se guardiamo a nord, infine, ci appaiono, sulla solare Costiera dei Cech (che genera un singolare contrasto con la valle del Bitto), le sue più importanti cime, vale a dire la cima di Malvedello e, alla sua sinistra, il monte Sciesa.
Ma è tempo di riprendere il cammino, alla volta di Bema, paese quasi unico per la sua posizione isolata, di difficile accesso, ma anche per la sua collocazione climaticamente e panoramicamente assai felice, che giustifica l’antichità dell’insediamento. Ci accoglie, dopo circa un’ora e tre quarti di cammino, la bella chiesa di San Bartolomeo, di origine medievale, ma profondamente ristrutturata a partire dal secolo XVII. Il centro del paese, con le case l’una a ridosso dell’altra, ci regala quell’inesprimibile sapore d’antico che contribuire a cacciare dalla mente i tetri pensieri legati alle forze oscure ed alla loro permanente minaccia.

STORIA
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AMBIENTE

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I PROVERBI SONO IN GRAN PARTE TRATTI DAI SEGUENTI TESTI:

Gaggi, Silvio, "Il volgar eloquio - dialetto malenco", Tipografia Bettini, Sondrio, 2011
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996)
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003
Pier Antonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pier Antonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pier Antonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Pier Antonio Castellani, "Detti e citazioni della Valdidentro", I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Luigi Godenzi e don Reto Crameri, "Proverbi, modi di dire, filastrocche raccolti a Poschiavo, in particolare nelle sue frazioni", con la collaborazione di alcune classi delle Scuole di Avviamento Pratico, Tip. Menghini, Poschiavo (CH), 1987
Lina Lombardini Rini, "Favole e racconti in dialetto di Valtellina", Edizioni Sandron, Palermo-Roma, 1926
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)


Utilissima anche la consultazione di Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001

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PRINCIPALI TESTI CONSULTATI:

Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
Tullio Urangia Tazzoli, "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, Anonima Bolis Bergamo, 1935;
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996);
Giuseppina Lombardini, “Leggende e tradizioni valtellinesi”, Sondrio, ed. Mevio Washington, 1925;
Lina Rini Lombardini, “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950;
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice;
Glicerio Longa, "Vocabolario Bormino”, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913;
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000);
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – Fidanzamento e matrimonio” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2004);
Luigi De Bernardi, "Almanacco valtellinese e valchiavennasco", II, Sondrio, 1991;
Giuseppe Napoleone Besta, "Bozzetti Valtellinesi", Bonazzi, Tirano, 1878;
Ercole Bassi, “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ”, Milano, Tipografia degli Operai, 1890;
"Ardenno- Strade e contrade", a cura della cooperativa "L'Involt" di Sondrio;
"Castione - Un paese di Valtellina", edito a cura della Biblioteca Comunale di Castione, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario di Sondrio;
don Domenico Songini, “Storie di Traona – terra buona”, vol. II, Bettini Sondrio, 2004;
don Domenico Songini, “Storia e... storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001;
Scuola primaria di Sirta: calendari 1986 e 1991 (a cura dell'insegnante Liberale Libera);
Luisa Moraschinelli, “Uita d'Abriga cüntada an dal so dialet (agn '40)”;
Giovanni Bianchini e Remo Bracchi, "“Dizionario etimologico dei dialetti della Val di Tartano”, Fondazione Pro Valtellina, IDEVV, 2003;
Rosa Gusmeroli, "Le mie care Selve";
Cirillo Ruffoni, "Ai confini del cielo - la mia infanzia a Gerola", Tipografia Bettini, Sondrio, 2003;
Cirillo Ruffoni, "Chi va e chi resta - Romanzo storico ambientato in bassa Valtellina nel secolo XV", Tipografia Bettini, Sondrio, 2000;
Cirillo Ruffoni, "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento", Tipografia Bettini, Sondrio, 1998;
Mario Songini (Diga), "La Val Masino e la sua gente - storia, cronaca e altro", Comune di Val Masino, 2006;
Tarcisio Della Ferrera, "Una volta", Edizione Pro-Loco Comune di Chiuro, 1982;
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003;
Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001;
Associazione Archivio della Memoria di Ponte in Valtellina, "La memoria della cura, la cura della memoria", Alpinia editrice, 2007;
Luisa Moraschinelli, "Come si viveva nei paesi di Valtellina negli anni '40 - l'Aprica", Alpinia editrice, 2000;
Aurelio Benetti, Dario Benetti, Angelo Dell'Oca, Diego Zoia, "Uomini delle Alpi - Contadini e pastori in Valtellina", Jaca Book, 1982;
Patrizio Del Nero, “Albaredo e la via di San Marco – Storia di una comunità alpina”, Editour, 2001;
Amleto Del Giorgio, "Samolaco ieri e oggi", Chiavenna, 1965;
Ines Busnarda Luzzi, "Case di sassi", II, L'officina del Libro, Sondrio, 1994;
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Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Pietro Ligari, “Ragionamenti d’agricoltura” (1752), Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1988
Saveria Masa, “Libro dei miracoli della Madonna di Tirano”, edito a cura dell’Associazione Amici del Santuario della Beata Vergine di Tirano” (Società Storica Valtellinese, Sondrio, 2004)
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Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890

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(Massimo Dei Cas, www.paesidivaltellina.it)