SANTI PATRONI: S. Fedele (Poggiridenti)
PROVERBI
Se al truna prima de San Marc al turna 'ndree l'inuèren
(se tuona prima di San Marco torna indietro l'inverno - Selve di Colorina)
Pasqua tardiva, prümaveira tampuriva (Pasqua tardina, primavera tempestiva - Val Bregaglia)
D’aprìl de sòlit te sé gnamò s’al cànta el grìl
(ad aprile di solito non sai ancora se i grilli cantano – Montagna)
Sa 'l marz nul tempégia avril nul verdégia
(se a marzo non c'è cattivo tempo, ad aprile non esplode il verde - Poschiavo)
I dané i va e la tèra la sta (i soldi se ne vanno, la terra rimane)
La fèmna par l’um l’ammatis, l’um anvèci al sa ‘mbesüìs
(la donna per l'uomo impazzisce, l'uomo, invece, si rimbecillisce - Tirano)
La fèmna sénsa um l’è ‘n fiùu, l’um sénsa fèmna l’è pòr laùu
(la donna senza l'uomo è un fiore, l'uomo senza la donna è un povero essere - Tirano)
Chi va con al zòp l'inpàrä a zopegàa (chi va con zoppo impara a zoppicare
- Villa di Chiavenna)
L'è in pecù a bea vin slungù (è perfin peccato bere vino annacquato - Poschiavo)
Si celebra oggi la festa patronale di Poggiridenti. La seguente carrellata di storie e leggende vuol essere un omaggio al sorridente paese del versante retico mediovaltellinese.
Correva
l’anno 1929: il 10 ottobre una delibera comunale, ratificata l’anno
successivo dalla Prefettura di Sondrio, cambiò il nome dell’antica
Pendolasco in Poggiridenti, e tale è, ancora oggi, il nuovo nome
del comune il cui territorio, ameno e di modesta estensione, si trova
sul versante retico ad oriente di Sondrio, fra Montagna in Valtellina
e Tresivio.
Perché abbandonare un nome che affondava le sue radici nella
storia del paese (una storia ricca, che non ha molto da invidiare a
quella degli illustri paesi vicini: nel 1589, alla visita pastorale
del vescovo di Como Feliciano Ninguarda, vi si contavano 90 famiglie,
cioè circa 600 abitanti, e nel 1816 il paese, già corte
della pieve di Tresivio, nel Medio Evo, e successivamente frazione del
comune di Montagna, diventa comune autonomo) per adottarne uno anonimo,
che avrebbe potuto applicarsi a qualsivoglia altra località montana
dalla felice collocazione climatica?
La motivazione della delibera lo spiega: la famiglia dei De Pendolasco,
da cui deriva l’antico nome, risultava “da tempo immemorabile
estinta” (come dire: nessuno verrà a lamentarsi…),
e, soprattutto, tale nome “si presta a interpretazioni sconvenienti
in contrasto con la sana giovinezza del paese”, interpretazioni
presumibilmente connesse con le allusioni amene legate al verbo “penzolare”
ed all’aggettivo “pèndulo”. Il nuovo nome,
spiega ancora la motivazione, risulta, invece, assai più consono
alla bellezza dei luoghi ed alla salubrità del clima, dal momento
che il paese “si
adagia su tre colli ameni, ridenti al sole, ricchi di colture perfezionate
e superiori, avvolti in dolce clima di aria saluberrima”.
Sul cambio del nome, però, in paese cominciò a circolare
anche una divertente storiella, riportata nella raccolta “Storie
e leggende dei nostri paesi” della classe IV B della scuola elementare
di Chiuro, curata nel 1976 dall’insegnante Armida Bombardieri.
All’origine del nomicidio, secondo tale versione, starebbe la
vanità femminile, o, perlomeno, la risaputa aspirazione di ogni
ragazza a trovare un buon marito. Pendolasco, infatti, era nome talmente
ridicolo che nessun ragazzo se ne veniva da fuori per corteggiare le
ragazze del paese. Da qui una vibrata protesta alle autorità
locali, protesta che giunse fino a Roma, cioè fino a Mussolini.
Questi prestò orecchio alla lamentela ma, per sincerarsi della
sua fondatezza, mandò nel paese un ufficiale fidato, perché
gli riferisse come stavano veramente le cose. L’ufficiale, entrato
in paese, si imbatté subito in una donna di tale bellezza da
suscitare in lui un immediato innamoramento: il classico colpo di fulmine!
Le chiese, quindi, se fosse disposta ad ospitarlo, e la donna rispose
di non poterlo fare, senza aver prima chiesto il permesso al marito,
che sarebbe tornato più tardi dal lavoro: che l’ufficiale
aspettasse lì, all’arrivo del marito se ne sarebbe riparlato.
L’ufficiale
attese diverse ore, ma la donna non si fece più viva. Allora,
inquieto, cominciò a guardarsi intorno con maggiore attenzione:
fu così che la scorse, seminascosta dietro un poggio, in atteggiamento
decisamente divertito. Non la prese bene, si arrabbiò parecchio
e scrisse a Mussolini: “da un poggio ridente quella donnaccia
mi derideva”. Ora, in mancanza dell’opportuna virgola (e
questo serva da insegnamento a tutti coloro che la spregiano), la frase
poteva essere interpretata “da un poggio ridente, quella donnaccia
mi derideva” oppure “da un poggio, ridente quella donnaccia
mi derideva”. Con tutta probabilità l’ufficiale intendeva
alludere allo sghignazzare della donna, ma la missiva venne interpretata
come elogio della bellezza del poggio. Si decise, così, che il
nuovo nome del paese dovesse ispirarsi ai poggi ridenti che lo caratterizzano.
Dal paese ci vengono, però, non solo storie che muovono al sorriso,
ma anche leggende che, almeno un tempo, suscitavano, raccontate nelle
stalle, la sera, paura nei bambini, e non solo in loro. La ricerca già
menzionata ne riporta alcune.
La prima si riferisce al “böc' de l’orch”, cioè
al “buco dell’orco” (è interessante notare
che un toponimo simile, “buco dell’orso”, si trova
più ad est sul medesimo versante retico, vale a dire nei monti
sopra Tirano). A
Poggiridenti il buco dell’orco è una piccola caverna, non lontano dal maggengo di Scens, sul
versante occidentale della valle della Rogna, che divide il versante
montuoso sopra Montagna da quello sopra Tresivio. La valle ha un aspetto
aspro e selvaggio, e rappresenta un luogo ideale per ospitare un essere
malvagio e pauroso come l’orco. Nella grotta, si racconta, viveva,
un tempo, un orco crudele, che, di quando in quando, lasciava l’ombrosa
valle per scendere al paese e rapire, approfittando delle ombre della
sera, qualche malcapitato viandante (i bambini disobbedienti che si
attardavano nelle strade del paese erano le sue prede preferite). Il
poveretto veniva portato nella grotta e gli toccava l’orribile
sorte di fare da pasto al repellente essere.
La gente era terrorizzata, ed alla fine ci si decise a perlustrare l’aspro
fianco del monte per trovare la tana dell’orco e farla finita
con quella minaccia. L’unione fa non solo la forza, ma anche il
coraggio, e la ricerca fu condotta con la massima accuratezza. La grotta,
infine, venne trovata, mentre l’orco no, di lui non si seppe più
nulla. Cosa ancor più strana, nell’antro vennero trovate
anche monete false, per cui si diffuse la voce che in realtà
essa fosse il covo di una banda di falsari, che coniava le monete utilizzando
il rame di alcune “culdere” rubate nottetempo in paese.
Il toponimo “böc' de l’orch”, però, si riferisce anche ad una pozza naturale nel torrente della Rogna, ad est della contrada di Surana e del maggengo di Scens, dove in estate un tempo i ragazzi si ritrovavano a fare il bagno. Un luogo, quindi, assai più legato al divertimento spensierato che alla paura, anche se qualche genitore, probabilmente, avrà desiderato in cuor suo che il riferimento all'orco potesse dissuadere i figli dal frequentarlo troppo spesso.
A proposito di böc', non possiamo passare sotto silenzio il "böc' de la lébra", chiamato anche "crap de la dària", dal nome della sventurata donna la cui memoria è consegnata a questo luogo. Si tratta di una cavità nella roccia che si trova a valle della chiesa della Madonna del Carmine, dove inizia la "scala lunga", un antico sentiero che scendeva da qui al piano. Vi fu relegata, per lungo tempo, una donna, tal Daria, appunto, che aveva contratto una malattia di cui la popolazione temeva fortemente il contagio, la lebbra. Le veniva fornito di che vivere utilizzando una cesta calata dall'alto con una corda. Così racconta un'antica leggenda, che però non ha mai trovato riscontro in documenti storici. Non si sa che fine abbia fatto la sventurata. Certo, la sua vicenda suscita un gran senso di malinconia.
A proposito di vicende sospese fra la cronaca e la leggenda, sentite anche questa. Ci spostiamo dal crap che sta sotto il roccione del Carmine ad una diversa zona di rocce, verso est, ai culderòn de la rugna, cioè le marmitte dei giganti che il torrente Rogna si è scavato nella parte bassa del suo corso, appena sopra la cascata (el pìsul) con la quale tocca il fondovalle. Anche la storia si sposta, virando dal dramma alla tragedia. Viveva un tempo un tal “màgu” (così lo chiamavano), il quale, non si sa bene per qual motivo, si era attirato l'odio di un abitante della contrada di Case Ferrari (cà farè). Costui giunse a meditare di farlo fuori, e dall’intenzione passò al fatto, soprendendolo, un giorno, nei pressi del ripido versante della Valle della Rogna che si affaccia sui culderòn. Per disfarsi del cadavere, tentò, poi, di gettarlo sul fondo del torrente, dove non l’avrebbero più trovato, ma non ci riuscì: il povero corpo, cadendo, si impigliò in una pianta di rovere (rul) che se ne stava quasi sospesa sopra la forra. In paese tutti si domandavano, con sconcerto o semplice curiosità, dove mai fosse finito il màgu.
La risposta all’interrogativo venne l’anno seguente, quando il suo cadavere venne scorto e recuperato. Si poneva, però, ora un secondo e più inquietante interrogativo: chi era stato a spaccargli la testa in modo così selvaggio? L’assassino aveva proseguito la sua vita di sempre, senza tradire alcun senso di colpa. Ma a tradirlo fu un’esclamazione incauta, che una volta gli uscì di bocca mentre a cà farè stava cercando di spaccare un grosso ceppo: “T’è ciüsè dür che la cràpa del màgu!”, cioè “Sei più duro della testa del màgu”. La sentirono alcune donne, che lo denunciarono alle autorità, assicurandolo alla giustizia. Da allora il rovere che aveva trattenuto il cadavere venne chiamato “rul del màgu”.
Torniamo, ora, nei più puri territorio della leggenda. E torniamo ai boschi vicini al “böc' de l’orch”, ad est della contrada Surana, la più alta del paese, al confine con il territorio di Montagna. Vi è, qui, una selva denominata “böc' del bàu”, cioè buco del diavolo. Un posto poco raccomandabile, senza ombra di dubbio. Nel
cuore di questo bosco, si racconta, una ragazza vide, una volta,
qualcosa che si muoveva. Pensò si trattasse di un animale, e
guardò meglio, senza però riuscire ad identificarlo. Guardando
con attenzione ancora maggiore, si accorse che non si trattava di un
animale, ma di un’ombra, che correva veloce fra alcuni grandi
massi. Poi, all’improvviso, si fermò e svanì. La
ragazza si avvicinò al luogo dove l’ombra si era dissolta,
e vi trovò un gomitolo di lana. Lo raccolse, perché la
lana era di un bellissimo colore, sembrava davvero oro.
Non le parve vero di poter approfittare di quell’insperato ritrovamento:
era prossima al matrimonio e non aveva ancora fatto confezionare l’abito
nuziale, per cui pensò bene di portare il gomitolo alla futura
suocera, abile sarta, perché ne ricavasse l’abito di cui
aveva bisogno. E così avvenne: l’abito era bellissimo,
splendente, sembrava confezionato con tessuto d’oro, e la sposa
attendeva, trepidante, il giorno delle nozze per poterlo sfoggiare e
suscitare la malcelata invidia delle amiche (e se no che amiche sarebbero?)
e lo stupore degli invitati.
Il giorno tanto atteso venne, e tutti gli occhi erano per la sposa,
luminosa nel vestito sfarzoso. La sorpresa di tutti fu grande quando
entrò in chiesa, accompagnata dai commenti increduli delle amiche, dal
suono festoso dell’organo, dall’incedere orgoglioso del
padre e dalle lacrime dei parenti. Lo sposo, che l’attendeva all’altare
senza averla vista prima (tutti sanno che porta malissimo vedere la
sposa il giorno delle nozze prima che entri in chiesa), rimase rapito
da quella visione, ed anche il sacerdote sottrasse per qualche istante
lo sguardo a paramenti e messale per ammirarla. Ma l’abito, che
dall’ombra era nato, all’ombra era destinato a tornare.
Sul più bello, infatti, cioè al momento dello scambio
della promessa reciproca di eterno amore, le cuciture, una dopo l’altra,
cominciarono impietosamente a saltare, e l’abito cadde miseramente
ai piedi dell’esterefatta sposa. Ciascuno può immaginare
il resto. Le amiche se ne andarono contente del pensiero malevolo “ci
doveva pur essere il trucco!” Lo sposo si sentì mancare
(la sposa, invece, mancò proprio, svenne). Parenti e convitati
lasciarono alla spicciolata la chiesa, increduli ed imbarazzati, mentre
il sacerdote se ne uscì con un “Jesus, misericordia!”
che diceva tutto. Ci aveva messo lo zampino il diavolo, perché
quell’ombra era proprio il diavolo. Ed aveva messo lo zampino
anche su uno dei massi del bosco, che ancora ne conserva l’impronta.
Il
trittico di leggende paurose si conclude con una storia che ha come
protagonista il lupo, da sempre rappresentazione temutissima della ferocia
famelica. Una volta un pastore di Poggiridenti alto, che conduceva al
pascolo il suo gregge, venne sorpreso da un grosso lupo, tanto feroce
ed audace da assalire proprio lui, per primo, disinteressandosi delle
pecore. Il pastore si sent ì perso, ma ebbe la prontezza di spirito
e di fede di supplicare la Madonna, che accolse la sua richiesta di
soccorso. Apparve, infatti, splendente e gloriosa, con in braccio il
Figlio, Gesù bambino, ed ammansì prodigiosamente il lupo,
che, all’istante, si fece mite e docile, tendendo la zampa al
pastore. A ricordo del miracolo venne poi collocato, in quel luogo,
una croce, con l’immagine di Maria e di Gesù Bambino.
A Poggiridenti alto risponde Poggiridenti piano, il pi ù recente
insediamento nei pressi della ss. 38 dello Stelvio. Anche qui troviamo,
infatti, una leggenda paurosa, che propone un quarto simbolo del male
e della paura, il fantasma. Si crede di solito che questi abitino dimore
antiche e maledette. Non sempre, però, è così.
Ne sanno qualcosa proprio a Poggiridenti Piano, dove, una volta, si
trovava un grande masso, che nessuno riusciva a smuovere. Il masso era
d’intralcio, cosicché si decise, un giorno, di raccogliere
numerose persone che, unendo i propri sforzi, l’avrebbero avuta
vinta sul masso ostinato. L’accordo fu preso e suggellato da un
buon bicchiere, ma, quando una squadra di robusti uomini si recò
sul luogo decisa a spostare il masso, notò che qualcuno l’aveva già fatto. Al posto del masso, infatti, era rimasto un enorme
buco.
Grande
fu la loro sorpresa, ma divenne ancor più grande quando notarono
che qualcosa sembrava uscire dal buco, di cui non si vedeva il fondo.
Si trattava di due fantasmi, che uscirono dal buco bardati del più
classico dei lenzuoli bianchi. Gli uomini se ne corsero via, spaventatissimi,
a raccontare quanto avevano visto, e a tutti coloro che, increduli,
attribuivano la visione al buon vino bevuto poco prima, risposero di
andare a vedere con i loro stessi occhi. I fantasmi, per la verità,
non furono più visti, ma il buco ed il masso spostato rimasero,
muti testimoni dell’enigmatica vicenda.
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I PROVERBI SONO IN GRAN PARTE TRATTI DAI SEGUENTI TESTI:
Gaggi, Silvio, "Il volgar eloquio - dialetto malenco", Tipografia Bettini, Sondrio, 2011
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996)
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003
Pier Antonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pier Antonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pier Antonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Pier Antonio Castellani, "Detti e citazioni della Valdidentro", I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Luigi Godenzi e don Reto Crameri, "Proverbi, modi di dire, filastrocche raccolti a Poschiavo, in particolare nelle sue frazioni", con la collaborazione di alcune classi delle Scuole di Avviamento Pratico, Tip. Menghini, Poschiavo (CH), 1987
Lina Lombardini Rini, "Favole e racconti in dialetto di Valtellina", Edizioni Sandron, Palermo-Roma, 1926
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed
IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca.
Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970
Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Utilissima anche la consultazione di Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001
PRINCIPALI TESTI CONSULTATI:
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
Tullio Urangia Tazzoli, "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”,
Anonima Bolis Bergamo, 1935;
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996);
Giuseppina Lombardini, “Leggende e tradizioni valtellinesi”, Sondrio, ed. Mevio Washington, 1925;
Lina Rini Lombardini, “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950;
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice;
Glicerio Longa, "Vocabolario Bormino”, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913;
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000);
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – Fidanzamento e matrimonio” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2004);
Luigi De Bernardi, "Almanacco valtellinese e valchiavennasco", II, Sondrio, 1991;
Giuseppe Napoleone Besta, "Bozzetti Valtellinesi", Bonazzi, Tirano, 1878;
Ercole Bassi, “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ”, Milano, Tipografia degli Operai, 1890;
"Ardenno- Strade e contrade", a cura della cooperativa "L'Involt" di Sondrio;
"Castione - Un paese di Valtellina", edito a cura della Biblioteca Comunale di Castione, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario di Sondrio;
don Domenico Songini, “Storie di Traona – terra buona”, vol. II, Bettini Sondrio, 2004;
don Domenico Songini, “Storia e... storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001;
Scuola primaria di Sirta: calendari 1986 e 1991 (a cura dell'insegnante Liberale Libera);
Luisa Moraschinelli, “Uita d'Abriga cüntada an dal so dialet (agn '40)”;
Giovanni Bianchini e Remo Bracchi, "“Dizionario etimologico dei dialetti della Val di Tartano”, Fondazione Pro Valtellina, IDEVV, 2003;
Rosa Gusmeroli, "Le mie care Selve";
Cirillo Ruffoni, "Ai confini del cielo - la mia infanzia a Gerola", Tipografia Bettini, Sondrio, 2003;
Cirillo Ruffoni, "Chi va e chi resta - Romanzo storico ambientato in bassa Valtellina nel secolo XV", Tipografia Bettini, Sondrio, 2000;
Cirillo Ruffoni, "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento", Tipografia Bettini, Sondrio, 1998;
Mario Songini (Diga), "La Val Masino e la sua gente - storia, cronaca e altro", Comune di Val Masino, 2006;
Tarcisio Della Ferrera, "Una volta", Edizione Pro-Loco Comune di Chiuro, 1982;
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003;
Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001;
Associazione Archivio della Memoria di Ponte in Valtellina, "La memoria della cura, la cura della memoria", Alpinia editrice, 2007;
Luisa Moraschinelli, "Come si viveva nei paesi di Valtellina negli anni '40 - l'Aprica", Alpinia editrice, 2000;
Aurelio Benetti, Dario Benetti, Angelo Dell'Oca, Diego Zoia, "Uomini delle Alpi - Contadini e pastori in Valtellina", Jaca Book, 1982;
Patrizio Del Nero, “Albaredo e la via di San Marco – Storia di una comunità alpina”, Editour, 2001;
Amleto Del Giorgio, "Samolaco ieri e oggi", Chiavenna, 1965;
Ines Busnarda Luzzi, "Case di sassi", II, L'officina del Libro, Sondrio, 1994;
aa.vv. “Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio” (Silvana editoriale, 1995)
Pierantonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pierantonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pierantonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed
IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Pietro Ligari, “Ragionamenti d’agricoltura” (1752), Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1988
Saveria Masa, “Libro dei miracoli della Madonna di Tirano”, edito a cura dell’Associazione Amici del Santuario della Beata Vergine di Tirano” (Società Storica Valtellinese, Sondrio, 2004)
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca.
Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970
Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890
La riproduzione della pagina o di sue parti è consentita previa indicazione della fonte e dell'autore
(Massimo Dei Cas, www.paesidivaltellina.it)
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