S. Liberato martire
PROVERBI
Quànt la lüna la ghà inturen la curuna, la nìif la se immuntùna
(quando la luna ha intorno la corona, la neve si accumula - Selve)
La legna painéda da gión la sckalda da végl (la legna raccolta da giovani scalda da vecchi – Livigno)
Per fa andà avànti el carr s'à da untà i röda
(per far avanzare il carro bisogna ungere le ruote – Montagna in Valtellina)
Quant che se 'n po ciü al crépa l'àsen e quel ch'al ghè sü
(quando non se ne può più muore l’asino e tutto il suo carico – Montagna in Valtellina)
Cun al cantà sa ‘ngàna àa la miséria (cantando si dimentica la miseria - Tirano)
Cun al témp gh’è nigügn cumandamént (con il tempo non c'è alcun comandamento - Tirano)
Cun i büsìi e l’ingàn sa va mìga tant luntàn (con le buglie e l'inganno non si va tanto lontano - Tirano)
Mèi an gran da pévar che na züca (meglio un grano di pepe che una zucca)
Tütc en pront e far di bii proget, ma l'imbroi l'è ei metar in efet
(tutti sono pronti a fare bei progetti, ma la difficoltà è metterli in atto - Val Bregaglia)
Sta a lec’ e miga durmì, mangià e miga digerì, legia e miga capì l'e tre robi da murì
(stare a letto e non dormire, mangiare e non digerire, leggere e non capire son tre cose da morire - Poschiavo)
Le lunge sere d'inverno passate a "fa filò", o "filugna", i "filogna" (cioè a filare il lino) in qualche stalla raccoglievano diverse famiglie. Si recitava il rosario, si scambiavano quattro chiacchiere. Si raccontavano storie, preferibilmente da brivido. Fra queste meritano un posto particolare quelle legate alle cacce diaboliche, o maledette.
La
figura del cacciatore ha, nella cultura popolare, una valenza in genere
positiva, anche perché a lui è riservata la difesa delle
comunità contadine da nemici un tempo temibili, quali lupi ed
orsi. In alcune leggende, però, si impone il tema della caccia
maledetta, o caccia demoniaca, condotta da un cacciatore misterioso,
che non si sa da dove venga né dove vada, e soprattutto non si
sa chi sia e cosa cacci. Un cacciatore che, sicuramente, nessuno vorrebbe
trovare sulla propria strada.
Scrive
Remo Bracchi, insigne linguista e studioso di tradizioni e cultura popolare: "Si spigola diffusa in tutta Europa la credenza nella caccia selvaggia, secondo la quale si riteneva che in determinati luoghi passasse di notte un corteo diabolico, detto càscia salvàdiga o càascia disperàda, composta da cavalieri vestiti di nero, cani neri dagli occhi di fuoco, gatti, lupi, maiali, buoi, accompagnati da ogni sorta di rumori (latrati di cani, versacci di animali, musiche strane, campanelli grandi e piccoli, grida disperate, lamenti, schiocchi di frusta)... Si tratterebbe di folle di spiriti, anche di defunti che devono purgarsi dalle loro colpe."
Così in valle di Scais (o val Caronno) una leggenda su questo
tema assume decisamente la coloritura dell’horror. Si tratta di
una leggenda riportata in una ricerca della scuola elementare di Piateda (“Leggende delle nostre valli”, 1976). Alla valle si accede
imboccando, da Piateda, la strada per i maggenghi e staccandosene, dopo
Previsdomini e Monno, ad un tornante sinistrorso, sulla destra, non
appena si trovano le segnalazioni per il rifugio Mambretti. Si raggiunge
così dapprima Vedello e poi, prendendo a sinistra, Agneda; attraversata,
quindi, la bella piana alle sue spalle si prosegue a piedi sulla carrozzabile
che conduce alla casa dei guardiani del grande sbarramento della diga
di Scais (m. 1494). Prima che venisse costruita la diga, la piana di
Scais ospitava baite e pascoli, scenario della caccia maledetta di cui
parla la leggenda.
Qui, una tranquilla notte d’agosto, un pastore udì rumori
insoliti, che lo destarono dal sonno. Tese l’orecchio e distinse
dei passi. Qualcuno stava scendendo lungo la mulattiera che dalla piana
dell’alpe di Caronno conduce a Scais. Si alzò allora dal
giaciglio e si affacciò all’uscio della sua baita, per
vedere chi mai fosse in cammino a quell’ora della notte: forse
qualcuno che si era perso, forse un forestiero. Era una bella notte
di luna piena, ed il pastore non faticò a distinguere in quel
misterioso viandante notturno la figura di un cacciatore. Per quanto
si sforzasse, però, non riusciva a distinguerne il volto, che
sembrava nascosto dal bavero rialzato. Riusciva a vedere, invece, che
il cacciatore stringeva qualcosa, che sicuramente doveva essere il frutto
di quella singola caccia notturna. Una preda anche piuttosto ingombrante,
per quel poco che si poteva scorgere. La caccia doveva essere stata
molto buona. Il nostro pastore non era un tipo facilmente suggestionabile,
ma curioso sì, questo lo era, parecchio.
Per
questo, senza timore alcuno, non esitò a rivolgersi all’ignoto
cacciatore, buttando là una battuta che voleva essere un pretesto
per attaccar bottone: “O casciadù de la bona cascia, portemen
anca a mi de la vosa cascia”, cioè “O cacciatore
della buona caccia, portate anche a me qualcosa della vostra caccia”.
Non ebbe alcuna risposta: il cacciatore passò ad una certa distanza
da lui e proseguì oltre, con passo deciso, finché il buio
della notte lo inghiottì. Il pastore rimase ancora qualche istante
sull’uscio, finché anche l’ultimo flebile rumore
dei passi si spense, poi, scrollando le spalle e lamentandosi fra sé
dell’insocievolezza di certi uomini (“i è tucc malmustùs
encóo”, bofonchiò, cioè “sono tutti
scostanti, al giorno d’oggi”), se ne tornò a dormire.
Non tardò a riprendere sonno, finché venne l’alba.
Era solito, come tutti i pastori, alzarsi di buon’ora, e così
fece anche quella mattina. Lì per lì, al primo risveglio,
non ricordò neppure il singolare incontro notturno. Si alzò
e si accinse alle svelte occupazioni di sempre. Fu allora che il suo
occhio cadde alla catena che pendeva dal camino: uno spettacolo orripilante,
un cadavere, anzi, mezzo cadavere, la
metà inferiore di un cadavere tagliato in due. E, tutt’intorno,
tracce di sangue, il sangue dell’uomo ucciso. Il sangue del pastore,
invece, gli si ghiacciò nelle vene. Rimase per qualche istante
paralizzato per lo shock e per il disgusto, poi corse fuori dalla sua
baita e si diresse, sempre di corsa, giù, ad Agneda, a quei tempi
villaggio importante, con diverse decine di famiglie. Un fatto di quel
genere non poteva essere frutto degli uomini, ci doveva essere qualcosa
di diabolico, e se c’era, l’unico che avrebbe potuto dirgli
come comportarsi era il parroco.
Lo raggiunse mentre, nella chiesetta di S. Agostino, era intento a recitare
il mattutino. Il curato ascoltò il racconto concitato del pastore,
rivolse al Signore una breve implorazione di misericordia (così
si usava, a quei tempi, quando si aveva notizia di qualche fatto sconvolgente)
e, dopo una breve meditazione, diede questo consiglio: “Lascia
il cadavere là dove lo hai trovato ed anticipa il taglio del
fieno d’agosto, tagliane un po’ ed aspetta: se vedrai tornare,
la prossima notte, il diavolo, perché è il diavolo che
si cela dietro il misterioso cacciatore, digli di riprendersi la sua
caccia. Ma, bada bene, dovrai startene nascosto sotto il fieno fresco
di taglio, perché il primo fieno tagliato è sempre benedetto. Lì
sarai al sicuro ed il cacciatore ti lascerà in pace”.
Il pastore se ne tornò a casa e fece come gli era stato detto.
Tagliò una parte dei suoi prati, fece un mucchio del fieno tagliato
e, calata la notte, vi si nascose, attendendo che passasse di nuovo
il cacciatore maledetto. Nel cuore della notte, ecco di nuovo risuonare
quei passi decisi e sinistri, ecco di nuovo la figura nera del cacciatore
profilarsi sul fondo del sentiero e venire avanti speditamente. Il pastore,
con il cuore in gola, si appellò a tutto il coraggio che gli
rimaneva e gridò al suo indirizzo: “O casciadù de
la bona cascia, vignìn pür a tosla la vosa cascia”,
cioè “O cacciatore della buona caccia, venite pure a riprendervela
la vostra caccia”. Poi si acquattò, più che potè,
dentro il fieno umido. Non osò guardare quel che accadde. Attese,
lì, l’alba. Solo a giorno fatto uscì per vedere
quel che era successo. Si precipitò all’interno della baita,
e non trovò più alcuna traccia del cavadere dimezzato.
Giurò che da quel giorno si sarebbe fatto i fatti suoi, e non
volle neanche più pensare chi potesse essere la disgraziata vittima
del cacciatore infernale. Nessuno lo seppe mai.
Rimaniamo
sul versante orobico, spostandoci, però, più ad occidente,
in Val di Tartano. Anche qui si trova una leggenda legata ad una caccia
infernale. In questo caso, però, il cacciatore è rappresentato
a cavallo, come accadeva nelle antiche cacce nobiliari. La caccia, nei
tempi antichi, era, infatti, lo sport più amato dalla nobiltà,
anche perché funzionava come esercizio alla pratica delle armi.
Un’antica leggenda parla, quindi, di un guerriero nero, che balza
fuori, improvviso e terribile, dalle forre più profonde della
valle, laddove il Tartano si è scavato una dimora nascosta agli
occhi degli uomini. Anche il suo cavallo è nero, un cavallo dagli
occhi di fuoco. Segue cavallo e cavaliere una muta di cani neri, anch’essi
dagli occhi di fuoco. La leggenda dice che chi si trova ad essere sorpreso
dalla caccia infernale deve mettersi prontamente in salvo, cercando
rifugio nella macchia, dietro qualche masso, in qualche anfratto, per
evitare di essere sbranato dai cani famelici o trascinato via dal cavaliere,
che altri non è se non un figlio dell’Inferno in cerca
di anime da trascinare giù nel baratro.
A
proposito di cani: può essere interessante osservare come questo
animale, definito il miglior amico dell’uomo, assuma, qualche
volta, nelle leggende una connotazione sinistra, diabolica. È
il tema del cane nero, nel quale si immagina incarnata un’anima
dannata o uno spirito malvagio, e che tende agguati agli incauti ed
ai malcapitati. In bassa Valtellina, per esempio, si parla di un misterioso
cane nero che, di notte, inseguiva i carrettieri che si trovassero a
percorrere la strada che da Morbegno conduce a Colico. Di un cane nero
che percorreva, latrando, i sentieri sul far della sera si parla anche
in una leggenda di Pendolasco (l’attuale Poggiridenti): si trattava
di spiriti malvagi che tendono insidie agli uomini.
Ma torniamo al tema della caccia maledetta, per segnalare un’ultima
leggenda, raccolta in Valdidentro, che parla di una caccia selvaggia.
Ne sono protagoniste, questa volta, le anime infelici che sono condannate
ad espiare i propri peccati, prima del perdono divino, cavalcando bianchi
cavalli durante le tempeste più violente che si scatenano, soprattutto
nel periodo estivo. Fra il sibilo del vento, lo scoscio della pioggia
torrenziale e lo scoppio fragoroso dei tuoni si possono udire, assicurano
i pastori, i
nitriti dei cavalli selvaggi e le urla degli spiriti senza pace, lanciati
in una caccia furiosa che avrà termine solo
quando Dio vorrà.
STORIA
Mercoledì 20 dicembre del 1673 il Marendìn viene giustiziato nella Magnifica Terra della Contea di Bormio. La tragedia della caccia alle streghe, vera e propria piaga dell'Europa e della Valtellina dalla metà circa del 1200 alla metà del 1700 (cinque secoli buoni) toccò in larga maggioranza, appunto, sventurate donne, ma in qualche caso non risparmiò gli uomini, gli stregoni.
Su questa disparità nei numeri leggiamo, nell’operetta “Le streghe in Valtellina”, di Vittorio Spinetti (Sondrio, 1903):
“…il Malleus maleficarum riporta ancora che vi sono più donne streghe che uomini, perché: — Tre sono le cose che nella natura non possono tenere il posto di mezzo nella bontà, e nella malizia: la lingua, l'ecclesiastico e la femmina. — Perché — l'avarizia è il fondamento di tutti i vizi delle donne. — Perché — altro non è la donna se non la nemica dell' amicizia, una pena che non si può sfuggire (inevitabile), un domestico pericolo, un danno che si desidera, un male della natura dipinto con bel colore. — Perché — la donna fu formata dalla costa curva, cioè dalla costa del petto, che è torta, e quasi contraria (voltata contro all' uomo). Dal qual difetto anche ne viene che essendo un animale imperfetto sempre inganna.” Ricordiamo che il “Malleus maleficarum”, trattato composto da due frati domenicani tedeschi, fu, nell’età moderna, il testo di riferimento usato dagli inquisitori nella caccia alle streghe.
Come nel caso delle streghe, anche in quello degli stregoni le numerose leggende si affiancano ai dati storici.
In bassa valle è abbastanza nota la storia dell’”om
cui pè de caval”, l’uomo con i piedi da cavallo,
raccontata da Renzo Passerini nel numero di febbraio 1995 de 'L Gazetin.
L’ambientazione è rappresentata dai boschi del Culmine
di Dazio, o Colmen, la caratteristica formazione montuosa che interrompe
l’andamento regolare della media Valtellina da Castione ad Ardenno,
imponendo alla valle una doppia curva ad “s” fra Ardenno
e Talamona e segnando il confine fra media e bassa Valtellina. Viveva
qui, in un tempo di cui appena si conserva la memoria, un uomo che aveva
avuto in sorte, al posto dei piedi, un paio di grossi zoccoli in tutto
e per tutto identici a quelli dei cavalli. Con estremità di quel
genere, non c’era calzatura che potesse indossare, per cui era
costretto ad andarsene in giro mostrando quei rumorosi e comici zoccoli.
In breve era diventato lo zimbello di tutti, e ciò l’aveva
indotto a nascondersi nei boschi, a fuggire la gente.
La
solitudine l’aveva inselvatichito ed incattivito. Si era fatto
anche brutto a vedersi, ricoperto di un pelo ispido e di una barba incolta.
Alla fine, per tutti fu semplicemente lo stregone. Uno stregone cattivo,
che lanciava occhiatacce sinistre a chiunque si imbattesse sul suo cammino,
e che si aggirava, senza fissa dimora, non solo nei boschi della Colmen,
ma anche in quelli sopra Dazio
e nella valle di Spluga, la bellissima e selvaggia valle che si apre
sopra Cevo, all’ingresso della Val Masino. Aveva preso di mira
soprattutto le donne, probabilmente per il risentimento che nutriva
nei loro confronti, lui che, a causa dell’aspetto, non ne aveva
mai trovata una che l’avesse degnato di uno sguardo. Si appostava,
quindi, per cercare di sorprenderne qualcuna sola, e la spaventava con
parole e scherzi volgari, scurrili. Ben presto divenne il terrore del
gentil sesso in tutta la zona.
D’estate, in particolare, imperversava negli alpeggi della Valle
di Spluga, all’alpe Cavislone, all’alpe Desenigo ed
a quella di Spluga, prendendo di mira ragazze e donne che, da Biolo,
Piazzalunga e Cevo vi si recavano, soprattutto alla fine della stagione,
quando dovevano andare in cerca delle capre, per recuperarle. Non se
ne poteva più.
Per porre fine a questo tormento, alcune donne decisero di recarsi da
un santo eremita, che da molti anni viveva di rinunce e preghiere al
“Purscelìn”, la località Porcellino, posta e mezza
costa sul fianco meridionale della Colmen. Lo
trovarono intento alla preghiera, e non osarono rivolgergli la parola
prima che l’avesse terminata. Esposero, quindi, il motivo della
loro angoscia. Il santo eremita stette qualche istante come immerso
in una profonda meditazione, poi disse: “L’uomo con il quale
avete a che fare non è un uomo comune, ma si è votato
al male e la sua anima è del Maligno. Non potrete liberarvi di
lui se non con la forza della fede, e per farlo dovrete recitare un
rosario quando passerete nei luoghi dove può sorprendervi. E
se lo vedrete, gli mostrerete la corona ed il crocifisso che porterete
sempre con voi. In questo modo non potrà farvi alcun male”.
Così fecero. Armate di corona e crocifisso, salirono agli alpeggi,
attendendo lo stregone con i piedi di cavallo. Quando costui balzò
fuori per oltraggiare una di loro, che, recitando Ave Marie, saliva
su una balza alla ricerca delle sue capre, costei gli mostrò
corona e crocifisso, che teneva nell’una e nell’altra mano.
L’effetto fu immediato: come folgorato, lo stregone fu scosso
da un tremito, indietreggiò, bestemmiò, fuggì nel
cuore dei boschi, che parvero inghiottirlo. Da allora, infatti, non
fu più visto.
In
segno di ringraziamento fu allora edificata, nei pressi del Ponte del
Baffo, in Val Masino, ad un tornante della strada che sale da questa
località a Cevo, una cappelletta. Il timore dello stregone si
conservò per molto tempo, e, con esso, la consuetudine, ancora
viva fra le donne fino a non molto tempo fa, di recitare il rosario
alla cappelletta e di salire agli alpeggi della Valle di Spluga con
il rosario a portata di mano.
Se misera fu la fine dello stregone della Colmen, ben diversa fu la
vicenda del mago di Carona (di cui si legge nell'articolo "La leggenda del mago di Carona", di anonimo, pubblicato su "Pro Valtellina" nell'ottobre 1910, ed in "Leggende e tradizioni valtellinesi", di Giuseppina Lombardini, Sondrio, Mevio Washington, 1925, pg. 10). Costui era un uomo dall’aspetto assai
distinto, che da Carona, piccolo centro di mezza montagna sul limite
orientale della catena orobica, scese, un giorno, al piano, incamminandosi
verso Chiuro. Giunse in paese, accompagnato dagli sguardi dei molti
curiosi che si domandavano chi fosse mai quell’individuo che non
si era mai visto da quelle parti.
Chiese, allora, alle persone che incontrava dove potesse trovare un
alloggio per riposare quella notte. Nessuno, però, forse per
diffidenza, forse per timore, forse per indifferenza, gli rispose. Bussò,
poi, a diverse porte, ma anche questa volta senza esito. Alcuni finsero
di non sentire, altri opposero un iniquo rifiuto: così racconta
la leggenda, riportata nella raccolta “Storie e leggende dei nostri
paesi” del 1976, curata da Armida Bombardieri e dagli alunni della
classe IV Elementare di Chiuro. Il rifiuto era iniquo, perché
non si nega ospitalità ad un forestiero.
Il distinto signore lasciò, allora, Chiuro, e salì a Ponte.
Già calavano le ombre della sera, ed era molto stanco. Per sua
fortuna, qui trovò ben diversa accoglienza: alla prima richiesta,
gli fu offerto un confortevole alloggio, nel quale potè ristorarsi
e riposare. Passò la notte, ma non il suo risentimento nei confronti
degli abitanti di Chiuro, che si erano mostrati così poco ospitali.
Meditò, dunque, la sua vendetta e, siccome non era un uomo comune,
pensò ad una vendetta del tutto fuori del comune, una vendetta
terribile. Da Ponte proseguì verso l’imbocco della Val
Fontana. Giunto sul greto del torrente, cominciò ad accumulare
massi, che poneva nel suo mezzo, come per costruire una diga. Poi tracciò
strani segni nell’aria, pronunciò formule incomprensibili.
Era un mago. Se ne andò, la sua vendetta era pronta.
Il giorno dopo, infatti, il cielo si rabbuiò quasi d’improvviso,
cominciarono a cadere i primi goccioloni, poi la pioggia si fece fitta,
violenta, torrenziale. Il
torrente Valfontana si ingrossò in un batter d’occhio,
le sue acque, con straordinaria forza, investirono la gran catasta di
massi, trascinandoli via, giù, verso il paese di Chiuro. La massa
dirompente di massi e fango investì la fiorente contrada di Gera,
spazzandola via. La vendetta, tremenda, si era consumata. Il mago sparì,
così come era sparita la contrada di Gera. Rimase la terribile
lezione, per gli abitanti di Chiuro: chiudere le porte in faccia a chi
chiede ospitalità è colpa che si può pagare assai
cara.
La leggenda ha uno sfondo storico: l’antichissima e fiorente contrada
di Gera effettivamente scomparve, anche se non per un singolo evento
alluvionale, bensì per ripetute alluvioni, unite alle devastazioni
operate dalle truppe di passaggio nella media Valtellina.
Spostiamoci, ora, un po’ più ad ovest, al luminoso versante
retico posto immediatamente a ponente di Sondrio. Vi troviamo il paese
di Castione, cui la felice posizione climatica conferisce un aspetto
particolarmente luminoso e ridente. A monte del paese, però,
sul fianco meridionale del monte
Rolla, sta un’ampia fascia di fitti boschi, inframmezzati
da alcuni alpeggi.
È, questo, il regno dell’ombra, il regno dell’uomo
verde, di cui si racconta nella raccolta "C'era una volta",
edita a cura del comune di Prata Camportaccio nel 1994.
L’espressione, di per sé, non appare granché inquietante,
ma la realtà di questo essere mostruoso, a quanto raccontano,
era veramente tale da incutere terrore. Chi l’aveva visto ed era
sfuggito alla sua ferocia (davvero pochi, in verità), stentava
a descriverlo, tanto era brutto, orribile. Sembrava
una metamorfosi fra l’uomo e l’animale, metamorfosi però,
a differenza di quella celeberrima di cui racconta Kafka, interrotta
a metà. Era enorme, e di color verde, come se avesse una pelle
di rospo. Ma conservava le fattezze umane, un volto cattivo, un ghigno
crudele, uno sguardo di fuoco. Fin qui i testimoni concordavano: poi
ciascuno ci aggiungeva qualcosa di suo, e non li si poteva biasimare,
visto lo spavento corso.
Per qualcuno era il diavolo in persona, per altri, invece, uno stregone
che era rimasto vittima dei suoi stessi incantesimi ed ora vagava nei
boschi intrappolato in quelle sembianze da mostro. Una cosa era certa:
se qualcuno, uomo o donna, vecchio o bambino che fosse, si addentrava
nei boschi per cercar legna e non faceva più ritorno, era finito
nelle sue fauci. L’uomo verde, infatti, mangiava ogni essere umano
che incontrava sul suo cammino.
Particolare pietà e commozione suscitò, una volta, la
disgraziata fine di un vecchierello che, con grande fatica, vista l’età
avanzata e le forze sempre più deboli, si era recato nel bosco
per portarsi a casa, su una carriola, un po’ di legna da ardere.
Non si addentrò molto nel bosco, ma quel tanto bastò per
decretare la sua fine. Mentre era chino per raccogliere della legna
fine, vide un’ombra che si sovrapponeva alla sua. Lasciò
legna e carriola per fuggire in direzione opposta, ma l’ombra
lo seguì, facendosi sempre più grande. Percorse
poche decine di metri, inciampò, e l’ombra gli fu addosso.
Non osò voltarsi. Fu ghermito dalle manacce orrende e verdi del
mostro del bosco, che lo divorò intero. Di lui rimasero solo
il cappello, la carriola rovesciata e la poca legna sparsa sul sentiero.
Così almeno raccontano da queste parti, soprattutto ai bambini
che, addentrandosi soli nei boschi o uscendo dai sentieri battuti, potrebbero
perdersi e finire anche loro nelle sue fauci.
Chiudiamo quella carrellata con la vicenda dell'ultimo stregone di Livigno. Ha come protagonista positivo Bepin de la Pipa e ce la racconta Alfredo Martinelli ("La cerva, la volpe e Bepin de la Pipa"), nella raccolta "L'erba della memoria - Leggende e racconti valtellinesi" (Sondrio, 1964); così la riassume Maria Pietrogiovanna, nella bella raccolta “Le leggende in Alta Valtellina” (dattiloscritto, Valfurva, 27 giugno 1998):
“Il cacciatore Bepin de la Pipa, andato a caccia risalendo il ponte delle Capre su per la valle del torrente Torto verso Trepalle, vide una bella cerva legata ad un albero e la slegò, lasciandola libera invece di ucciderla. Recatosi poi alla fiera di Tirano e non avendo venduto il bestiame, egli venne avvicinato da una bellissima donna a lui sconosciuta. Costei diede a Bepin il denaro corrispondente al bestiame, lasciando al livignasco sia i soldi sia gli animali. Ella raccomandò al cacciatore, inoltre, di essere sempre buono con la Cerva del Bosco e di uccidere, invece, la Volpe fulva delle Mine. Il montanaro comprese che la trasformazione della fanciulla in cerva era stato un incantesimo, uno dei tanti compiuti da un tizio stregone in grado di mutare la natura delle più belle fanciulle e di rilegarle in luoghi deserti e paurosi.
Passarono alcune stagioni ed un pomeriggio, mentre si trovava a falciare l'erba in un prato che aveva alla Tresenda presso lo Spöl all'imbocco della Valle delle Mine, Bepin de la vide Pipa vide la volpe. Egli la colpì con una terribile falciata, sicché la bestia, assai malconcia nelle zampe, fu costretta a fuggire e si infilò su per la valle verso li Steblina, dove le ossa di chi lassù muore devono essere lasciate. Infatti, se vengono tolte di là, subito vi tornano per forze misteriose, condannate alle pietraie spente fuor del tempo. La sera di quel giorno stesso, in paese fu portato d'urgenza il viatico ad un tizio stregone, ferito alle gambe così come era avvenuto alla volpe rabbiosa colpita da Bepin. Certo il tizio era "el striòn" che si era incarnato in quell'animale; altri non era che lo stregone che aveva fatto male a quella fanciulla, così pensò e commentò il montanaro nelle sere successive. Vero è anche, che con la morte di costui, nella vallata non si sentì più parlare di incantesimi. Infatti, non si è più sentito raccontare né di cerve legate né di volpi ringhiose in quel di Livigno. Neppure è più avvenuto che alle donne del luogo si involassero i panni e che le lenzuola stese fuori sui prati si vedessero poi, il giorno successivo, biancheggiare sulle cime dintorno. Solo nella Valle delle Mine si odono ogni tanto i gemiti degli spiriti delle solitudini, i quali si divertono a far rotolare sassi e macigni e che nelle notti solenni mandano lunghi ululati di angoscia.”
Hanno, queste leggende, uno sfondo storico? Sì, purtroppo come abbiamo già visto. Nei quattro secoli ed oltre di caccia alle streghe fu preso di mira anche qualche presunto stregone. Il caso forse più emblematico è quello di un disgraziato giovane di Semogo, nella Magnifica Terra di Bormio, Giovanni Merenda, o Merenda, detto “Marendìn”. Un giovane di cent’anni, come moltissimi altri, ad eccezione di un particolare: era figlio di tal Maria delle Runi, condannata come strega. Come moltissimi altri, si innamorò di una giovane, Maddalena Giordani, che lo ricambiava. La sorella della giovane, però, Maria, non vedeva affatto di buon’occhio quel legame, ed allora si inventò una storia che pareva a dir poco assurda, accusandolo di essere stata rovinata da lui: durante una discussione, il Marendin le avrebbe toccato un braccio, e da quel momento in poi la buona salute l’avrebbe abbandonata. Quell’accusa bastò a mandare il giovane sotto processo: del resto, appena un anno prima era stata giustiziata la madre, e questo solo fatto lo poneva in una luce niente affatto rassicurante. Il processo fu condotto, come molti altri, con spietata determinazione: ci si avvalse della tortura per fargli raccontare tutta una serie di nefandezze originate dal patto con il diavolo che l’aveva costituito stregone. Massimo Bormetti, nella sua bella monografia “Al tempo delle streghe” (Bissoni, Sondrio, 1963 I), così riporta il racconto della prima partecipazione ad un sabba, una dalle sue confessioni estorte: “Poco dopo la partenza s'accorge però che la destinazione non è affatto verso i bassi luoghi infernali e neppure verso il settentrione, ma verso il cielo, al disopra dei paesi, delle valli, delle montagne. Sul cavallo, che nel frattempo ha assunto proporzioni di smisurata grandezza, passa da una montagna all'altra, come a volo, senza alcun bisogno di scendere e risalire per gli aspri pendii delle Alpi. A un certo momento la comitiva giunge sopra le torri di Fraele. Era questa una località che aveva acquistata larga rinomanza durante i grandi avvenimenti dell'epoca. Le due torri ivi esistenti e che erano state costruite in preparazione della guerra dei trent'anni, formavano due poderosi capisaldi di un vasto sistema di fortificazioni: poste su due alti roccioni ai due lati del passo di Fraele ne dominavano il passaggio ed avevano, come hanno tuttora, un aspetto di maschia potenza e un'arcana storia di piani e di stratagemmi astutamente escogitati dagli eserciti in lotta per conquistarle o per difenderle. Finita la guerra furono abbandonate e la fantasia popolare provvide subito a sostituire alla cessata occupazione militare i ritrovi di diavoli e streghe.
Sopra quelle torri la comitiva fa un giro a largo raggio forse per vedere se mai in quei paraggi si trovi qualche affiliato e dargli appuntamento per la tregenda.
Poi riprende la marcia e dopo aver girovagato un poco attraverso le nuvole e le giogaie va a fermarsi, dice testualmente il processo, “su in alto, in alto, sopra le rovine di Cepina, fra il picco di Sandilla e la cima Piazzi”. Quivi Marendin scende dal cavallo e trova uno spiazzo contornato da alte roccie, da burroni e da vette e inaccessibile ai miseri mortali se non con mezzi soprannaturali. Nel mezzo brilla un gran chiaro che illumina tutto. Ivi streghe e stregoni sono radunati a centinaia, a migliaia. Vi sono fra questi qualcuno che gli sembra conoscere e molt'altra gente “piccoli et grandi, uomini et donne, alcune con le vesti lunghe, altre con le vesti corte et altre affatto ignude”. A mezzanotte in punto entra Belzebù, che per l'occasione ha assunto la forma di un “homo grande con li piedi di cavallo” e si pianta là nel mezzo “tremendissimamente sentato in cadrega che luceva tutta” e procede alla rivista del terribile esercito delle streghe. Queste sfilano, sostano appena un momento davanti a lui per fargli riverenza, inginocchiarsi in atto di adorazione, baciarlo, onorarlo. Marendin entra anche lui, si fa della compagnia, rinnega in forma solenne Dio e la fede, partecipa ai festeggiamenti, mangia, beve, balla. Tutti i presenti non hanno di mira che di divertir lui nuovo arrivato, nuovo satellite. Vogliono lasciargli un ricordo indimenticabile. Lo stesso Demonio si presta a questo intento: “Viene fuori dalla cadrega dove era sentato et vi senta dentro un altro che diventa una bellissima giovane et così egli Marendin fa peccato con lei in quella maniera e forma che era”. Poi, all'improvviso, presso lo spuntar dell'alba, tutto sparisce, il gran chiaro si spegne ed egli si trova piantato in asso
senza Belzebù, senza cavallo e senza la bellissima giovane e così,
mesto mesto, riprende la via del ritorno, tutto solo, montato
però a cavalcioni di un bastoncino che lo porta via come il vento.”
Prima che aggiorni è alla sua casa e nessuno, nè in quella nè
in altre scappate analoghe, si è mai accorto della sua assenza.”
Questa e numerose altre assurdità confessò il giovane (per poi ritrattarle tutte, prima di morire), ed alla fine fu condannato a morte. La sentenza fu eseguita con tutta la solennità del caso al Pra’ della Giustizia, presso la chiesetta di San Gallo, per mano del ministro di giustizia (così si chiamava il boia) Hans Gerich, che giunse, non senza lauto compenso, da Coira, per decapitare il giovane e bruciarne il cadavere. Era mercoledì 20 dicembre del 1673.
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I PROVERBI SONO IN GRAN PARTE TRATTI DAI SEGUENTI TESTI:
Gaggi, Silvio, "Il volgar eloquio - dialetto malenco", Tipografia Bettini, Sondrio, 2011
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996)
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003
Pier Antonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pier Antonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pier Antonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Pier Antonio Castellani, "Detti e citazioni della Valdidentro", I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Luigi Godenzi e don Reto Crameri, "Proverbi, modi di dire, filastrocche raccolti a Poschiavo, in particolare nelle sue frazioni", con la collaborazione di alcune classi delle Scuole di Avviamento Pratico, Tip. Menghini, Poschiavo (CH), 1987
Lina Lombardini Rini, "Favole e racconti in dialetto di Valtellina", Edizioni Sandron, Palermo-Roma, 1926
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed
IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca.
Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970
Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Utilissima anche la consultazione di Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001
PRINCIPALI TESTI CONSULTATI:
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
Tullio Urangia Tazzoli, "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”,
Anonima Bolis Bergamo, 1935;
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996);
Giuseppina Lombardini, “Leggende e tradizioni valtellinesi”, Sondrio, ed. Mevio Washington, 1925;
Lina Rini Lombardini, “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950;
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice;
Glicerio Longa, "Vocabolario Bormino”, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913;
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000);
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – Fidanzamento e matrimonio” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2004);
Luigi De Bernardi, "Almanacco valtellinese e valchiavennasco", II, Sondrio, 1991;
Giuseppe Napoleone Besta, "Bozzetti Valtellinesi", Bonazzi, Tirano, 1878;
Ercole Bassi, “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ”, Milano, Tipografia degli Operai, 1890;
"Ardenno- Strade e contrade", a cura della cooperativa "L'Involt" di Sondrio;
"Castione - Un paese di Valtellina", edito a cura della Biblioteca Comunale di Castione, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario di Sondrio;
don Domenico Songini, “Storie di Traona – terra buona”, vol. II, Bettini Sondrio, 2004;
don Domenico Songini, “Storia e... storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001;
Scuola primaria di Sirta: calendari 1986 e 1991 (a cura dell'insegnante Liberale Libera);
Luisa Moraschinelli, “Uita d'Abriga cüntada an dal so dialet (agn '40)”;
Giovanni Bianchini e Remo Bracchi, "“Dizionario etimologico dei dialetti della Val di Tartano”, Fondazione Pro Valtellina, IDEVV, 2003;
Rosa Gusmeroli, "Le mie care Selve";
Cirillo Ruffoni, "Ai confini del cielo - la mia infanzia a Gerola", Tipografia Bettini, Sondrio, 2003;
Cirillo Ruffoni, "Chi va e chi resta - Romanzo storico ambientato in bassa Valtellina nel secolo XV", Tipografia Bettini, Sondrio, 2000;
Cirillo Ruffoni, "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento", Tipografia Bettini, Sondrio, 1998;
Mario Songini (Diga), "La Val Masino e la sua gente - storia, cronaca e altro", Comune di Val Masino, 2006;
Tarcisio Della Ferrera, "Una volta", Edizione Pro-Loco Comune di Chiuro, 1982;
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003;
Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001;
Associazione Archivio della Memoria di Ponte in Valtellina, "La memoria della cura, la cura della memoria", Alpinia editrice, 2007;
Luisa Moraschinelli, "Come si viveva nei paesi di Valtellina negli anni '40 - l'Aprica", Alpinia editrice, 2000;
Aurelio Benetti, Dario Benetti, Angelo Dell'Oca, Diego Zoia, "Uomini delle Alpi - Contadini e pastori in Valtellina", Jaca Book, 1982;
Patrizio Del Nero, “Albaredo e la via di San Marco – Storia di una comunità alpina”, Editour, 2001;
Amleto Del Giorgio, "Samolaco ieri e oggi", Chiavenna, 1965;
Ines Busnarda Luzzi, "Case di sassi", II, L'officina del Libro, Sondrio, 1994;
aa.vv. “Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio” (Silvana editoriale, 1995)
Pierantonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pierantonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pierantonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed
IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Pietro Ligari, “Ragionamenti d’agricoltura” (1752), Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1988
Saveria Masa, “Libro dei miracoli della Madonna di Tirano”, edito a cura dell’Associazione Amici del Santuario della Beata Vergine di Tirano” (Società Storica Valtellinese, Sondrio, 2004)
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca.
Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970
Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890
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