SANTI (clicca qui per aprire la pagina relativa a questo giorno dal sito www.santiebeati.it):
S. Giuseppe, S. Quinto, Giuseppina, Pino, Sibilla, Quartilla

SANTI PATRONI: S. Giuseppe (Forcola, Grosio)

PROVERBI

Par Sant’Üsèpp l’üga sül capèl (per San Giuseppe, i primi grappoli d'uva li puoi mettere sul cappello - Samolaco)
Chi el sumna kul vént, el cöi kun la tampesta

(Chi semina con il vento, raccoglie con la tempesta - Teglio)
San Giüsèp dal bastón fiurì (san Giuseppe dal bastone fiorito)
San Giusèp porta via la candela e porta la marenda
(San Giuseppe porta via la candela e porta la merenda - Poschiavo)
San Michél al pòrta ‘l candeléir e san Giuséf al la pòrta via (San Michele porta il candeliere, perché si va verso l’autunno, e san Giuseppe lo porta via, perché viene primavera)
A San Michel al di l'e lungh cume a San Giüsèp
(a san Michele - 29 settembre - il giorno è lungo come a san Giuseppe - Poschiavo)
Chìi l’è mài piée l’è mèi tösal de tùrnu (chi non è mai sazio è meglio toglierselo di torno - Tirano)
Chìi l’è piée sta bée (chi è sazio sta bene - Tirano)
La gáta malfidénta cumè la fè la pénsa (la gatta diffidente come fa, pensa - Samolaco)
San Gregòri al mena quarantena giùsta, se san Giufèf nò la desgiùsta (le condizioni climatiche del giorno di s. Gregorio perdureranno per 40 giorni, se non saranno variate dal giorno di s. Giuseppe - Grosio)
Tra can gross nu's mordan (tra cani grossi non si mordono - Val Bregaglia)
Sa to vos sta ben, giùtat cun la boca (se vuoi stare bene, aiutati con la bocca - Poschiavo)

Leggende di Forcola

VITA DI UNA VOLTA

Giorno di mercato a Berbenno, a Grosio ed a Bormio. Annota, infatti, Giuseppe Romegialli, nella sua “Storia della Valtellina” (1834): “È fiera in Bormio li 12, 23, 24 ottobre. In Chiavenna il 1, 2, 3 dicembre. In Delebio li 16, 17, 19 ottobre. In Tirano li 10, 11, 12 di detto mese. Vi è mercato a Sondrio ogni sabbato. A Bormio il 18 ottobre: a Berbenno il 19 marzo: a Chiuro dal 30 novembre al 3 dicembre: a Chiavenna li 19 marzo, e il 3 ottobre ed il 30 novembre: alle Fusine il 10 agosto ed il 30 novembre: a Grosio il 19 marzo: a Morbegno ogni sabbato: a Novate il 29 settembre: a Tirano alla Pentecoste per 3 giorni, e dal 28 al 31 ottobre: e finalmente in valle S. Giacomo li 25 giugno.”

Oggi si celebra la festa patronale della Sirta (Forcola). La seguente carrellata di leggende, ambientate nell'arcana Val Fabiolo, che si apre (anzi, quasi si chiude) a monte del paese, vuole essere un omaggio a questo simpatico nucleo sul versante orobico ai confini fra media e bassa Valtellina.

Semplificando un po’, si potrebbe dire che tre sono i volti fondamentali della paura, il mostruoso animale, il mostruoso umano ed il mostruoso spirituale. Al primo appartengono animali, più o meno fantastici, che occupano il territorio nel quale l’uomo si avventura solo per necessità, esponendosi al rischio della loro terrificante apparizione. Al secondo appartengono le degenerazioni dell’umano, nel senso della bestialità (orchi) o della deliberata dedizione al male ed alle sue arti (streghe, maghi). Al terzo appartengono tutti coloro che dal paese dei morti tornano a spaventare gli uomini (spiriti, fantasmi) e colui che, probabilmente, è l’oscuro regista di tutte queste epifanie del male, il diavolo. Una valle sembra ospitarli tutti, forse la più singolare, appartata, ombrosa e misteriosa nell’arco delle valli di Valtellina. Una valle dal nome simpatico ed inoffensivo, Fabiòlo, valle del piccolo faggio.
Chi si trovasse a transitare sulla ss. 38, all’altezza di Ardenno, e volgesse lo sguardo sul versante opposto (orobico), sarebbe colpito dal paese della Sirta, dal ben visibile cupolone della sua ottocentesca chiesa di san Giuseppe (il più grande, con la sua altezza di 38 metri, dell’intera provincia) e dallo strapiombante roccione della Caurga. Alle loro spalle, una forra profonda ed orrida che, vista da qui, appare semplicemente inaccessibile. Anticamente il torrente Tàrtano passava di qui, e ne scavò il solco, incassato fra gli aspri versanti che scendono, verso nord, dalla cima della Zocca, ad est, e dal Crap del Mezzodì, ad ovest. Ma lo sguardo inganna. Dietro la forra serpeggia una valle tutt’altro che inaccessibile, la Val Fabiolo, appunto.
Di qui passava anche la più importante mulattiera che consentiva, prima della costruzione della carrozzabile (1956-57), di accedere, dal fondovalle, alla sella di Campo ed alla Val di Tàrtano. Una mulattiera di cui l’alluvione del 13 luglio 2008 ha fatto scempio, a riprova di quel che i suoi abitanti da sempre sanno: qui hanno dimora potenti forze oscure. Lo diceva già uno dei più celebri parroci della Sirta, don Abbondio Della Patrona, che con quelle forze si era confrontato.
Costui, infatti, nonostante il nome, non assomigliava neppure lontanamente al pavido don Abbondio manzoniano, ed una volta, deciso a farla finita con gli spiriti che infestavano la valle, la risalì di notte, con tutte le formule di esorcismi, anatemi, scongiuri, insomma di quel che serve per ricacciare le anime nell’aldilà e per volgere in fuga i demoni. Non fu impresa da poco: egli stesso giunse a Campo molto provato, dopo aver visto spettacoli orribili. E non giunse da vincitore: gli spiriti c’erano ancora, tanto che lui stesso, salomonicamente, conclude che l’unica cosa da fare, per essere sicuri, era di evitare di passare per la valle, e non solo di notte, ma anche di giorno. Era, però, un parroco indomito, perché ingaggiò altre battaglie con le forze oscure, come quando, nell’alluvione del 1911, benedisse le acque del torrente Fabiòlo, la cui furia era stata scatenata dagli spiriti malvagi, e riuscì, così, a salvare dal loro impeto le case della Sirta. Tante lotte, alla fine, ne minarono la fibra e lo condussero ad una morte prematura, anche perché la lotta aveva conseguenze fisiche non indifferenti: si racconta, infatti, che una volta ricevette un sacco di bastonate sul groppone, tanto che fu indotto ad andarsene da Sirta. Chissà cosa avrebbe detto o fatto, oggi, quando le forze del male si sono date solenne convegno ed hanno gonfiato a dismisura la furia del Fabiòlo, riuscendo finalmente a devastare il fondo della valle. Lui non c’era. Chissà cosa avrebbe detto o fatto. Avrebbe tentato di lottare, probabilmente, poi magari avrebbe commentato: “L’avevo detto, che quella valle va lasciata stare: meglio starsene alla lontana”.

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Noi, invece, vogliamo visitarla, per cercare di sorprendere gli indizi ed i segni dei tre volti della paura. Ci sono tutti e, singolarmente, sembrano essersela spartita: la mostruosità animale sul versante di sinistra (per chi sale; orientale), quella umana sul versante di destra, quella spirituale sul fondovalle. Il materiale alluvionale che ne occupa buona parte del fondo rende più difficile il cammino e ci priva del piacere di camminare su una delle più belle mulattiere alpine; ma la curiosità vince ogni difficoltà. Parte alle spalle della chiesa di San Giuseppe, segnalata da segnavia rosso-bianco-rossi, con numerazione 17 (quando si dice l’ironia involontaria!), e, dopo un primo tratto verso destra, volge decisamente a sinistra (est), ripassa sulla verticale del cupolone (al baach, suggestivo balcone panoramico), piega leggermente a destra e lascia il regno della luce per inoltrarsi fra le ombre di impressionanti pareti verticali, dal profilo accidentato, che sembra insieme espressione di un tormento e di un ghigno.
La percorse anche un tal Gaspare, di Somvalle (il gruppo di case che, ancora in comune di Forcola, è posto alla sommità della valle), che tornava a casa dopo essersi recato a Biòlo. Entrato nella valle, giunse al suo primo ponticello (detto “d’inem la val”, cioè all’inizio della valle), dove dalla mulattiera si stacca, sulla sinistra, un sentiero che, inerpicandosi sul fianco dirupato della valle, conduce a Lavisòlo (piccolo nucleo posto sul bel poggio che sovrasta la Caurga). Lì si accorse che, proprio dal sentiero per Lavisòlo, giungeva una processione inquietante di figure incappucciate, che procedevano silenziose, reggendo una candela. Fu tanto lo spavento, che non riuscì neppure a muoversi, cosicché la processione lo raggiunse ed uno degli incappucciati, senza mostrare il suo volto, gli chiese di reggere anche lui una candela e di seguirlo. Gaspare, sempre in preda al terrore, si incamminò al seguito di quel sinistro corteo, su su, per la val Fabiòlo, fino al Gisöl dul zapel de val, cioè alla cappelletta posta sul limite della sella erbosa posta alla sua sommità, dove la processione si diresse verso destra, in direzione della chiesa di Campo, che si trova oltre il cimitero. Giunto alla chiesa, si accorse non si sa bene come, che la processione non c’era più: era rimasto lui solo, con la candela in mano. Corse, quindi, a bussare alla porta del parroco, per raccontargli l’accaduto, e fu allora che si avvide, con raccapriccio, che ciò che reggeva non era una candela, ma una tibia.
Il fondovalle, dunque, è territorio della paura degli spiriti. Altre due leggende, legate ai due gruppi di baite che si incontrano risalendo la valle, cioè Bores (o Bures, m. 650) e Sponda (o Spunda, m. 909), lo confermano. Si dice che, dopo il tramonto, chi passa di qui può sentire il misterioso tintinnìo di uno “zampugnìi”, il campanello che si lega al collo delle capre per individuarne la posizione. Ma non c’è nessuna capra. Si vedono, talvolta, misteriose figure che ballano tenendo in mano una fiaccola. La spiegazione di questi eventi prodigiosi è ricondotta ad un’antica frana che, alla Sponda, seppellì un gruppo di persone intente a gozzovigliare, senza ritegno né timor di Dio. Le loro anime pare si aggirino ancora sul fondovalle e si diano, talora, convegno per rinnovare l’ebrezza dei balli sfrenati: molti dicevano di averle viste, passando sulla mulattiera, a notte fatta, nelle notti più chiare. Non tutti, però, credevano agli spiriti festaioli.
In particolare un tal Beroldo (nome peraltro non lusinghiero: il termine dialettale “beròolt” significa “persona che agisce in modo affrettato e senza riflettere “ – cfr. il Dizionario dei Dialetti della Val Tartano, di Giovanni Bianchini -) era convinto che fosse tutto uno scherzo, e, senza pensarci troppo (da beròolt, appunto), decise di appostarsi per sorvegliare uno dei luoghi in cui la danza macabra era segnalata. Quando vide muoversi delle ombre, si avvicinò ad una delle figure, per unirsi nel ballo e smascherare la burla. La figura accetto l’invito al ballo, e Beroldo, spavaldo e sicuro di sé, si mise ad inanellare giri di walzer con grande piglio e foga. Tanto che udì il partner apostrofarlo con queste parole: “O pian Beroldo che i mort i gan poca forza.” Da allora Beroldo si guardò bene di percorrere la valle di notte e gli scettici furono confutati; gli abitanti di Campo, poi, presi da gran paura, smisero di uscire dopo il tramonto, standosene chiusi a chiave in casa fino al mattino.

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Sappiamo che il male spirituale ha la sua massima espressione nel diavolo, angelo ribelle. La Val Fabiolo, diciamolo, non può vantare la presenza di grandi diavoli. Ce n’è (anzi, ce n’era, perché da gran tempo mancano sue notizie) solo uno, ovviamente nel territorio che gli compete, il fondovalle. Si trattava di un diavolo burlone, conosciuto nella valle con il nome di "bòia alégru": infatti non trovava di meglio da fare che passare il tempo ad architettare e mettere in atto scherzi e burle a danno dei contadini, che avevano cosa più serie a cui pensare. Entrava, non visto, nelle stalle e, per esempio, slegava le mucche, o le legava per la coda: si divertiva così, mentre i contadini si divertivano assai meno. Di lui, il più delle volte, si udiva solo la risata beffarda. Qualche volta, però, si lasciava anche vedere, e sembrava, ad una certa distanza, un vero e proprio gigante, di dimensioni da metter paura. Ma, quando qualche contadino, più coraggioso, osava farsi avvicinarsi, le sue dimensioni si riducevano progressivamente, con grande stupore del coraggioso. Questi, alla fine, invece di un gigante da abbattere, si trovava di fronte un piccolissimo folletto che, dopo un ultimo lazzo, scompariva, lasciandolo letteralmente a bocca aperta.
Volgiamo la nostra attenzione, ora, ad ovest, cioè al versante di destra (per chi sale) che, all’altezza dei Bùres si addolcisce ed ospita lo splendido nucleo di Sostila (Sustìla), con le vicine piccole frazioni dell’Arèt, dell’Era e del Prato. Vi sale una bella mulattiera che si stacca, in due rami convergenti, dalla mulattiera del fondovalle all’altezza dei Bùres. Questo versante è il territorio del mostruoso umano, delle streghe. Si raccontano, al proposito, diverse storie. Le riassume un po’ tutte quella che ha come protagonista un bel giovane di Sostila, che aveva adocchiato una famiglia costituita da una vedova e da tre figlie graziose, che viveva alla contrada dell’Era. Si trattava di gente che se ne stava sul suo, come si suol dire, viveva appartata, non sembrava partecipe della vita del paese: non le si vedeva mai né in chiesa, né al lavatoio posto appena prima dell’ingresso del paese, cioè nei luoghi in cui si apprende quel che la gente dovrebbe fare e quel che effettivamente fa. Di loro non si diceva bene, ma questo accade spesso di persone un po’ originali, che si discostano dal modo di fare dei più. Questo il giovane lo sapeva, per cui non si preoccupava affatto delle dicerie, anzi, vedeva nella riservatezza della singolare famiglia una garanzia di particolare virtù.
Così, gradualmente, cominciò a frequentare la loro casa. “Si parlava”, come dicevano e dicono ancora di persone che sono seriamente intenzionate a legarsi sentimentalmente, con una delle tre figlie, la più giovane e graziosa, ma in realtà era deciso, in cuor suo, a non abbandonare la possibilità di poter fare la corte anche alle sorelle, se la sua prima scelta gli avesse opposto un rifiuto. Tutto nei modi e nei tempi dovuti, anche se, a quei tempi, i fidanzamenti non duravano molto: “Murùs tri, quàtru mìis, cinq, e pö vìa”, cioè “Morosi tre, quattro mesi, cinque, e poi via”, recita un proverbio locale. Ma il giovane non aveva alcuna fretta, sapeva attendere, e con pazienza costruiva una delicata trama di colloqui cauti e solo timidamente confidenziali con la ragazza che gli interessava, alla presenza delle sorelle, che non la lasciavano mai sola, e con la stessa madre, che raramente mancava. Colloqui nell’orto della casa delle sorelle, qualche volta anche dentro la casa, la cui fresca ombra ristoratrice era particolarmente gradita nei pomeriggi estivi arroventati dal sole. Qualche chiacchiera capitava di farla anche alla sera, quando c’era più tempo, perché il lavoro nella campagna era terminato ed il giovane aveva anche finito di “dà da régula a li besti” cioè di governare bestie.
La cosa andava avanti, senza nulla di particolarmente notabile. Se non fosse per un dettaglio, all’inizio insignificante ai suoi occhi, poi sempre più enigmatico: le giovani e la madre sembravano accettare di buon grado la sua compagnia tutti i giorni, tranne che il giovedì. In quel giorno proprio non c’erano. O se c’erano non si facevano trovare: a nulla valeva bussare alla porta. La cosa era quantomeno singolare. Così, un pomeriggio d’inverno, periodo nel quale le incombenze legate al lavoro della terra si diradano, decise di risolvere il mistero affidandosi ai suoi stessi occhi: varcò il cancelletto che delimitava l’orto della casa e si mise a spiare da una finestra. Il sole non c’era già più, era scomparso dietro il Culmine di Dazio, l’aria si era fatta pungente, ma il giovane rimase fermo, ad osservare: all’interno non si vedeva nessuno, però il focolare era acceso, e qualcuno doveva pur esserci. Attese, e la sua pazienza fu ripagata: nel volgere di mezzora circa, ecco apparire la prima sorella, la più giovane, e poi le altre due, ed infine la madre. Tutte sembravano in preda ad una frenetica eccitazione. Loro, di solito così posate e composte, avevano dipinta in volto quell’impazienza che riconosci in ogni bambino del mondo la vigilia di Natale.

Poi, accadde qualcosa che lo lasciò senza fiato. Con delicatezza, ciascuna delle quattro donne cominciò a torcersi il collo ed il capo. La testa girava in modo innaturale, e compì un giro completo una, due, tre volte, prima di staccarsi dal busto. Rimase, scena raccapricciante ed incredibile, il busto senza testa, ma non senza vita, un busto dal quale si staccavano due braccia che terminavano in due mani che, con cura, afferravano la testa staccata. La testa, a sua volta, non aveva perso la sua consueta espressione, solo, sembrava molto concentrata, compresa in quel che stava per accadere.
Cosa stava accadendo, in effetti? Il giovane ebbe modo di capirlo subito. Molto semplicemente, ma si fa per dire, le donne si stavano facendo belle e dedicavano le loro cure ai capelli, passandosi a turno una spazzola, con la quale se li rassettavano ed acconciavano con grande attenzione. Se non fosse stata orripilante, la scena sarebbe parsa perfino comica: gli occhi di ciascuna testa, che una delle mani teneva saldamente, seguivano con attenzione i movimenti dell’altra mano, che metteva in piega i capelli. Quando, alla fine, questi ebbero assunto la foggia desiderata, la spazzola fu riposta ed entrambe le mani rimisero capo e collo sul busto, avvitandoli in senso contrario una, due, tre volte. Il capo si diede uno scrollone, e tutto tornò come prima. Alla fine tutte e quattro terminarono il macabro maquillage, ed era già sera fatta: suonavano, dal campanile della chiesetta della Madonna della Neve, i rintocchi dell’Ave Maria, che invitano la gente a rivolgere una preghiera al cielo ed a ritirarsi nelle case.
Per le quattro, invece, era giunto il momento di lasciarla, la casa: si diressero al camino, nel quale il fuoco si era spento, ma ancora ardeva la brace, e si infilarono nella cappa, sparendo in breve tempo dalla vista del giovane, che aveva assistito per tutto il tempo senza muovere un muscolo. Questi, allora, si riscosse. Aveva compreso tutto. Le quattro altri non erano che streghe, e si sa che è proprio al rintocco della campana della sera che questi esseri malvagi si levano in volo per recarsi ai loro malefici raduni o insidiare chi si attarda fuori casa. Si pentì di non aver dato retta alle dicerie della gente, e da quel giorno evitò accuratamente di passare anche solo nei paraggi della casa maledetta.
In quel di Sostìla si raccontava anche la storia di un parroco di ben altra pasta rispetto al campione della fede Don Abbondio. Un parroco che aveva la "fisica". La credenza popolare designa con il termine di "fisica" la condizione, forse dovuta a malattia, forse ad un patto con le forze oscure, che permette a certe persone di operare effetti prodigiosi, trasformazioni, stregonerie ed incantamenti. Costui non la usava per compiere azioni davvero malvagie, ma si trasformava in gatto.

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Se da Sostila guardiamo al versante opposto della valle, quello orientale, distinguiamo facilmente i prati e le poche baite della frazione Motta (la Mùta). Poco sopra, a sinistra, si intravvede la splendida conca di prati del Pramusìi, con la caratteristica Casa Rotonda (Caì rudùnda), piccolo edificio di forma circolare.  Sopra Pramusìi si trova un corridoio (pàs de la Mùta) per il quale si passa facilmente dalla Val Fabiolo al versante orobico di Alfaedo, che guarda alla piana della Selvetta. A destra della Motta, infine, si vede un selvaggio versante di rocce, pini e faggi, che si incunea in un vallone e termina a monte della Sponda.
Ebbene, tutto questo è territorio del mostruoso animale, che qui ha una sola e terribile espressione, il basalèsk (o basalìsk), drago con le ali di pipistrello, la testa di gallo e gli occhi infuocati, che infestava il versante della Motta. Non era molto grande, ma incuteva terrore: poteva stordire e perfino uccidere con lo sguardo o con il fischio. Viveva in qualche anfratto nascosto e minacciava in particolare i viandanti che, sfruttando una comoda bocchetta sopra Pramusìi, la raggiungevano salendo da Alfaedo per poi scendere in Val Fabiolo, ma si annidava anche nei pressi del pauroso sentiero della Rusanìda, da Pramusìi alla Sponda.
Al riguardo è assai viva nella memoria popolare quel che accadde sul finire dell’Ottocento. Il Cardinal Andrea Ferrari, che fu vescovo di Como  fra il 1892 ed il 1894, prima di diventare arcivescovo di Milano, venne in visita pastorale in Valtellina e volle visitare Campo Tartano. Veniva da Alfaedo e passò per la bocchetta sopra Pramusìi (passo della Mùta). Per risparmiare tempo, non scese al fondovalle, ma rimase a mezza costa, sfruttando, appunto, il sentiero della Rusanìda, uno dei più aspri ed infidi delle Orobie Valtellinesi. Era un uomo di grande tempra, oltre che di grande santità, non aveva paura di fatica e dirupi. Quando giunse al punto più critico, dove il sentiero è intagliato nella viva roccia e corre su un impressionante strapiombo, gli uomini che gli facevano da guida si offrirono di sorreggerlo e di dargli la mano per sicurezza. Egli, però, non volle farsi aiutare, e rivelò di essere stato, da ragazzo, umile capraio: ne aveva visti di passaggi sospesi sul vuoto, ormai non lo impressionavano più. Giunse, quindi, a Campo, il 6 agosto 1893, e si fermò fino al giorno successivo, consacrando la chiesa e l'altar maggiore.

In paese non si parlava d'altro: tutta la gente esprimeva la sua ammirazione per quel cardinale così santo, così coraggioso e così alla mano. Dicevano: "Pensée mò che l'è pasà da Rusanìda!" (“Pensate un po’, è passato da Rusanìda!”). Da allora, quando qualcuno si lamentava di dover badare alle capre, veniva quasi sempre apostrofato con frasi di questo tenore: "Vàrda che dàa 'l cardinal Feràri l'ha fàc ul cauréer", cioè "Guarda che anche il cardinal Ferrari ha fatto il capraio!". Si diceva anche: "Crèet mìa da sbasàt a percürò 'l càure, che dàaa 'l cardinàl Feràri, quànt l'èra 'n tùus, l'andàva cul càure", cioè: "Non credere di fare un lavoro umile curando le capre, perché anche il cardinal Ferrari, quando era ragazzo, andava con le capre" (cfr. il Vocabolario dei dialetti della Val Tartano di Giovanni Bianchini).
Cosa c'entra tutto questo con il basilisco? C'entra, eccome, perché dopo il passaggio del Cardinale, il basilisco scomparve. Nessuno lo vide più, nessuno più né sentì il fischio, né alla Rusanìda, né al passo della Mùta. Non se ne sentì più parlare. Il sentiero rimase con tutti i suoi pericoli, ma almeno fu liberato da quell'essere malefico. Ed a quanti mettevano in dubbio che il basalèsk fosse mai esistito, si rispondeva: se il Cardinal Ferrari lo ha messo in fuga, vuol dire che prima c’era, eccome…!

Ma dov’è questo inquietante sentiero? Una carta dei sentieri del Comune di Forcola, consultabile alla Sirta ed alla frazione Ca’ presso Somvalle, lo cita. Chi scende da Somvalle trova la partenza a destra dello zapèl (apertura) sul punto più alto del bàrek (muretto a secco per contenere il bestiame) a monte delle baite della Sponda, verso sud. Mentre la mulattiera scende a sinistra, il sentiero (poco visibile, perché sporco) scende leggermente restando a destra del muretto, poi con tratto pianeggiante attraversa un corpo franoso, quasi sulla verticale delle baite della Sponda e prende a salire, in una disordinata macchia di noccioli, passando a monte di un secondo corpo franoso. Dopo qualche tornante, raggiunge un canalino scavato sul fianco di un roccione, non elementare da superare. È un po’ una porta, che introduce alla sezione davvero difficile e non priva di pericoli, o, se vogliamo, al territorio del basalèsk. Oltre il canalino, la traccia, molto stretta e sempre esposta, su un versante ripidissimo, volge gradualmente a destra, raggiungendo il cuore di un canalone. Qui conviene fermarsi, osservando squarci panoramici inediti che il bosco, diradandosi in qualche tratto, regala, e rimuginando su un pensiero che si affaccia alla mente: ma il Cardinal Ferrari doveva avere una gran fretta, per risolversi a passare di qui invece che per la comodissima mulattiera di fondovalle, oppure doveva avere una gran voglia di mostrare le sue umili origini e la sua tempra contadina...
Sul lato opposto il sentiero parte dal primo tornante dx della mulattiera che da Pramusìi scende alla Muta (se ne stacca sulla sinistra), e si addentra, con andamento sostanzialmente pianeggiante, sull’aspro versante, fra roccioni, felci, betulle, faggi e pini silvestri. Andando avanti, si raggiunge un bel punto panoramico, al quale conviene, di nuovo, fermarsi, perché poi un roccione con scalinatura esposta, non essendo protetto da corde fisse, rappresenta una difficoltà non elementare. Fermiamoci qui. Tendiamo l’orecchio. Volgiamo gli occhi al cielo. Nessun fischio? Nessun balenare di occhi fiammeggianti?

Niente. Forse perché il basalèsk della Rusanida ama, di tanto in tanto, lasciare questi luoghi e migrare sulla cima del vicino Crap del Mezzodì, il bastione che chiude la Val Fabiolo a nord-ovest; ama, inoltre, spiccare il volo e visitare anche l'opposto versante retico: così, da Talamona più d'uno lo vide traversare dall'uno all'altro dei bastioni che sono un po' le colonne d'Ercole fra bassa e media Valtellina, il Crap del Mezzodì, appunto, ed il Culmine di Dazio, sul versante retico. I testimoni, più d'uno e degni di fede, lo hanno descritto abbastanza concordemente come serpente di color verde, giallo e nero, con una corona che ne traversa il dorso dal capo alla coda. Ma oggi chi leva più lo sguardo al cielo?

 

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Oggi si celebra anche la festa patronale di Grosio, paese di straordinaria tradizione e colore.

Nella pregevole raccolta "Costumi e proverbi valtellinesi" (Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002), di Omero Franceschi e Giuseppina Lombardini, troviamo questa descrizione del costume tradizionale di Grosio:
“Il costume di una donna di Grosio (vecchio stile) è dei più ricchi e vistosi. I colori dominanti sono il rosso vivo e il bianco, i quali si addicono al tipo della donna di Grosio che in generale è aitante e di lineamenti severi e belli: è da ricordare che caratteristica delle donne grosine è l'attenzione speciale per la pulizia della persona e per la proprietà del vestire. I capi principali del vestiario della sposa sono: la saia che è una gonnella di color vinaio, ma può essere anche verde e blu, di seta grossolana, tutta finamente pieghettata nella parte posteriore dalla cintura sino all'estremità in modo da formare uno strato molle ed elastico di circa 3 cm. di spessore; strato che conferisce alla persona una speciale rotondità.
La saia finisce in alto con un busto rinforzato che dà forma alla vita e sostiene il petto senza portare eccessiva pressione: due bretelle sempre nere fanno capo alle spalle rigando vagamente la bianchissima camicia; posteriormente dove termina il busto è il cosidetto fiocco, nastro di seta a vari colori ed a fiorami vistosi aderente al vestito in varie anse e ricco di fiocchetti (o gale) disposte regolarmente in due serie, quasi farfalle variopinte che s'arrampicano verso le spalle. La saia è il capo principale del vestito: difatti la tenuta comune delle grosine presenta i soli due capi: camicia e saia; sul petto sporge dalla saia una pezzuola riccamente imbottita. Un altro capo assai interessante nel costume che descriviamo è il berrettone: si tratta di un gran berretto bianco a doppio fondo, di cotone e fatto a maglia, col reticolato fondamentale sparso di una infinità di pezzi di cordoncino attorcigliato, lunghi circa cinque centimetri, che formano nel loro straordinario numero una specie di folto pelame bianco: il berrettone, che nella parte centrale ha un largo foro, copre abbondantemente la parte posteriore del capo raccogliendo tutta la massa dei capelli e arrivando fino sulle orecchie e sul collo.
La rosetta è un panno rosso scarlatto con risvolti di velluto nero, manichette strette, non foderato: davanti si chiude solo in basso lasciando sporgere in alto ampiamente il petto. Le scarpe sono piccole, scollate, semplici; la suola è bombata cioè a superficie curva. Diconsi scarpe a sciabò.
Le calze sono pure esse di un rosso vivo, sono lunghe e di una maglia fitta fitta sì che dà l'apparenza quasi di un feltro: maglia che dicesi panala.
A completare il costume va aggiunto un fazzoletto di lana di forido rosso a fiorami antichi da mettersi al collo, Si dice in paese che tale costume abbia origine spagnola.
— Curioso e strano è certamente il costume da uomo il quale è ora andato totalmente in disuso, mentre quello della donna si è semplicemente trasformato.
Domina anche nel costume da uomo il color rosso: i capi principali del vestiario sono: un largo pastrano, un cilindro nero ed alto in testa, un gilet rosso e un paio di calzoni di pelle di camoscio: le scarpe pure sono di pelle di camoscio.
Il pastrano è di panno color rosso - vinato come la sala che porta la donna; arriva fino al ginocchio e posteriormente è diviso in due falde che comprendono due ampie tasche; davanti sono pure due tasche tagliate di sbieco, bottoni grandi d'ottone, asole false ornate in giallo, il colletto diritto: tutto il pastrano è filettato in rosso vivo.
Il cappello è un cilindro nero di feltro alto circa venti centimetri e piatto superiormente; la testa è tondeggiante.
Il gilet è di panno rosso scarlatto con bottoni di ottone e con risvolti di velluto nero.
I calzoni di pelle di camoscio, con la parte esterna della pelle rivolta in fuori, arrivano solo al ginocchio dove si chiudono con bottoni grandi lucenti e con una fibbia e cinturino; portano davanti la patta e una saccoccia per parte tagliata ad angolo.
Le calze sono lunghe, di lana greggia e grossa; le scarpe sono basse con talloni bassissimi e senza chiodi.
Il costume della donna di Grosio come è attualmente, se non presenta la vaghezza di quello antico, è però egualmente caratteristico ed interessante: in detto costume domina il colore oscuro: infatti nera è la sottana con busto (rass), nero il cappello, e il corsetto è a tinte piuttosto scure, è da notare però che quando la donna grosina è al lavoro, non porta il corsetto nè il cappello e allora il rass nero ma filettato in rosso e colle sue bretelle fa ottimo contrasto coi bianchi sbuffi della camicia.
Anche in questo costume il capo principale di vestiario è costituito dalla gonnella con busto che ivi questo caso però dicesi rass. Il rass solitamente è di fustagno nero e allora dicesi el fustani; spesso è di seta grossolana o struza e dicesi el struzi, o anche di panno, di mezzaluna o di cotone e canapa.... Ad ogni modo esso porta sempre le caratteristiche pieghettature nella parte posteriore come si disse già per il costume da sposa vecchio stile: la parte superiore forma, come già si disse, il busto; il fiore o fiocco che è l'ornamento posteriore che sta tra il busto e la gonnella è fatto di pieghettature di spighetta di lana rossa intrecciata a mano. Davanti il rass è coperto da un grembiule a grandi fiorami a colore preferibilmente scuro. Il corsetto è di percallo rosso e bleu con maniche a grandi sbuffi sulle spalle sì da dare l'aspetto di due prosciutti; è libero superiormente come i boleri, porta al collo un largo risvolto di velluto nero corrispondente a quelli delle maniche; posteriormente in basso è ornato di un fiocco di seta pure nero. Il cap pello dí feltro nero è una spiccatissima caratteristica della donna grosina: esso è a falda tondeggiante, alto circa dieci centimetri, è piatto superiormente, ornato di un nastro di velluto pure nero e da una piuma di struzzo e un fiocco anch'essi neri. Si aggiungano le calze rosse e le scarpe basse e piccole con fiocco nero, dette scarpe a sciabò, i pendenti d'oro alle orecchie nonchè due bottoni grossi d'argento alla camicia lavorati in filigrana, e stretti con nastro di seta. Al collo la donna grosina porta un fazzoletto di seta a frangie a colori variati scuri.
La pettinatura è a scriminatura mediana con due bandeaux che coprono quasi le orecchie, e le treccie, puntate in alto, sono lasciate pendere a grandi anse e intrecciate con nastri bleu: è una pettinatura assai adatta e confacente al grazioso cappellino tondo.
Il vestito che abbiamo qui descritto è quello delle feste ordinarie e da passeggio; ma è da ricordare che le grosine hanno fino a sei diverse tenute (müde) e precisamente: il vestito da nozze e da festa grande che comprende il fine fazzoletto bianco da capo colle rosette (panett di rusett), il grembiule di giaconet bianco a fiorami e inamidato, nonchè una collana di perle, due bottoni d'argento o oro lavorati in filograna alla antica e il grosso anello d'oro massiccio (vera); il vestito delle feste secondarie; il vestito di tutte le feste che comprende fra l'altro un fazzoletto da capo colorato e il corpetto di cotone; il vestito per andare in Valle (müda de 'ndà den e foeu); il vestito di lavoro ordinario e infine il vestito pei lavori grossolani e sporchi.
Il costume da fanciullo è caratteristico per il capo principale del vestiario che è dato dai cosidetti cölz-a-cösc (forse calze che coprono anche le concie).
Si tratta di due calze di lana bianca che dal piede si allungano sino quasi alle spalle a cui si appoggiano per mezzo di bretelle; esse sono unite solo in alto posteriormente dove s'uniscono tra loro le bretelle, lasciando quindi libera la camicia che di solito pende... E' un modo molto spiccio di coprire il bambino che in complesso tante volte non ha che la camicia e cölz-a-cösc; a completare però il vestito va aggiunta una berretta rossa in forma di semplice calotta e un paio di zoccoli colla suola di legno."

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Ecco, infine, una raccolta di leggende legate alla Val Grosina ed accomunate dal tema dei confini dell'umano.

Prima che l’universale disincantamento riducesse ogni aspetto del mondo, agli occhi dell’uomo, a realtà disponibile, utilizzabile, manipolabile, esisteva, ben viva, la convinzione che vi fossero limiti oltre i quali l’uomo non potesse spingersi, regioni che gli era interdette, luoghi nei quali solo un empio avrebbe osato avventurarsi. Di questi luoghi esiste, ormai, più solo una sbiadita eco nelle leggende, di cui non è sempre chiara la radice ed il motivo ispiratore ultimo, ma che, nel loro significato complessivo, riescono ancora a parlarci.
L’intera dorsale che fascia, ad ovest, le splendide valli della Val Grosina, con un arco che va dal corno di Dosdè alla val Piana, sembra essere uno dei luoghi più densi di questo alone di leggenda e mistero. Lì l’uomo sembra atteso dall’incontro con i propri limiti, con il proprio limite. Oltre i limiti dell’umano sta il disumano, il mostruoso, con i suoi volti molteplici e spesso sorprendenti. Andando un po’ per categorie, potremmo iniziare con quella dello smisurato, dell’essere che ha sì fattezze umane, ma è smisurato nelle dimensioni, nel sapere, nelle capacità di fare il bene ed il male. Due leggende parlano di questi mostri: una si riferisce ad una mitica razza di giganti che abitava nella zona del corno di Dosdè, l’altra ai salvanchi che abitavano la zona del Sassalbo.

Viveva, un tempo, un giovane di stirpe divina, con i fratelli giganti, sulle più alte cime della Val Grosina, gustando, sereno, gli incantevoli scenari che questa valle offre. Ma un giorno, mentre contemplava le acque tranquille del lago Negro, vi scorse, specchiata, l’immagine di una bellissima ragazza, di cui subito si innamorò. Non fece però neppure in tempo a chiamarla, che questa si sottrasse subito al suo sguardo: di lei rimase, nel giovane, solo il vivido ricordo dei capelli azzurri e di due dolcissimi occhi che splendevano di riflessi viola. Non si diede però per vinto: ardendo d’amore, cominciò a percorrere, con i fratelli giganti, le cime della valle, ed oltre, per cercare di ritrovare quel volto che si era impresso nel suo cuore. Alla fine, quando ormai stava per disperare, gli fu recata la notizia che la giovane si chiamava Viola ed era figlia della regina che dimorava sulla più alta cima della zona, la cima Viola, non lontano dalle cime che lui stesso aveva eletto come propria dimora. Non perse tempo, e volò dalla regina, per chiedere la mano della figlia.
La risposta che ne ricevette, però, tu un secco rifiuto: la ragazza, disse infatti la regina, appartiene solo alla montagna, e non può essere di nessun altro, pena la rovina sua e del pretendente. Il giovane, tuttavia, era troppo innamorato per accettarla, e tentò di rapire Viola. Non appena le si avvicinò, la triste profezia della regina si avverò, e Viola sembrò svanire nel nulla. Di lei restarono solo i riflessi viola nella luce della sera, lo splendore del viso nella neve della cima, il sorriso cristallino nel torrente che scende nella valle che da lei prese il nome, la Val Viola. Il giovane, a sua volta, fu letteralmente impietrito per il dolore, e si trasformò nella roccia che sormonta la cima del corno di Dosdè. Unico e muto testimone della tragedia, il lago Negro, che non ospitò più nelle sue acque il volto gentile della fanciulla. Da allora racconta questa storia a tutti coloro che si siedono, per riposare, presso la sua riva, a condizione che vi sia silenzio fuori di loro, ma, soprattutto, dentro di loro.
Ben diversa dai colori romantici di questa leggenda è quella dei salvanchi del Sassalbo. Il Sassalbo (sasa bianca, m. 2841), è il monte che sovrasta, ad est, Poschiavo, ed è facilmente riconoscibile fra tutte le altre cime perché le rocce della sua parte sommitale, di natura calcarea, spiccano per il loro colore bianco, tanto da creare l'illusoria percezione, nella stagione estiva, di un innaturale innevamento. È legato ad un’antichissima leggenda che vuole questi luoghi popolati dai mitici salvanchi, uomini selvatici e giganteschi dalla natura singolare ed inquietante, una variante del mito dell’homo salvadego. Possedevano una prodigiosa abilità, che ne faceva esseri tutt'altro che rozzi e crudeli. Si narra che una volta, in particolare, i salvanchi, scesi dal Sassalbo, piombarono all'improvviso sui pascoli dell'alpe Sassiglione, dove i pastori erano intenti a fare il burro. Questi, ammutoliti e sgomenti, li videro appressarsi al loro latte ed al loro siero, con quel volto così inquietante che richiamava le fattezze dell'orso più che dell'uomo. Ma non volevano far razzia, né compiere opera alcuna di violenza: erano, anzi, allegri, si rivolgevano loro con frasi in una strana lingua, mai udita, ma con tono amichevole e scherzoso. I salvanchi, messa mano agli strumenti dell'arte casearia, portarono a compimento l'opera dei pastori e confezionarono un burro eccellente e squisito, compatto e dall'invitante colore biondiccio. Rivolsero, poi, la loro attenzione al siero, dal quale trassero, con una tecnica mai vista dai pastori, cera purissima, prodotto un tempo assai prezioso. Alla fine, improvvisi com'erano venuti, se ne andarono, cantando allegre canzoni con melodie strane e bizzarre. Quando i pastori si riebbero dalla sorpresa, tentarono, e lo fecero più e più volte, di ripetere le operazioni dei salvanchi, ma non riuscirono mai a confezionare un burro altrettanto squisito e, men che meno, a trarre dal siero la cera.
I salvanchi avevano, però, anche una fama sinistra, perché altri racconti li descrivono come esseri feroci, capaci, in qualche caso, di aggredire contadini e pastori ed anche di mangiarseli. Rappresentano, quindi, una delle manifestazioni più tipiche dell’orrore, il mostruoso che divora l’uomo. Fa riflettere anche un’osservazione toponomastica. Appena a nord della cima dei Rossi (cima di Ross), che segue immediatamente il Sassalbo, procedendo sul crinale verso nord, si trova una bocchetta alta che ha l’eloquente quanto sinistra denominazione di “buchéta di òs del mort”, cioè bocchetta delle ossa del morto, vicina ad una seconda bocchetta chiamata “buchéta de l’ors”. Ora, di quale morto si tratta? Una vittima degli orsi che ormai da un secolo sono scomparsi dai monti di Valtellina? Oppure una vittima dei salvanchi?
Una seconda categoria del mostruoso è l’animale-mostro. Il drago, in particolare, riassume in sé tutte le caratteristiche del grandioso e del terrificante. Ebbene, a poca distanza dal Sassalbo, verso sud-est, nel circo terminale della Val Malgina, nascosto, però, in una splendida conca glaciale che lo sottrae agli occhi di chi non sappia esattamente come scovarlo, sta un laghetto chiamato lago del Drago (lèch dal drèch). Visto dall’alto, mostra un aspetto che giustifica la denominazione. Pare proprio, infatti, un occhio di drago. E l’occhio non è solamente un aspetto del drago, ma ne è l’essenza. Drago, dal greco “dràkon”, è, infatti, l’animale che fissa lo sguardo, che vede con sguardo acuto in lontananza. Per questo molto spesso è l’animale che viene posto a vegliare tesori. Le Alpi sono state sempre considerate dimora prediletta dei draghi: lo attesta anche l’illustre dottore della Chiesa, S. Agostino d’Ippona. Fino a tutto il settecento era vivissima la convinzione che questi abitassero le cime più alte, considerate inaccessibili, ma potessero anche, in questo o quel luogo, infestare passi e valichi. Perfino uno studioso metodico e scrupoloso come il naturalista Johannes Jacob Scheuchzer (Zurigo, 1672-1733), che per primo esplorò le Alpi con l’intenzione di descriverne sistematicamente gli aspetti meteorologici, geologici, mineralogici, botanici e zoologici (scoprì, fra l’altro, una campanula che in suo onore viene chiamata campanula di Scheuchzer) e raccolse i resoconti di nove grandi viaggi di studio nell’opera “Itinera alpina”, riporta, in alcuni capitoli della sua opera, prove dell’esistenza dei draghi. Secondo lui questi animali rappresentano una sorta di variante di dimensioni maggiori dei serpenti, dai quali si differenziano per i seguenti particolari: sono più grandi e dotati, spesso, di barba e baffi, sono rivestiti di una pelle squamosa di colore nero o grigio, emettono un lugubre e tremendo fischio, simile ad un forte sibilo e si nutrono prevalentemente di uccelli che predano, in volo, aspirandoli nelle loro fauci, dall’apertura enorme ed dotate di triplice ordine di denti. Basandosi sulle testimonianze raccolte, giudicate serissime ed attendibili, con il rigore del naturalista classifica 11 diverse specie di drago; fra queste, il drago alato, una sorta di grande serpente che sputa fiamme dalle fauci ed è dotato di ali membranose simili a quelle del pipistrello; il drago dalla lingua bifida, che emette un alito pestilenziale in grado di accecare gli sventurati che vi si imbattono; il drago con corpo di serpente e testa di gatto; i draghi senza ali, di incerta classificazione: forse costituiscono il genere femminile della specie dei draghi. Prima di squadernare il consueto sorriso scettico, dunque, dovremmo andare quantomeno un po’ cauti.

Ma se quello che abbiamo davanti a noi è l’occhio del drago, dov’è il drago vero e proprio? Che fine a fatto? Impossibile dirlo. Forse si trattava di un drago parente stretto del famoso drago di cui parla una leggenda, il drago della vicina Val Piana, diciamo un paio di chilometri o poco più in linea d’aria dal laghetto, a sud-est. Forse addirittura si tratta dello stesso drago che, cacciato dalla Val Piana, venne a morire qui. Ma ecco la leggenda. Un tempo l’alpe Piana era ricca di armenti e pastori. La sua condizione florida e felice venne, però, compromessa dall’apparizione, improvvisa e terribile, di un dragone mostruoso, come non se n’era mai visto uno fra le montagne della Valtellina: aveva tre teste, dalle quali sputava fiamme. Venne, non si sa da dove, ed i pastori fuggirono tutti, terrorizzati, lasciando che facesse a pezzi le mandrie. L’alpe divenne, quindi, un luogo deserto, nel quale nessuno osava più avventurarsi. Tennero consiglio, dunque, gli abitanti di Grosio e Grosotto, vincendo la fiera rivalità che li divideva, ma non riuscirono ad accordarsi. Poi, finalmente, si raccolsero, a fatica, le risorse per pagare un esercito da scagliare contro il drago, ma fra la schiera di armati, durante la marcia, non si sa bene come e perché, scoppiarono liti e risse, ed i valorosi guerrieri si dispersero, portandosi via il compenso già intascato. Venne, quindi, anche lui da un luogo ignoto, un giovane biondo, bello, forte e coraggioso, che, conosciuto il flagello dell’alpe Piana, si offrì di sconfiggere il mostro. Anche a lui Grosini e Grosottini versarono oro e gioielli, convinti che quel cavaliere così fiero e nobile d’aspetto avrebbe portato a compimento l’impresa. Invece sparì pure lui, e con lui oro e gioielli.
La gente cominciò a sospettare della faccenda e decise di non pagare più alcun cialtrone, ma di ingrassare un toro possente, per scagliarlo poi contro il drago. Così fecero, ed il toro, che aveva raggiunto una mole enorme, venne portato all’imbocco della valle, perché sconfiggesse quell’essere mostruoso. Ma, invece di scagliarsi contro di lui, il toro gli si rivolse con queste parole: “Io sono una bestia come te, e mi mandano a morire: non uccidere me, ma prenditela con quelli che si sono arricchiti approfittando della tua presenza”. Non si sa come, né perché, ma la storia finì così: il toro tornò indietro illeso, il drago sparì, così come era venuto, all’improvviso e senza lasciar tracce, e di lui rimase solo il ricordo che venne tramandano dai pastori che ripopolarono l’alpe.
La terza categoria del mostruoso è il luogo desolato, remoto, privo di punti di riferimento, che disorienta l’uomo e lo consegna al più radicale spaesamento. Ed anche in questo caso ve n’è uno proprio qui, si tratta della cima chiamata Sasso dell’Uomo, o Ometto (om, m. 2789), elevazione  secondaria compresa fra il passo di Pedruna (buchéta di costi del fèr), a sud, ed il possente pizzo sassiglione (piz de sasilón), a nord. La spiegazione del nome è legata ad una leggenda che rimanda proprio al tema principale che sembra riassumere le molteplici manifestazioni dell’immaginario in questo comprensorio, il tema della consapevolezza dei propri limiti e dei pericoli connessi con il suo smarrimento.
Ebbene, viveva un tempo a Grosio un uomo che tale consapevolezza aveva interamente smarrito. Il suo nome era Michelozzo, signore di Grosio, uomo di rara presuntuoso. Credeva di essere invincibile, di sapersi trarre da ogni impaccio, e se ne stava così, pieno di sé, nel suo castello. Una sera dimenticò di dire le preghiere, ed il diavolo piombò nella sua camera, nella torre del castello, portandoselo via, in un vorticoso viaggio aereo nelle tenebre profonde. Poi venne il momento di lasciarlo, perché la notte volgeva al termine. ma prima di farlo, il diavolo gli rivolse queste parole beffarde: "Prova, ora, tu che credi di poter tutto, a tornare al tuo castello. Provaci, ometto!"

Michelozzo, senza sapere come, si ritrovò in cima ad un monte che precipita a picco sulla Val di Poschiavo. Non sapeva dove fosse, né come tornare alla propria dimora. Capì, allora, quanto fosse debole, e bisognoso d'aiuto. Così, con umiltà, pregò i Santi che lo aiutassero. Venne S. Michele, e Michelozzo cadde ai suoi piedi, ringraziandolo. Il santo lo riportò a volo al suo castello. Aveva capito la lezione: l'uomo che confida solo nelle sue forze è uno sciocco. Da allora divenne saggio ed umile, mentre la cima che gli aveva fatto vivere l’esperienza del più profondo disorientamento venne chiamata “Ometto”, quasi a ricordare che ogni uomo, in fondo, è ometto.
Terminata questa carrellata di luoghi dove l’uomo è atteso dai suoi limiti, scendiamo più in basso, nella dimensione di cui l’uomo si sente pienamente signore, all’alpeggio di Malghera, che è un po’ il baricentro di questo comprensorio. Anche qui, però, esistono situazioni nelle quali l’uomo trema, avvertendo tutta la sua fragilità. Lo scatenarsi degli elementi, con quella furia cieca che può travolgere tutto.
Proprio a metà del Settecento sperimentò questa terribile esperienza un mite pastorello di Malghera, sopreso da una violenta burrasca estiva in aperto alpeggio. Si riparò alla bell’e meglio presso una roccia, ma tremava come una foglia, per il freddo e per la paura suscitata in lui dal rimbombo squassante dei tuoni, dal sibilare furioso del vento, dall’ingrossarsi di rivi sempre più minacciosi e scuri. Proprio quando sembrava lì lì per morire di paura, ecco una luce, non luce di lampo, ma luce che avvolgeva una figura soave: su un cuscino di muschio, in cima alla roccia, gli apparve la Madonna, che lo rassicurò e stese la sua mano protettiva su di lui. Si placarono gli elementi, cessò ogni timore. Quando il pastorello corse a Malghera per raccontare l’accaduto, nessuno dubitò di lui, perché se ne conosceva l’animo sincero e candido. Si gridò al miracolo, che da allora è noto come miracolo della Madonna del Muschio o della Misericordia. Per celebrarne il ricordo fu edificata dapprima, nel 1836, una cappella, addossata alla roccia dell’apparizione, poi, nel 1888 una chiesa, cui fu aggiunto nel 1910 uno splendido campanile e che venne eretta nel 1940, dal vescovo di Como mons. Macchi, a santuario.
Infine, consegnamoci interamente all’umano, con una leggenda che ha i colori di una delle più tipiche vicende umane. Ne è protagonista Beppe, un giovanotto con la testa a posto, fidanzato con una ragazza di specchiata onestà e di nome Giulia. Sua madre lo aveva cresciuto con sani principi, e, finché era rimasta in vita, gli aveva raccomandato di pregare con devozione la Madonna, recitando il rosario, soprattutto nella festa della Madonna del Mischio, che si celebrava la prima domenica di agosto. E proprio agli inizi del mese di agosto accaddero gli eventi narrati dalla leggenda. Beppe, conducendo al pascolo le sue capre, durante un assolato pomeriggio, vide splendere qualcosa in alto, sulla cime di un crap. Fu preso dalla curiosità: forse era una pietra preziosa, forse era dell’oro. Con qualche passo di arrampicata si avvicinò alla sommità del crap. Non vide né pietre, né gioielli, ma una splendida ragazza, che gli sorrideva amabilmente.
Rimase stupito, quasi impaurito, ridiscese al limite dei pascoli, guardò ancora in alto: più niente. Per il restò della giornata rimuginò sull’accaduto. Del resto nelle lunghe giornate d’estate la noia regna sovrana nell’alpeggio, ed uno ha tutto il tempo che vuole per pensare, anche troppo. Nel suo cuore alla paura subentrò, pian piano, un sentimento strano. Certo che la ragazza era bellissima. E cosa voleva dire quello sguardo? Non sarebbe stato meglio rimanere? Che so, per fare due parole. Almeno per chiedere il suo nome. Anche solo per buona educazione: non sta bene andarsene via, così. Ma no, forse era meglio lasciar stare. Cosa avrebbe pensato Giulia di un’amena conversazione con quella sconosciuta? Combattuto fra questi pensieri, passò l’intera notte. Venne la mattina, la mattina del sabato che precedeva la festa della Madonna del Muschio. Beppe si alzò ancor prima del solito. Alla fine le sue gambe decisero per lui. Sul far del giorno fu ai piedi del crap. Ma della ragazza, neppure l’ombra. Salì, il sole, nel cielo, scaldò l’alpeggio per tutta la lunga mattinata, e venne mezzogiorno, e venne pomeriggio: Beppe se ne stava ancora lì, tenace, come il calone che ti attanaglia nelle interminabili giornate estive. Ed alla fine la sua tenacia fu premiata.
Nell’ora più calda del giorno, ecco di nuovo il bagliore. Beppe salì, rapido, fra le roccette, e di nuovo fu in cima al crap. Di nuovo vide la ragazza, che gli parve ancora più bella. Non riusciva a respirare per l’emozione. Avrebbe voluto dire mille cose, ma dalla bocca non uscì alcuna parola. Fu lei, invece, a parlare, con una voce dolcissima, scadenza, quale non aveva mai sentito prima. “Seguimi”, gli disse, e prese a salire, sul crinale del monte. Beppe non se lo fece dire due volte. Del resto, da buon pastore, era abituato al terreno impervio dei crinali: quante volte aveva dovuto affrontare passi rischiosi per recuperare le capre “incrapelate”, cioè intrappolate fra le rocce. Ma nella sua testa le capre, in quel momento, non c’erano proprio. C’era solo una gran confusione, una grande emozione.
Così, quando alzò gli occhi, e passò un po’ di tempo prima che osasse farlo, per incrociare ancora quello sguardo dolcissimo, fu come una doccia fredda quel che vide: la ragazza non aveva piedi, ma zampe di capra. Si bloccò di colpo, capì, rabbrividì: non si trattava di un’angelica fanciulla, ma di una maga, una maliarda, una strega. Esseri di quel genere, quante volte glie l’avevano raccontato, si nascondono dietro le fattezze più leggiadre. Le gambe gli tremavano tanto da rendergli impossibile la discesa. Era terrorizzato: se la maga si fosse accorda che l’aveva scoperta, avrebbe sicuramente deposto l’apparenza fallace, avrebbe mostrato il suo volto repellente, chissà quale stregoneria gli avrebbe scagliato contro. Non sapendo che fare, implorò, in lacrime, la madre, perché, dall’aldilà, lo proteggesse.

Come nel più bizzarro dei sogni, ecco che, d'improvviso, dal crinale del monte si ritrovò nella sua camera, steso sul letto. Era il tramonto. La madre stava, con il suo sguardo severo e dolce insieme, accanto al suo letto. La vide, udì le sue parole: “Recita il rosario, Beppe, recita il rosario, il rosario per la Madonna della Misericordia”. Non vide altro, non udì altre parole. Prese la corona fra le mani e cominciò a recitare le avemarie, arrossendo per la vergogna: come aveva potuto essere così stolto? Come aveva potuto mancare di rispetto alla sua Giulia? Il sonno lo sorprese con le dita serrate attorno ai grani della corona.
Venne, infine, anche la domenica. Con la domenica, venne una gran folla da Grosio, per la festa della Madonna della Val di Sacco. E venne anche Giulia, che gli sorrise, di lontano. La vide, ed a quel sorriso il dolore per il rimorso parve scomparire. La prese sotto braccio ed insieme si recarono alla messa. Questa è la storia di Beppe, della sua Giulia e della misteriosa maga del Crap che, dicono, non abbia cessato di comparire negli assolati pomeriggi estivi per irretire qualche altro pastore, confidando nella stoltezza e nella noia, che, da sempre, arrecano i più grandi danni agli uomini.  

STORIA
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AMBIENTE

Da Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore):


 

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I PROVERBI SONO IN GRAN PARTE TRATTI DAI SEGUENTI TESTI:

Gaggi, Silvio, "Il volgar eloquio - dialetto malenco", Tipografia Bettini, Sondrio, 2011
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996)
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003
Pier Antonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pier Antonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pier Antonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Pier Antonio Castellani, "Detti e citazioni della Valdidentro", I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Luigi Godenzi e don Reto Crameri, "Proverbi, modi di dire, filastrocche raccolti a Poschiavo, in particolare nelle sue frazioni", con la collaborazione di alcune classi delle Scuole di Avviamento Pratico, Tip. Menghini, Poschiavo (CH), 1987
Lina Lombardini Rini, "Favole e racconti in dialetto di Valtellina", Edizioni Sandron, Palermo-Roma, 1926
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)


Utilissima anche la consultazione di Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001

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PRINCIPALI TESTI CONSULTATI:

Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
Tullio Urangia Tazzoli, "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, Anonima Bolis Bergamo, 1935;
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996);
Giuseppina Lombardini, “Leggende e tradizioni valtellinesi”, Sondrio, ed. Mevio Washington, 1925;
Lina Rini Lombardini, “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950;
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice;
Glicerio Longa, "Vocabolario Bormino”, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913;
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000);
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – Fidanzamento e matrimonio” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2004);
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don Domenico Songini, “Storia e... storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001;
Scuola primaria di Sirta: calendari 1986 e 1991 (a cura dell'insegnante Liberale Libera);
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Cirillo Ruffoni, "Chi va e chi resta - Romanzo storico ambientato in bassa Valtellina nel secolo XV", Tipografia Bettini, Sondrio, 2000;
Cirillo Ruffoni, "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento", Tipografia Bettini, Sondrio, 1998;
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Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
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Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
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Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
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Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890

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