SANTI (clicca qui per aprire la pagina relativa a questo giorno dal sito www.santiebeati.it):
SS. Pietro e Paolo, Piero
SANTI PATRONI: SS. Pietro e Paolo (Dubino, Morbegno, Tresivio, Cataeggio)
PROVERBI
El dì de San Péder se catta i scirés (il giorno di San Pietro si raccolgono le ciliegie - Castione)
Rimaridàs l’è ‘n pòo cupàs (risposarsi è un po'm come accopparsi - Tirano)
Rispèta i giùan e unùra i vècc (rispetta i giovani ed onora i vecchi - Tirano)
Rüà diventà vècc l’è brüt ma tücc i völ rüà (arrivare a diventar vecchi è brutto, ma tutti lo vogliono - Tirano)
Rus de mesdì, l’àqua l’è chì (cielo rosso a mezzogiorno, acqua imminente - Tirano)
Sa de ‘mparà dela furmìga par mèt ià (bisogna imparare dalla formica a risparmiare - Tirano)
L'e mei 'na brüta peza chi 'n bel böc’ (è meglio una brutta pezza che un bel buco - Poschiavo)
Al ciapà l'é sempri parént da 'l dà (il prendere è sempre parente del dare - Poschiavo)
Cur ca sa vol giütà l'é da mèta 'na man al cor
e üna a la bursa
(quando si vuol aiutare si deve mettere una mano sul cuore ed una al portafoglio - Poschiavo)
Negli Statuti di Valtellina del 1549 questa giornata, dedicata alla memoria dei Santi Pietro e Paolo, era considerata festiva, per cui non vi si poteva svolgere alcuna attività giudiziaria né costringere alcun contratto (art. 131: “che non si renda ragione, et che non si facciano esecutioni de contratti, o distratti, ne li quali si richiede il decreto del Giudice, overo del Consule”).
Scrive Tullio Urangia Tazzoli in “La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, (Anonima Bolis Bergamo, 1935):
“La kaseràda di Mort si faceva a S. Pietro (29 giugno) nelle zone alte, al principio dell'alpeggio, per propiziarsi l'aiuto dei defunti appunto durante l'alpeggio stesso. Il ricavato della rendita del formaggio andava appunto in funzioni per propriziarsi le anime del purgatorio. La kaseràda di Mort, come già accennammo, si faceva, anche, in gennaio o febbraio per avere l'aiuto dei defunti. Oggi sono andate e l'una e l'altra in disuso forse per economia...”
Luisa Moraschinelli, nel bel volume "Come si viveva nei paesi di Valtellina negli anni '40 - l'Aprica" (Alpinia editrice, 2000), scrive:
“San Pietro («san Pieru») era una ricorrenza in un periodo dell'anno veramente esaltante. Preceduta dal mese di maggio, non solo il più gioioso per essere quello della Madonna, con la funzione serale in Chiesa, ma anche ambientale, con i prati fioriti, con la campagna in pieno sviluppo, con il clima mite e i primi forestieri che incominciavano ad animare il paese.
«San Pieru», con tutte le sue funzioni solenni tenute nella chiesa Parrocchiale e seguite da tutto il paese, era caratterizzato dalla fiera. Unica nel suo genere, nel paese, ad eccezione della Sagra di Santa Maria, 15 agosto, di dimensioni minori. La fiera di San Pieru si estendeva dalle vicinanze dell'Albergo delle Alpi fino al confine del paese, all'altezza dell'Albergo Aprica.
Molto importante questa fiera in quanto la gente, essendo l'unica in tutto l'anno, comprava gli attrezzi per i lavori della campagna. Inoltre, chi poteva, comprava il paio di scarpe o anche solo ciabattine di gomma per i bambini, oppure il pezzo di cotonina per un grembiule, o una pezza di fustagno per i pantaloni d'uomini e, novità, si potevano comperare ed assaggiare le prime ciliegie.
Per i bambini era l'occasione in cui ricevevano dai genitori un ventino da spendere, passavano da un banchetto all'altro, saziandosi con gli occhi e valutando fra la coppetta, «l'oss da mort», la rivoltella con le cartucce, una trombetta o la pipa dolce. Alla fine, valutati i costi, spesso si optava per quest'ultima. I più ingegnosi, facevano la corte ai padrini («güdaz»). Se questi erano generosi, regalavano un capellino, un paio di scarpe o semplicemente un soldo.
Per divertirsi, specialmente per i giovani, nel migliore dei casi c'era una giostra con i seggiolini. Era anche l'occasione, per chi era interessato, di vendere o comprare una mucca. Il momento era propizio per comprare il porcellino di nidiata, che, come abbiamo già detto, ogni famiglia doveva necessariamente allevare per poi poterlo macellare nel tardo autunno.
L’Albergo delle Alpi, con la sua terrazza, quel giorno viveva il suo momento di piena. Anche l'osteria della Orsolina era molto frequentata. La gente anziana si sedeva dentro, in grandi tavoli affiancati da panche di legno, mentre la gioventù se ne stava fuori, seduta sul bel prato antistante.
La serata finiva con tanta allegria nell'aria segnata dal suono delle trombette di carta e dallo schioppettìo di cartucce delle rivoltelle giocattolo dei bambini.”
Si celebra oggi la festa patronale di Tresivio, cui è dedicata la seguente carrellata di leggende.
Tresìvio,
adagiata in una bella conca, chiusa a nord dal largo dosso che scende
dal versante retico, fra la valle della Rogna, ad ovest, e la valle
di Rhon, ad est, ed a sud dalla rocca del Calvario, che precipita con
alcuni dirupi sul fondo della media Valtellina; Tresivio, antichissimo
insediamento, con tracce che risalgono all’epoca della colonizzazione
etrusca, centro di primaria importanza in epoca medievale, sede, durante
la dominazione dei Visconti e degli Sforza, fra il 1385 ed il 1500,
del governatore che rappresentava il Duca di Milano e del Tribunale
supremo della valle; Tresivio, cuore della Valtellina, dove, per diversi
secoli, il Vescovo di Como dovette risiedere per almeno tre mesi l’anno;
Tresivio, dunque, che rivaleggia con Teglio nella considerazione di
baricentro della Valtellina, è paese denso di misteri, così
come lo è di storia e tradizioni.
Diverse sono le leggende che lo riguardano. Raccontiamo le più
note, che ne interessano il centro ed il versante montano. Partiamo
da quella del “risc del bau” (riportata da alunni di Castello dell'Acqua nella bella raccolta ciclostilata "Leggende delle nostre valli", curata dalla scuola elementare di Piateda, 1976), che ci porta all’alpe
Rogneda, ampia e solare distesa di pascoli e gande, stesa ai piedi di
quella corona di cime che scendono, verso ovest, dalla sovrana vetta
di Rhon. La luminosità dell’alpe contrasta, però,
con l’evocazione sinistra contenuta nel nome, che risuona ancor
più esplicitamente in quello del torrente e della valle sottostante,
denominati Rogna. Rogna, cioè dissidio, lite. L’antica
storia dell’alpeggio è, infatti, segnata da una lite memorabile.
E laddove vi è discordia, lì non può mancare il
principe della contesa, il Diavolo, denominato, dialettalmente “bau”
(termine che si estende a tutti gli esseri paurosi ed orripilanti).
Ma andiamo con ordine.
Vi fu un tempo in cui i pascoli dell’alpe non erano divisi né
segnati da confini, ma necessità ed avidità fecero nascere
una grande contesa per il loro possesso. Si fronteggiavano le due frazioni
storiche di Tresivio (comuni distinti, fino all’unificazione nel
1857), Acqua e Tresivio basso, cioè le parti rispettivamente
a monte ed a valle dell’attuale municipio. Si trovò, allora,
questa soluzione per dirimere la contesa: l’esito di una gara
avrebbe deciso a quale frazione sarebbero spettati gli ambiti pascoli.
Una gara singolare: si trattava di ricoprire con un fondo di ciottoli
(risc) la strada che da Boirolo sale a Rogneda; vincitrice sarebbe risultata
la frazione che per prima avesse raggiunto, con la sua striscia, il
ponticello sul torrente Rogna, nella parte bassa dell’alpe.
Iniziarono, febbrili, i lavori per lastricare la strada, con sassi più
piccoli, secondo la strategia della frazione Acqua, o di maggiori dimensioni,
secondo quella di Tresivio basso. L’esito fu incerto, fino alla
fine. E nelle concitate battute finali della gara, entrò in gioco
il Diavolo: fu il capo della frazione Acqua ad invocarne l’aiuto,
temendo di essere superato proprio sul filo di lana dai rivali, che
usavano sassi più grandi. L’intervento demoniaco risultò
decisivo per la vittoria della frazione Acqua, ma non fu privo di conseguenze: il
nome dell’acciottolato che, ancora oggi, è ben visibile
sul fondo della strada, nel tratto che dalla chiesetta di S. Stefano
sale al limite inferiore dell’alpe, rimase legato al Diavolo,
e si chiamò, appunto, “risc del bau”. Alla contesa
fu, da allora, legato anche il nome della valle che scende dall’alpe,
la valle della Rogna.
Ma anche la valle sul versante opposto, cioè ad est, la valle
di Rhon, ha una fama sinistra. Qui i contorni delle vicende immaginarie
sono più sfumati, e non si legano ad episodi eclatanti. Però…
Però si racconta che questa valle celasse, nel suo cuore selvaggio,
oscure manifestazioni del male. Anche la parte bassa della valle, attraversata
da coloro che transitavano da Tresivio a Ponte in Valtellina, poteva
riservare incontri spiacevoli. Capitò una volta, in particolare,
che un contadino, che tornava, a sera fatta, a Tresivio, dopo aver utilizzato
le acque del torrente Rhon per irrigare i suoi prati, si trovò
sulla strada una volpe dagli occhi che sembravano sprizzare scintille,
tanto erano luminosi. A nulla valsero i suoi tentativi di spaventare
la volpe con il badile: questa lo seguì, sinistra, sempre mantenendo
una certa distanza, fino all’ingresso del paese, sparendo poi,
all’improvviso, come inghiottita dal nulla. L’episodio suscitò
in lui un’impressione enorme. Forse per questo o, forse, per qualche
più oscuro motivo, cadde subito dopo in una profonda malattia,
dalla quale non si riebbe. La sua morte rimase, quindi, avvolta nel
mistero legato alla valle oscura.
Scendiamo
ora al paese, per raccontare una terza storia misteriosa, quella legata
ad inspiegabili furti di latte che cominciarono a verificarsi in una
baita nella quale diversi pastori solevano raccoglierlo in grandi conche.
Nella povera economia di quei tempi, furti di quel genere pesavano parecchio,
e non potevano essere tollerati, cosicché i pastori decisero
di appostarsi a guardia della baita, per scoprirne il responsabile.
Gli appostamenti non servirono a nulla: videro, sì, qualche ombra,
a qualcuno parve che si trattasse di una vecchia, ma l’inseguimento
non diede alcun esito. Finché, una notte, un tal Gilberto, che
era di turno a montare la guardia, vide dapprima un’ombra, poi,
non poteva sbagliare, la figura di una vecchia che si avvicinava furtiva
alla baita, per poi entrarvi. Non esitò: con uno scatto fulmineo,
le chiuse la porta alle spalle, serrando il catenaccio, per poi correre
a chiamare gli altri pastori. Accorsero tutti, ansiosi di poter vedere
finalmente in faccia il ladro o, come si vociferava, la ladra.
Si raccolsero davanti alla porta, e qualcuno la aprì: il responsabile
non poteva certo più scappare! Rimasero, però con un palmo
di naso quando videro che dentro non c’era nessuno. O meglio,
c’era solo un gatto nero, che emetteva quel verso sinistro dei
gatti pronti ad attaccare, e che, non appena vide il varco aperto, schizzò
fuori con una rapidità incredibile, dileguandosi. Nessuno, però,
gli prestò attenzione più di tanto: gli occhi di tutti
erano intenti a frugare l’interno della baita, per scorgere se
la misteriosa vecchia si fosse nascosta in qualche angolo. Niente.
Allo stupore, sui visi assonnati, si sostituì allora il disappunto,
unito ad un accenno di rimprovero per il povero Gilberto, che, sicuro
di essere sobrio, non sapeva capacitarsi dell’errore. Fatto sta
che i furti continuarono. Non si parlava d’altro, a Piedo (questa
era la frazione dei pastori vittime del ladro misterioso), e molti raccontavano
di aver avuto l’impressione di aver visto, durante le notti in
cui i furti avvenivano, la figura di una vecchia entrare nella baita,
dalla quale, poi, usciva sempre un gatto nero, che scompariva rapidamente.
Come spiegare tutto ciò?
Forse non ne sarebbero mai venuti a capo, se il ladro misterioso non
si fosse fatto più audace e non avesse iniziato a rubare il latte
anche di giorno. Alla luce del giorno le cose si vedono più chiaramente,
e fu sempre Gilberto a vedere, una volta, proprio il gatto nero intento
a bere, con incredibile voracità, il latte dalle conche. Senza
pensarci due volte, gli si avventò contro e lo colpì con
un coltello, uccidendolo. Accorsero di nuovi gli altri pastori, e questa
volta Gilberto poté mostrare loro di aver risolto l’enigma.
O forse non del tutto, perché la figura del gatto esanime fece
un’impressione così sinistra ai pastori, che decisero di
portarlo via, lontano. Così fecero: lo avvolsero in uno straccio,
lo misero in una gerla e lo portarono sul ciglio di un burrone, scaraventandolo
poi fra le aspre rocce. Misteriosamente, da quel giorno non si vide
più, fra le strade del paese, una vecchia solitaria e taciturna.
Di lei, letteralmente, non si seppe più nulla. Non
ci volle molto a fare due più due: la vecchia doveva essere quella
figura misteriosa vista da molti nelle notti di appostamento, una strega
capace di trasformarsi in gatto nero. Da allora il burrone che aveva
inghiottito il gatto venne chiamato “Crap de la vegia”.
Il luogo, però, che condensa in sé i più fitti misteri di Tresivio si trova poco a monte della frazione di S. Antonio (l’ultima che si incontra, a 900 metri circa, sulla strada per Prasomaso, prima della serie di tornanti nella pecceta), verso est. Si tratta della zona della Móta: così viene chiamata, con voce locale, la fascia di boschi a nord-est di san’Antonio, che salgono fino al “Dòs di Móta”, boschi attraversati dalla vecchia mulattiera che congiungeva Sant’Antonio con il maggengo di Desì. Di qui, si racconta, vennero, molto, molto tempo fa, due serissime minacce alla pace ed all’integrità, materiale e spirituale, di Tresivio. La prima ha uno sfondo storico. La disgregazione dell’Impero Romano d’occidente portò alle invasioni delle popolazioni germaniche e probabilmente la Valtellina fu inglobata, dopo il 489, nel regno ostrogoto di Teodorico.
Racconta una leggenda che i Goti, o almeno una delle loro orde, varcato il versante retico, scesero in Valtellina dal monte di Rogneda, passando proprio per questa mulattiera. Ma il loro capo fu colto da morte proprio nella discesa verso Tresivio, in corrispondenza del “Dòs di Móta”, che, per questo, prese il nome di “Dòs del Cavalié”: infatti i suoi guerrieri stesero il suo cadavere sul terreno e lo coprirono di massi, fino a formate una collinetta che fungeva da tumulo. Ancora oggi, in effetti, sul luogo si può vedere il dosso parzialmente ricoperto da un muro di contenimento.
La seconda minaccia, assai più insidiosa e subdola, venne agli abitanti di Sant’Antonio e Tresivio da quello che nella Bibbia è chiamato l’avversario per eccellenza, il diavolo. Questi aveva preso ad insidiare i contadini della frazione, scendendo sempre dalla mulattiera per Desì, finché i suoi abitanti, stanchi di vivere nella paura per il proprio corpo e la propria anima (si sa che il diavolo può far del male all’uno ed all’altra), invocarono, con preghiere ferventi, l’intervento della Madonna. La Madre celeste non mancò di rispondere alla supplica dei suoi figli e, scesa in un punto poco sopra la partenza della mulattiera, volse in fuga il demonio, che non si fece più vedere da quelle parti. Nel luogo dell’intervento miracoloso fu poi eretta una cappelletta (Capitèl de la Móta) in onore della Madonna, sulla quale era consuetudine, come segno di devozione o anche solo di scaramanzia, apporre la propria firma quando si passava di lì. Presso la cappelletta si vede ancora una pietra piatta che affiora dal terreno, di circa mezzo metro quadrato e di colore verde-grigiastro, con un incavo sulla sua superficie: si tratta dell’impronta che il diavolo lasciò quando venne cacciato dalla Madonna, forse perché la paura nei contadini di Sant’Antonio rimanesse sempre viva. Ma questi, per tutta risposta, costruirono la cappelletta che simboleggia l’eterna vittoria del bene sul male.
C'è però un'altra leggenda che spiega la presenza del misterioso masso con l'impronta. Raccontano, in quel di Sant'Antonio, che una volta, quando si saliva ai maggenghi per la mulattiera S. Antonio-Desì, i genitori, passando per quel punto, dicevano ai bambini: "Guardate, questa è l'impronta di S. Stefano. Mettete anche voi il piede nell'impronta che ha lasciato il santo". Cosa c'entra Santo Stefano con questi luoghi? La storia è un po' lunga, e va presa dall'inizio.
L'inizio è l'antichissima rivalità fra versante retico ed orobico, che troviamo diffusa un po' in tutta la media e bassa Valtellina. Nel nostro caso si fronteggiavano, è proprio il caso di dirlo, soprattutto Castello dell'Acqua e Chiuro (Castello, fino al 1858, dipendeva amministrativamente da Chiuro, pur mordendo, come si suol dire, il freno per avere piena autonomia). Ma la rivalità, evidentemente, si è estesa anche a Tresivio. Motivo della contesa era l'esistenza di due chiesette, sugli opposti versanti, ed a quota singolarmente analoga (poco sopra i 1700 metri) entrambe dedicate a Santo Stefano.
Evidentemente non potevano che avere una comune origine, e, nella fantasia popolare, l'origine fu la presenza del santo, sì, proprio di Santo Stefano in carne ed ossa. Ma, e qui nasce il problema, come e perché il santo passò da un versante all'altro?
In quel di Castello dell'Acqua la raccontano così (nella
raccolta “Storie e leggende dei nostri paesi”, curata, nel
1976, dalla classe IV B della scuola elementare di Chiuro sotto la guida
dell’insegnante Armida Bombardieri). Santo Stefano, come si sa, fu il primo martire; ma, prima di andare incontro al martirio per lapidazione in Terra Santa,
capitò in quel di Valtellina, per predicare il Vangelo. Non ebbe,
però, buona accoglienza nei paesi di fronte a Castello, sul versante
retico. Nessuno mise mano alle pietre, non era ancora la sua ora, ma,
insomma, venne più o meno cortesemente invitato a cambiare aria.
Raggiunse, allora, l’opposto versante, quello orobico, passando
per Castello dell’Acqua e proseguendo nella salita ai monti sopra
il centro del paese, dove poté finalmente trovare rifugio. Ma
i santi sono sempre in cammino, e lui li attraversò, quei monti,
sostando in diversi luoghi per riposare e per rifocillarsi, usando un
piccolo attrezzo, il “cazzett”, con il quale quagliava il
latte che il buon cuore dei contadini gli offriva. Operò
anche molti miracoli, nel periodo nel quale rimase, come eremita, in
quei luoghi ritirati: molti salirono fino a lui, ottenendo, come premio
per la loro fede, la guarigione dalle menomazioni che avevano loro imposto
grucce e stampelle. Ma la sua meta era la cime del monte sul lato opposto
della valle d’Arigna, il monte che ancora oggi reca il suo nome.
Per questo, un giorno, spiccò letteralmente il volo, raggiungendo
la media costa in località Briotti. Ma prima di spiccare il prodigioso
balzo verso il lato opposto della valle, il santo si fermò a
riposare su un sasso, imprimendovi il segno dei suoi piedi e del cazzett.
Era nei pressi dei prati di Pòrtola. Il santo lasciò i
luoghi, mentre il masso rimase, e con esso rimase anche la profezia
inquietante, che rivaleggia con quelle più famose di Nostradamus:
quando il terreno l’avrà ricoperto, il mondo terminerà.
In quel di Tresivio, invece, la raccontano a rovescio: Santo Stefano fu prima sul versante orobico, dal quale, evidentemente per la poca devozione della gente, spiccò un prodigioso balzo che lo fece atterrare proprio sul masso in questione, dove lasciò l'impronta del suo piede. Il masso gli servì solo come appoggio per spiccare un secondo prodigioso balzo, che lo portò direttamente alla pianetta dove ora si trova la chiesa di Santo Stefano, sulla mulattiera che sale da Boirolo all'alpe Rogneda. Qui rimase per qualche tempo, venerato dalla gente di Tresivio, prima di andare incontro al suo destino di martirio: "Meglio farsi tirare le pietre che fardi tirare la tunica da parti opposte in una contesa fra devoti e campanili", avrà pensato (ma forse questa è solo una malignità).
Ora, chi avrà ragione? Difficile dirlo. Così come è difficile dire dove sia esattamente il masso in questione. Percorrendo la mulattiera, poco sopra il "capitèl", là dove questa comincia a piegare a sinistra, si nota, sul suo limite di destra, un masso che reca sul dorso l'evidente segno di un incavo a forma di piede. E' l'unico, sulla mulattiera, a presentare tale segno.
Per andarlo a vedere possiamo regolarci così: salendo sulla strada per Prasomaso e Boirolo, oltrepassate le case della frazione Sant'Antonio (l'ultima che si trova sopra Tresivio) incontriamo una sequenza di tornanti dx-sx-dx-sx. Dopo quest'ultimo tornante, procediamo per breve tratto, fino al punto in cui la strada accenna ad una semicurva a destra: lì, sul lato destro, potremo notare la larga mulattiera, che sale da Sant'Antonio, taglia la strada e prosegue nella salita. Pochi metri oltre, sul lato sinistro, c'è uno slargo al quale possiamo lasciare l'automobile per salire a cercare il masso. La mulattiera sale abbastanza ripida e descrive un'ampia curca a sinistra, delimitata, sul lato sinistro, da un alto muro a secco di contenimento. Dopo la curva, troviamo, sul lato sinistro, la cappelletta e, alle sue spalle, un rudere di baita. In effetti possiamo vedere che le sue pareti sono interamente ricoperte di nomi. Una grata difende dalla mania degli autografomani il dipinto della Madonna con Bambino adorata da due santi, probabilmente San Francesco e Santa Caterina da Siena. In alto si legge: "Dignare me laudare te Virgo Sacrata - Da mihi virtutem contra hostes tuos", cioè "Degnami di lodarti, o Vergine consacrata - Dammi la virtù contro i tuoi nemici".
Alle spalle della cappelletta e del rudere di baita si trova oggi un bosco, ma un tempo c'erano prati coltivati, i prati del già citato Dòs di Móta. Da qualche parte, dunque, l' si trovava (oggi non si vede più) il cumulo di massi che la leggenda, come abbiamo visto, vuole sia stata la sepoltura del capo dell'orda di Goti che scese in valtellina dlal'alpe Rogneda.
Torniamo, ora, per offrire qualche analoga nota a chi volesse visitare i luoghi di queste leggende, al "risc del bau" ed al "Crap de la vegia": le possiamo, innanzitutto, trovare nel bel volume intitolato "Tresivio", edito
nel 1999 a cura dell'Amministrazione Comunale di Tresivio. Della leggenda
della volpe malefica, invece, possiamo leggere nella raccolta "C'era
una volta", edita nel 1994 a cura del Comune di Prata Camportaccio.
Non possiamo concludere, dunque, questo viaggio immaginario nei misteri di Tresivio
senza suggerire qualche spunto per qualche camminata reale. Lasciamo,
quindi, Tresivio, salendo verso Boirolo. Incontreremo ben presto la
frazione di Piedo, legata alla storia del Crap de la vegia: la bella
chiesetta di san Rocco si nota, a fianco della strada, ad un tornante
destrorso. Dopo 3 km dal centro di Tresivio, poi, raggiungiamo S. Abbondio
e, mezzo chilometro oltre, la chiesetta di S. Antonio.
La salita successiva, attraversato un bellissimo bosco di larici, porta
a Prasomaso, ad 8 km. Da Tresivio, dove si può vedere l’edificio
dell’ex sanatorio Umberto I, peraltro piuttosto malridotto. Qui
passa il Sentiero
del Sole, che taglia la strada appena oltre l’ultimo tornante
sinistrorso di Prasomaso. Seguendo i segnavia bianco-rossi, possiamo
effettuare due traversate: verso est (destra) la traversata della valle
di Rhon, fino a S. Maria Perlungo (sopra Montagna in Valtellina) verso
ovest (sinistra), quella della valle della Rogna, fino a Boirolo (sopra
Ponte in Valtellina), verso est (destra). In
entrambi i casi dobbiamo seguire con cura i segnavia, ed incontreremo,
soprattutto nella prima traversata, qualche passaggio che richiede attenzione.
Se, invece, proseguiamo sulla strada, approderemo allo splendido maggengo
di Boirolo, ad 11 km. Da Tresivio. I prati di Boirolo si stendono da
una quota di poco inferiore ai 1400 ad una quota di oltre 1500 metri.
Splendido è, da qui, il colpo d’occhio sulla catena orobica.
Dalla parte alta di Boirolo, dove dobbiamo lasciare l’automobile,
partono due itinerari possibili.
Sulla sinistra (ovest), raggiunte le baite più alte, troveremo
la partenza, segnalata da segnavia rosso-bianco-rossi, del sentiero
che sale ripido per un tratto all’aperto, entra poi in un bel
bosco, raggiunge in breve il cuore della valle della Rogna, ne attraversa
il torrente su un ponticello a quota 1670 metri, prosegue sul lato opposto
fino a raggiungere una pista sterrata che porta all’alpe Mara
(m. 1740), sopra Montagna in Valtellina: si tratta di una bellissima
e tranquilla traversata, effettuabile in un’ora circa.
Sulla destra della parte alta di Boirolo, invece, parte una pista che
sale all’alpe Rogneda, passando per la chiesetta di S. Stefano
(m. 1806), di origine medievale. Nei pressi della chiesetta si trova
anche il rifugio degli Alpini
di S. Stefano, in un bel poggio erboso, estremamente panoramico.
Il tratto successivo è quello legato alla leggenda del “risc
del bau”. Salendola,
incontreremo un crocifisso, che sembra esorcizzare l’eco luciferina
dei luoghi (estremamente luminosi, peraltro: ma Lucifero non significa
forse “portatore di luce”?), prima di raggiungere, dopo
qualche tratto ripido, la parte bassa dell’alpe, dove troviamo
un primo baitone (m. 2120). Proseguendo ancora per un tratto, raggiungiamo
il torrente Rogna. Abbiamo ora tre possibilità escursionistiche
di grande fascino.
Possiamo proseguire verso nord ovest, salendo alla casera alta dell’alpe
(m. 2244) ed alla bocchetta di Mara (m. 2342), ben visibile, sul lato
alto di sinistra dell’alpe. Dalla bocchetta, poi, possiamo scendere
verso l’alpe Mara, sopra Montagna in Valtellina. Scendendo a vista,
o su traccia di sentiero, intercetteremo, circa duecento metri più
in basso, una pista sterrata che porta al rifugio
Gugiatti-Sertorelli; seguendola in discesa, troveremo, un po’
più in basso, una seconda pista, che si stacca, sulla sinistra,
da quella principale, per salire ad un’evidente e facile sella
erbosa compresa fra il Dosso Liscio, a sinistra, ed il più modesto
Dosso Bruciato, a destra. Seguiamola ed imbocchiamo, oltre la sella,
il largo sentiero che taglia il fianco meridionale del Dosso Liscio
e che ci riporta alla parte bassa dell’alpe Rogneda: potremo,
così, chiudere uno splendido anello, tornando a Boirolo dopo
circa 4 ore e mezza di cammino (il dislivello in salita è di
circa 750 metri).
Dalla
sella possiamo anche, se abbiamo più tempo ed energie, salire
sul crinale del Dosso Liscio, godendo di un panorama davvero superbo.
Pochi minuti di cammino saranno, invece, sufficienti per salire alla
cima del Dosso Bruciato, anch’esso molto panoramico.
Torniamo alla parte bassa dell’alpe Rogneda, e precisamente al
primo baitone dell’alpe (m. 2120): da qui si può anche
salire verso nord est (destra), seguendo un sentiero che punta verso
il crinale che separa l’alpe Rogneda dalla valle di Rhon. Nella
salita si possono ammirare la Corna Nera, la Corna Brutana e la vetta
di Rhon. L’alpe Rogneda appare, poi, in tutta la sua ampiezza.
Il sentiero (o la salita a vista, non difficile) conduce ad una piccola
sella, sul limite della quale (verso sud, sinistra) si trova un modesto
manufatto, dal nome però davvero suggestivo: è la malridotta
Croce della Fine (m. 2390), segnalata dalle carte, che segna il limite
meridionale dello splendido dosso. Dalla sella particolarmente ampia
è la visuale sulle Orobie orientali.
Possiamo, quindi, salire per un buon tratto il crinale, fino alla bocchetta
di Rogneda meridionale (m. 2365), dalla quale si può agevolmente
scendere, sulla destra, in valle di Rhon. Se
scendiamo, invece, sulla sinistra, tornando all’alpe Rogneda,
e seguiamo per un tratto il piede del dosso, in salita, possiamo raggiungere
il laghetto di Rogneda (m. 2313), nascosto in una fascia di grandi massi. Possiamo, poii, scendere verso il centro dell’alpe (cioè
verso sud-ovest), puntando al baitone di quota 2244, dal quale torniamo,
facilmente, al baitone dal quale siamo partiti e, di qui a Boirolo,
dopo circa 4 ore di cammino, necessarie per superare un dislivello di
circa 800 metri. Si tratta di escursioni davvero splendide, soprattutto
nel periodo autunnale o tardo primaverile.
Oggi è anche la festa patronale di Cataeggio. La seguente carrellata di leggende è un omaggio al centro amministrativo della Val Masino.
La
Val Masino non ha bisogno di presentazioni: la sua bellezza, aspra ed
unica, la rende assai nota al popolo di coloro che amano la montagna
nei suoi diversi aspetti e risvolti. Qualche leggenda, però,
ci può aiutare a conoscerla meglio, nei suoi aspetti legati ad
un passato nel quale il moderno turismo non aveva ancora mutato sensibilmente
condizioni di vita dure e spesso improbe. Il racconto di queste leggende
segue il filo di un ideale viaggio che, dal fondovalle, ci porta nel
cuore della valle. Si accede ad essa staccandosi dalla ss. 38 all’altezza
di Ardenno ed imboccando la ex ss. 404, ora strada provinciale, della Val Masino che, attraversato
il nucleo abitato di Masino (frazione di Ardenno), si addentra nella
valle risalendo faticosamente il selvaggio fianco orientale della sua
gola terminale, sul cui fondo scorre il torrente Masino (èl fiöm).
E proprio a questo torrente è legata una prima leggenda. Nella
sua parte terminale, prima che esca dalla valle, si trova, infatti,
una serie di grandi massi, fra i quali uno spicca per le sue dimensioni.
Un masso portato fin qui in un tempo che affonda
le sue radici nel più remoto passato. La fantasia popolare vi
ha immaginato un covo di falsari, vagheggiando di un favoloso tesoro
nascosto in un antro di cui nessuno però, se non i falsari stessi,
conosceva l’accesso. E si dice, ancora, che i falsari non ci siano
più, ma il tesoro sia rimasto lì, nascosto chissà
dove, sotto il masso dei falsari.
Il masso è, però, legato anche ad una storia diversa,
anche se non meno fantasiosa, la storia della “màta
selvàdega”, o “màta salvàdega”,
cioè della matta selvatica, donna terribile che viveva sola,
spauracchio dei bambini disobbedienti. A detta delle nonne, questa megera,
brutta più della fame, trasandata e malvagia, amava rapire e
bollire in un gran calderone tutti i bambini che riusciva a sorprendere
fuori di casa dopo il tramonto. La sua dimora era, appunto, l’enorme
masso piantato nel letto del torrente Masino (èl fiöm).
Sempre a Masino viveva un tale che passò la sua infanzia nel
terrore per questa donna: quante volte, dopo aver combinato qualche
marachella, era stato preso dalla paura che la màta salvadega
venisse, nel cuore della notte, e se lo portasse via! Poi, man mano
che la sua età e la sua forza crescevano, la paura diminuì,
ma gli rimase dentro un senso di risentimento e di fastidio per questa
figura che aveva tormentato come un’ombra minacciosa la sua infanzia.
Decise, allora, di toglierla di mezzo. Si caricò sulle spalle
una brenta di vino e si avviò verso il grande masso che la temibile
donna aveva scelto come dimora. Quando la vide, ne ebbe più ribrezzo
che paura, ma lo vinse e,
fingendo grande affabilità, le chiese se volesse bere. Questa,
dopo averlo guardato con quegli occhietti spiritati dai quali traspariva
tutta la sua follia, per tutta risposta si mise a sghignazzare, e spiccò
un balzo prodigioso. Per un attimo il nostro temette di vedersela piombare
addosso, ma la matta si infilò proprio dentro la brenta (non
era un donnone!) e cominciò avidamente a bersi quel buon vino.
L’uomo, allora, colse al volo l’occasione e spinse la brenta
nel torrente. Sparirono, così, nei gorghi impetuosi del torrente
Masino, brenta vino e vecchia. Rimasero, all’anonimo audace, l’orgoglio
per aver fatto giustizia, ma anche il rimpianto per il vino perso e
la brenta sprecata.
A noi, invece, rimane parecchia strada da fare prima di raggiungere
il cuore della valle. Proseguiamo, dunque, sulla ex ss. 404, ora strada provinciale,, fino al Ponte
del Baffo (6 km da Ardenno), dove ci raggiunge, da sinistra, la strada
della Val Portola, che proviene dal limite orientale della Costiera
dei Cech e scende dal paesino di Cevo (termine che deriva da "clivus", pendio della montagna, o dal celtico "ceva", "vacca"), posto all’imbocco della valle di Spluga. È, quest’ultima, la prima laterale occidentale
della Val Masino, un ampio anfiteatro glaciale che colpisce, per la
sua bellezza solitaria e selvaggia, coloro che non temono di sobbarcarsi
la fatica di una camminata di 3-4 ore (nessuna strada, infatti, vi si
addentra). Un tempo la valle era molto più frequentata, per i
suoi pregiati alpeggi.
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E fu, per molto tempo, lo scenario delle ribalderie di una curiosa figura
di “striùn”, cioè di stregone, chiamato ”om
cui pè de caval”, l’uomo con i piedi da
cavallo. Viveva, in quel di Dazio, in un tempo di cui appena si conserva
la memoria, un uomo che aveva
avuto in sorte, al posto dei piedi, un paio di grossi zoccoli in tutto
e per tutto identici a quelli dei cavalli. Con estremità di quel
genere, non c’era calzatura che potesse indossare, per cui era
costretto ad andarsene in giro mostrando quei rumorosi e comici zoccoli.
In breve era diventato lo zimbello di tutti, e ciò l’aveva
indotto a nascondersi nei boschi, a fuggire la gente. La solitudine
l’aveva inselvatichito ed incattivito. Si era fatto anche brutto
a vedersi, ricoperto di un pelo ispido e di una barba incolta.
Alla fine, per tutti fu semplicemente lo stregone. Uno stregone cattivo,
che lanciava occhiatacce sinistre a chiunque si imbattesse sul suo cammino,
e che si aggirava, senza fissa dimora, non solo nei boschi della Colmen,
ma anche in quelli sopra Dazio e nella Valle di Spluga. Aveva preso
di mira soprattutto le donne, probabilmente per il risentimento che
nutriva nei loro confronti, lui che, a causa dell’aspetto, non
ne aveva mai trovata una che l’avesse degnato di uno sguardo.
Si appostava, quindi, per cercare di sorprenderne qualcuna sola, e la
spaventava con parole e scherzi volgari, scurrili. Ben presto divenne
il terrore del gentil sesso in tutta
la zona. D’estate, in particolare, imperversava negli alpeggi
della Valle di Spluga, all’alpe Cavislone ("cavislùn"), all’alpe Desenigo
ed a quella di Spluga, prendendo di mira ragazze e donne che, da Biolo,
Piazzalunga e Cevo vi si recavano, soprattutto alla fine della stagione,
quando dovevano andare in cerca delle capre, per recuperarle.
Non se ne poteva più. Per porre fine a questo tormento, alcune
donne decisero di recarsi da un santo eremita, che da molti anni viveva
di rinunce e preghiere al “Purscelin”, la località
Porcellino, posta e mezza costa sul fianco meridionale della Colmen.
Lo trovarono intento alla preghiera, e non osarono rivolgergli la parola
prima che l’avesse terminata. Esposero, quindi, il motivo della
loro angoscia. Il santo eremita stette qualche istante come immerso
in una profonda meditazione, poi disse: “L’uomo con il quale
avete a che fare non è un uomo comune, ma si è votato
al male e la sua anima è del Maligno. Non potrete liberarvi di
lui se non con la forza della fede, e per farlo dovrete recitare un
rosario quando passerete nei luoghi dove può sorprendervi. E
se lo vedrete, gli mostrerete la corona ed il crocifisso che porterete
sempre con voi. In questo modo non potrà farvi alcun male”.
Così fecero. Armate di corona e crocifisso, salirono agli alpeggi,
attendendo lo stregone con i piedi di cavallo. E questi non si fece
attendere: balzò fuori per oltraggiare una di loro, che, recitando
Ave Marie, saliva su una balza alla ricerca delle sue capre; costei,
pronta, gli mostrò corona e crocifisso, che teneva nell’una
e nell’altra mano. L’effetto fu immediato: come folgorato,
lo stregone fu scosso da un tremito, indietreggiò, bestemmiò,
fuggì nel cuore dei boschi, che parvero inghiottirlo. Da allora
non fu più visto. In segno
di ringraziamento fu, allora, edificata, nei pressi del Ponte del Baffo,
in Val Masino, ad un tornante della strada che sale da questa località
a Cevo, una cappelletta. Il timore dello stregone si conservò
per molto tempo, e, con esso, la consuetudine, ancora viva fra le donne
fino a non molto tempo fa, di recitare il rosario alla cappelletta e
di salire agli alpeggi della Valle di Spluga con il rosario a portata
di mano.
Bene, proseguiamo lungo la ex ss. 404, ora strada provinciale,, in direzione del centro amministrativo
della Val Masino, Cataeggio ("cataöcc"), a 10 km da Ardenno. Prima di Cataeggio (cata(i)öc’),
incontriamo la piccola frazione di S. Antonio, un tempo assai più
popolata di quanto sia oggi. La leggenda della povera vedova
e del mendicante, legata a questa frazione, rende assai bene
l’idea delle misere condizioni di vita cui la magra economia contadina
inchiodata gran parte della popolazione nei secoli passati. Misere fra
le più misere erano quelle famiglie che non potevano contare
sull’apporto economico di un uomo adulto, ma si reggevano sulle
fatiche di quelle vedove che vivevano in larga misura del buon cuore
della gente.
Una di queste vedove, madre di diversi figli di età ancora piccola,
viveva alla giornata, di quel che il suo modesto lavoro e la carità
delle altre famiglie poteva offrire. Ma vennero tempi ancora più
duri, e la donna perse il lavoro ed i magri proventi della generosità
altrui. Finirono le povere scorte di cibo, finì la speranza,
la vedova ed i figli erano prossimi alla morte per fame. Bussò,
allora, una triste sera, all’uscio della sua casa un “poverèt”,
cioè un mendicante. Aprì, la donna, ed ascoltò
la sua richiesta di elemosina: nel suo
grande cuore si rammaricò, sinceramente, di non aver nulla da
dare, se non il tepore del fuoco che ardeva nel caminetto e sembrava
mandare, anch’esso, una luce sempre più mesta e fioca.
Il mendicante entrò in cucina, ringraziò per il buon cuore,
e gettò uno sguardo pietoso sui bambini che stavano quasi accasciati,
come sacchi vuoti, intorno al focolare. “Ne avete ancora di legna
sufficiente per far bollire una pentola d’acqua?” chiese.
“Di legna ce n’è ancora, per un po’, di acqua
da far bollire ce n’è fin che si vuole, quel che manca
è qualcosa da mettere a bollire” rispose, amara, la donna.
“Metteteci dei sassi, quando bolle”, replicò il mendicante.
Rimase per un attimo perplessa, la povera vedova, ma poi obbedì:
non aveva nulla da perdere, e poi quel mendicante sembrava persona troppo
seria per prendere in giro la povera gente. Quando l’acqua cominciò
a bollire, vi mise un gran numero di ciottoli che aveva raccolto presso
l’uscio. Attese un bel pezzo (ce ne vuole, per cuocere i sassi,
pensò), poi li cercò con il mestolo. Ma nel mestolo fumante
che uscì dalla pentola non c’erano ciottoli, bensì
due grosse patate fumanti: tutti i sassi si erano trasformati in patate.
Alla donna vennero le lacrime agli occhi per la sorpresa e la commozione:
si volse, subito, per ringraziare il mendicante, ma questi non c’era
più. “E' sant'Antonio, è sant'Antonio che ha fatto il miracolo!”,
pensò la donna.
La sua storia fece presto il giro del paese, e fu, per tutti, un segno
della speranza e della fede che non debbono venir mai meno, neppure
nelle più aspre difficoltà.
A proposito di povertà, ascoltate anche questa storia, davvero istruttiva per comprendere le condizioni in cui si viveva nei secoli passati in Val Masino. Due giovani, a coronamento del loro amore, si sposano. Ma non c’è tempo né ci sono risorse per festeggiamenti o viaggio di nozze: quel giorno stesso si incamminano alla volta della “val de sciömfreghè”, sugli aspri fianchi del monte Piezza (sciöma da pièsa), vicino a Cataeggio, per falciare fieno selvatico. Li sorprende un violento temporale, e trovano riparo nell’anfratto di un grosso masso. Siccome il temporale non accenna a placarsi, sono costretti a passare lì la notte, la prima notte di nozze. Da allora quell’anfratto prende il nome di “camarél de la mala nocc”. La singolare storia fa il giro della valle, e molti si sbizzarriscono nella ricerca della spiegazione di un fatto così singolare. La spiegazione più accreditata è questa: un pretendente respinto dalla giovane ha attirato sulla coppia la malasorte. Ma i novelli sposini non si inquietano più di tanto: quel che conta è portare a casa il prezioso fieno!
Insieme alla miseria (spesso, anzi, frutto di questa), era la paura a farla da padrona nei secoli passati.
La paura dei “ciarìn” (le luci misteriose
che, a sera fatta, si vedevano nei luoghi solitari e venivano interpretati
come segni della presenza di anime inquiete, condannate a vagare senza
pace), la paura del “se sent” (quei rumori
inspiegabili che si sentivano nel cuore
dei boschi, ma anche nelle case, anch’essi interpretati come segni
prodotti da anime senza pace, fantasmi, spiriti cattivi), la paura di
“strìi” e “striùn”
(streghe e stregoni, che uscivano dai loro nascondigli dopo l’Ave
Maria della sera per insidiare i cristiani e portar via i bambini):
proprio di S. Antonio era originaria la povera Giannina Iobizzi, accusata,
più di tre secoli or sono, di essere una fattucchiera.
Non possono mancare, per completare il quadro della paura, i fantasmi, cioè, come nella più classica tradizione, le anime in pena, condannate a non aver pace dopo la morte. Il più famoso fantasma è quello che, assicurano i pastori che caricano da secoli l’alpeggio di Sceroia (sul lato sud-occidentale dell’amplissimo anfiteatro della Val Porcellizzo), è stato condannato dalla giustizia divina a girovagare, con il suo cavallo, fra le balze dell’alpe, e soprattutto alla córt dè la mal pensèda, presso la val de fenènza (che segnava il confine fra le alpi Sceroia e Porcellizzo). Si tratta di una variante del tema dei cunfinàa, anime relegate a scontare la propria pena nei luoghi più remoti delle montagne di Valtellina. Ma di cosa si rese colpevole l’infelice? Aveva spostato il confine legittimo a favore dei proprietari dell’alpe Sceroia (di Piussogno), danneggiando quelli del Porcellizzo. Insomma, aveva fatto una “mal pensèda”, architettando un piano malvagio ed improvvido. Ancora oggi, infatti, mandrie e mandriani della Sceroia pagano l’antico imbroglio, perché nelle notti in cui il silenzio si fa più cupo e sinistro d’improvviso si odono lo scalpitio del cavallo ed il lugubre lamento dell’infelice, che fanno accapponare la pelle agli uomini e rendono le bestie inquiete.
Fra le misteriose presenza di cui è popolata la valle va annoverata anche quella del fulèt, essere dispettoso per eccellenza, inafferrabile artefice di burle che spesso non sono prive di conseguenze negative per i poveri contadini. In particolare, pare che si accanisse contro le capre, spingendole giù dai dirupi sul ciglio dei quali questi animali, per loro natura incuranti del pericolo, si attardano. Per scongiurare questa iattura le donne di Val Masino solevano far brucare alle capre le foglie di un ramoscello d'ulivo, simbolo di pace: il fulèt, forse commosso per il gesto, si asteneva allora dal recare loro danno.
Poco sopra Cataeggio, nella frazione di Filorera ("felorèra"), dopo la strettoia
sorvegliata dalla chiesetta di S. Gaetano, la valle si biforca: il ramo
occidentale è costituito dalla Valle di Sasso Bisolo ("sas besö") e, nella
sua parte più alta, dalla Valle di Preda Rossa, mentre quello
occidentale è quello principale della Val Masino, fino a San Martino ("san martìn"). Saliamo fino alla splendida valle di Preda Rossa, alla piana
omonima, che si stende quasi ai piedi del Monte Disgrazia ("desgràzia"). Sono, questi,
i luoghi di una delle più celebri leggende di Valtellina, la leggenda dei Corni Bruciati (conosciuta anche come
leggenda del Monte Disgrazia).
Un tempo i Corni Bruciati non erano, come ora, desolate torri di roccia
rossastra, ma bei pizzi alle cui falde si stendevano, nelle valli Preda
Rossa e Terzana, splendide pinete e pascoli rigogliosi. Vi giunse, un
giorno, un mendicante lacero ed affamato, che si rivolse, per essere
ristorato, a due pastori, l’uno di animo buono, il secondo di
animo gretto e malvagio. Quest’ultimo lo schernì e gli
disse che poteva offrirgli solo gli avanzi del cane, mentre il primo
ne ebbe pietà, lo rifocillò e gli cedette il giaciglio
per la notte. Il mattino seguente il mendicante prese in disparte il
pastore buono e gli ordinò di lasciare subito Preda Rossa per
salire all’alpe Scermendone (che si affaccia sulla media Valtellina)
e di tornare a Buglio, senza mai voltarsi, qualunque cosa avesse sentito
alle sue spalle. Il pastore vide il suo aspetto trasfigurarsi, divenendo
luminoso e maestoso, e capì che si trattava del Signore, per
cui obbedì senza indugio.
Lasciata
Preda Rossa, cominciò a sentire alle proprie spalle un gran fragore,
grida, rumore di piante e massi che rovinavano a valle, ma proseguì
il cammino, ricordandosi dell’ingiunzione del Signore. Quando,
però, ebbe raggiunto il crinale di Scermendone alto, presso la
chiesetta dedicata alla venerazione dell'eremita San Cères (San
Quirico), non resistette, volse lo sguardo. Fece appena in tempo a vedere
uno spettacolo apocalittico, un rogo immane che divorava i boschi, ma,
ancora di più, la stessa montagna, che si sgretolava e perdeva
enormi massi, i quali precipitavano, incandescenti, a valle. Vide solo
per un istante, perché fu subito accecato da due scintille, che
lo avevano seguito.
Pregò, allora, il Signore che lo perdonasse per la disobbedienza,
e questi lo esaudì, chiedendogli di battere il piede contro il
terreno e di bagnare gli occhi all’acqua della sorgente che sarebbe
da lì scaturita. Fece così, e riebbe la vista, tornando
a Buglio a raccontare i fatti tremendi di cui era stato testimone. Da
allora il fianco di sud-est della Valle di Preda Rossa e quello settentrionale
della Val Terzana restano come desolato monito che ricorda agli uomini
l’inesorabilità della punizione divina per la loro malvagità.
Ma torniamo a Filorera e proseguiamo verso il cuore della valle, fino
alla splendida piana della Zocca, in fondo alla quale sta San Martino,
a 13 km e mezzo da Ardenno. Siamo nel regno del mitico “Gigiàt”,
l’animale fantastico che è un po’ una gloria locale,
il simbolo di una comunità montana che ha difettato, per tanti
secoli, di mezzi materiali, ma non certo di fantasia. Secondo le fonti
più accreditate, che fanno capo ai due rifugi Gianetti ed Allievi,
l’habitat dell’animale è rigorosamente circoscritto
alle valli Porcellizzo, del Ferro, Qualido e di Zocca, ma la questione
è controversa. Il problema sta nelle fonti: ben pochi possono affermare credibilmente di averlo visto, e coloro che ne parlano lo descrivono in termini diversi. Le più accreditate fonti sono sicuramente le guide alpine, gli storici gestori dei rifugi di Val Masino, che da oltre un secolo narrano le sue gesta nelle serate di veglia.
Secondo alcuni l’habitat estivo dell’animale è rigorosamente circoscritto alle valli Porcellizzo, del Ferro, Qualido e di Zocca, ma la questione è controversa, perché altri lo estendono anche a sud-ovest, cioè alla valle dell’Oro, della Merdarola e di Spluga, e ad est, cioè alle valli Torrone, Cameraccio e di Preda Rossa, affermando che i Corni Bruciati rappresentano il limite orientale del suo territorio. Pare abbastanza certo che d’inverno scenda sul fondovalle, anche se, per la sua grande rapidità, non viene mai avvistato, se non è lui che lo vuole.
Non è certissimo neppure di che animale si tratti: probabilmente è un incrocio fra un caprone ed un camoscio (o stambecco), dal pelo lunghissimo (che si fa tosare ogni primavera) e dalle dimensioni gigantesche, tanto da poter attraversare un’intera valle con pochi balzi. L’aspetto più enigmatico di tutta la faccenda, però, è che, nonostante le sue dimensioni, ben pochi riescono ad avvistarlo, fondamentalmente solo le guide alpine. Altri dicono che non sia poi così gigantesco. In ogni caso il suo identikit ce lo rappresenta con una testa di dimensioni sproporzionate rispetto al corpo, con un naso schiacciato e lunghe corna; le zampe anteriori sono fornite di unghioni, le posteriori di zoccoli prensili; il pelo lungo ed arruffato emana un insopportabile puzzo di caprone selvatico.
Tutti sono d’accordo sulla sua straordinaria agilità: in alta montagna si muove con una destrezza ed una sicurezza senza eguali, salta da una cengia all’altra, volteggia sui ghiacciai, corre verso i precipizi e si ferma bruscamente proprio sul ciglio, sembra farsi beffe delle leggi della gravità e dell’equilibrio. Unisce alla destrezza un’incredibile resistenza: non è mai stanco, non è mai fermo.
Un episodio, fra tanti, può darci un’idea di come sia veramente il re di queste montagne. Lo raccontò, mito che racconta un mito, la guida alpina Giacomo Fiorelli, custode del rifugio Gianetti agli inizi del novecento. Egli soleva scalare le montagna a piedi nudi, anche con le condizioni ambientali più severe. Una volta gli capitò di attraversare l’ultima cengia prima della vetta del pizzo Badile, che era un po’ come la sua seconda casa. Ma fu tradito dal ghiaccio, e scivolò. Sarebbe precipitato, se non fosse riuscito ad aggrapparsi ad uno spuntone di roccia. Si ritrovò, così, sospeso sul precipizio, senza potersi trarre d’impaccio, perché non aveva altri appigli per mani e piedi. Venne, allora, il gigiàt; ne sentì l’odore prima ancora che il rumore degli zoccoli rapidi e sicuro su qualunque terreno; venne e si pose appena sopra di lui. Sentì il suo lungo vello carezzargli il volto contratto per la tensione. Fu un attimo: lasciò lo spuntone e si aggrappò con tutto il peso del corpo al suo pelo, tirandosi su con la sola forza delle braccia. Era salvo, e doveva la sua salvezza all’animale, che però, prima ancora che avesse il tempo di realizzare quanto era accaduto, si era sottratto alla sua vista.
Da questo, e da molti altri episodi, si può evincere che la natura del gigiàt è profondamente buona. Ma la cosa non è così semplice: gli attribuiscono pure la terrificante la consuetudine di integrare la sua dieta, fondamentalmente vegetariana, con qualche pasto a base di escursionisti o alpinisti solitari, sorpresi ad addentrarsi nei suoi remoti territori.
Come conciliare questi due aspetti? Una chiave di lettura della sua natura apparentemente contraddittoria ce la fornisce un murales ben visibile a San Martino, su una casa che si trova, sulla destra, al suo ingresso. Vicino alla rappresentazione fantastica dell’animale, si legge: “El Gigiat, nume tutelare de esta splendida valle. Buono con lo homo che natura rispetta, mala sorte a chi lo trovasse non rispettoso. Onori et gloria a chi el vedesse e notizia ne desse…”. Dunque, animale fantastico sì, ma non bestia, anzi, quasi espressione di un’arcaica saggezza e giustizia, che non fa male al buono, ma punisce il malvagio. Per questo è non solo temuto, ma anche rispettato: è ancor viva la consuetudine di lasciare, d’inverno, un po’ di fieno nei prati, perché possa sfamarsi.
Occorre però dar conto, per amore d’onestà, anche delle versioni più scettiche della storia del Gigiàt. Si dice che all'origine della credenza del Gigiàt vi sia una colossale burla, ai danni di un ricchissimo e stravagante conte morbegnese, che si vantava di aver raccolto nella sua dimora tutto quanto di più curioso e raro la terra di Valtellina potesse offrire. Autori della burla due abitanti di San Martino, che gli dissero di aver visto, nei pressi del pizzo Badile, un animale spaventoso, enorme, dal pelo caprino lunghissimo e nero e dalle narici vomitanti fiamme. Il conte arse allora dal desiderio di poter arricchire la sua raccolta di rarità catturando quell'animale prodigioso, ed anticipò una cospicua somma di denaro ai due, purché si impegnassero a catturarlo. E' facile intuire quel che accadde: del Gigiàt e dei due non si vide più neppure l'ombra, e da allora sono trascorsi due secoli buoni, senza che nessuno abbia saputo portare prove attendibili sull'esistenza del fantomatico animale. Questo dicono gli scettici.
A questi si contrappongono coloro che difendono a spada tratta l’esistenza del miticoo animale. Costoro affermano che, nel secolo scorso, ne venne catturato un esemplare, che tuttavia non sopravvisse molto alla cattività: portato a Morbegno per essere esibito alla cittadinanza incredula, non tollerò il clima del fondovalle e morì di raffreddore. Fine tristissima per un campione del clima più rigido e severo dell’alta montagna!
Una seconda versione parla non di morte, ma di liberazione: l’animale, infatti, si mostrò del tutto insofferente alla cattività, si ribellò, cominciò a tirare calci a destra e a manca, inducendo le guide alpine che l’avevano portato a Morbegno a restituirlo ai suoi monti. Sì, perché forse il tratto più caratteristico del gigiàt è il suo profondissimo amore per la libertà, la sua vitalità, il suo bisogno rimuoversi, la sua natura inquieta e anche dispettosa: pare, infatti, che ami partecipare alle danze delle marmotte ed oscillare sui rami degli alberi con gli scoiattoli.
Dopo tanti “si dice”, ecco un fatto certo ed attestato. Al Carnevale di Morbegno del 1956 sfilò, infatti, fra la sorpresa e l’ilarità di tutti, un esemplare di Gigiat incatenato e condotto da due abitanti di S. Martino, che volevano, così, assestare un sonoro schiaffo morale a tutti quei Morbegnesi che, prendendo spunto dall’episodio sopra narrato, andavano dicendo, dei “Valöcc” (cioè degli abitanti di Val Masino), che sono persone inaffidabili. Ecco, costoro dovevano ora ricredersi: alla fine l’animale, catturato, era stato portato a Morbegno, come qualche generazione prima era stato promesso. Si trattava, in realtà, di un asino ricoperto di pelli, condotto da un cacciatore con il fucile di legno e da un aiutante, che tentò, anche, di mungerlo. Fra le risate di tutti, la mungitura non riuscì, perché il freddo aveva congelato il latte nelle mammelle (ovviamente posticce). Senza scomporsi, però, l’aiutante corse a comperare del latte appena munto e lo inserì nelle finte mammelle: alla fine anche il latte del Gigiat venne, così, pubblicamente munto.
Rimase, a ricordo dell’epica impresa, una poesiola in dialetto, riportata nel bel libro di Mario Songini “La Val Masino e la sua gente” (aprile 2006): “L’è scià el Gigiàt de San martìn/l’è ‘na bestia düra/che a tüti la fa pagüra./L’em ciapä e encatenä/e a Murbegn, al carnevä,/l’em portä./El so lac ‘l’è tant fregè/che senza el quac’ al sé quagè” (E’ qui il Gigiàt di San Martino ("san martìn")/è una bestia dura/che a tutti fa paura./Lo abbiamo preso e incatenato/e a Morbegno, al carnevale,/l’abbiamo portato./Il suo latte è tanto raffreddato/che senza il caglio è cagliato”).
A San Martino ("san martìn") la valle, per la seconda volta, si biforca: il ramo orientale
è costituito dalla Valle di Mello, mentre quello occidentale
è costituito dalla Valle dei Bagni di Masino ("val dei bagn"), che prende il nome
dalla presenza della celebre stazione termale. Procediamo verso i Bagni,
dove la strada termina, a poco più di 3 km e mezzo da S. Martino.
Superato su un ponte il torrente Masino (èl fiöm), alla nostra destra troviamo
l’antico edificio dei Bagni, costruito nel 1832 a partire da un
preesistente nucleo in legno che risale al secolo XVII, quando si sentì
la necessità di offrire un ricovero confortevole alle numerose
dame che raggiungevano l’allora isolata e remota valle per avvalersi
delle proprietà curative delle acque termali. A queste ultime,
infatti, non ai paesaggi alpini è legata la fama storica della
valle: l’interesse alpinistico per le cime del gruppo del Màsino
è assai recente (data dagli anni
Sessanta dell’Ottocento), mentre fin dall’antichità
questi luoghi accoglievano visitatori che potevano permettersi il costo
del viaggio e desideravano curare affezioni dell’apparato respiratorio
o gastro-intestinale con l’acqua termale, che sgorga da una fonte
alle spalle dei Bagni vecchi ad una temperatura costante di 38 gradi
(e che aveva fama di curare anche i problemi di sterilità femminile).
Il nuovo Hotel dei Bagni, unito al vecchio edificio da una passerella
di legno sopraelevata, risale invece al 1883.
Fin qui la storia. Esiste, però, anche una curiosa storia
che racconta come venne scoperta la preziosa sorgente termale dei Bagni.
Il merito, sembra, va ascritto ad una mucca, che, quando veniva portata
con il resto della mandria, sulla riva del torrente Masino (èl fiöm), perché
si abbeverasse, a differenza delle altre non immergeva il muso nelle
fredde acque, ma guadava il torrente e spariva nel bosco sulla riva
opposta. Notò questo curioso comportamento il pastore, che non
sapeva darsene una spiegazione. Alla fine decise di seguirla, per scoprire
il mistero, e la vide risalire per un breve tratto il bosco di faggi,
fino al ripido versante roccioso che delimita la valle. E proprio dalla
roccia sgorgava una piccola sorgente, alla quale la mucca si abbeverava,
per poi tornare verso il torrente con aria a dir poco soddisfatta. Il
pastore si avvicinò, a sua volta, alla sorgente, dalla quale
rampollava, con sua grande sorpresa, acqua calda.
Più e più volte, per il resto dei suoi giorni, si domandò
il motivo di quello stranissimo fenomeno, e soprattutto dei suoi effetti
sulla mucca, che, fra tutte, era la più sana e la più
generosa nel produrre latte. Non venne la risposta, ma venne la notorietà
del luogo, che si diffuse, poi, fino alle più remore lande, recando
notizia di una valle che, senza quella piccola fonte, sarebbe rimasta
sconosciuta e nascosta fra i suoi bastioni di granito fino ad un’epoca
molto vicina ai giorni nostri.
Nella pregevole raccolta "Costumi e proverbi valtellinesi" (Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002), di Omero Franceschi e Giuseppina Lombardini, troviamo, infine, questa descrizione del costume tradizionale di Valmasino:
“E passiamo alla foggia di vestire della donna di Valmasino. La stranezza di questo costume è assai grande e fa pensare subito che, scostandosi assaissimo dagli altri della vallata, di Grosio, di Montagna, di Delebio, possa aver origini tutto affatto diverse. E' da notare intanto che Valmasino è Comune tutto internato in una valle laterale della Valtellina, mentre Grosio, Montagna e Delebio sono proprio nel piano o quasi della Vallata principale.
Il vestito è costituito principalmente da una gonna grossolana, scura, pesante e larga che è allacciata sotto le ascelle e sul davanti appoggia al di sopra del petto coprendolo e facendo capo, con specie di bretelle, alle spalle. Detta gonna chiamasi el rass o el cotin. Un grembiule pur esso in tale guisa allacciato pende sul davanti: un largo collare bianco e ricamato della camicia incornicia il collo come una specie di bavero; una cuffia di velo bianco detta oèla raccoglie e copre tutta la capigliatura.
Le spose, data la forma del vestire, allattano tenendo il bambino sotto il grembiule.
L'astuccio che si vede pendere al fianco della figura contiene l'agoraio, il filo ed il ditale, fedeli compagni della contadina durante i lunghi viaggi alla montagna.
A completare il vestito dobbiamo ricordare il piccolo corpetto, detto i manich, appunto perchè la parte principale di esso è costituita dalle maniche, le scarpe di stoffa (pedü), la tsinta che è una cintura alta 5 cm. e più spesso di velluto bleu ricamato e con filettature d'oro. Per ultimo abbiamo la pezza che è un rimesso di lana solitamente rosso scarlatta che copre il petto e fa bella mostra di sè con ricami in verde e oro.
Nel vestire da uomo non vi è nulla di notevole: diremo meglio, che vero costume da uomo non esiste."
Oggi è anche la festa patronale di Morbegno. La seguente carrellata di leggende è un omaggio al centro più illustre della bassa Valtellina.
Fantasmi: da sempre, questo termine è sinonimo di paura. Freud spiegava che la paura che gli uomini hanno dei fantasmi di persone defunte ha, come radice inconscia, il senso di colpe nei loro confronti. Può essere. Quel che è certo è che leggende e storie di fantasmi popolano le più diverse culture e, nella maggior parte dei casi, si riconducono a vicende che hanno come protagoniste anime in pena, che visitano il mondo dei vivi perché, per diversi motivi, non sono con questo riconciliate. Anime che talvolta si limitano ad incutere terrore, ma altre volte hanno la volontà ed il potere di arrecare danni maggiori, ed addirittura di portare via con sé i vivi.
Nel territorio del comune di Morbegno, capoluogo dell’antico terziere della bassa Valtellina, ci sono alcuni luoghi che si connettono con il tema dei fantasmi. Due di questi sono all’imbocco delle valli del Bitto, quella di Gerola e quella di Albaredo (albarée). Partiamo dalla valle più occidentale, la Val Gerola. L’antica mulattiera che la risale parte appena al di là del ponte più alto sul Bitto, quello sorvegliato dalla statua di san Giovanni Nepomucéno, protettore della città dalle piene rabbiose del Bitto. Varcato il ponte da est ad ovest, troviamo subito, sulla sinistra, il vicolo Nani, imboccato il quale ci troviamo, ben presto, sulla ripida mulattiera che sale non lontano dal fianco occidentale della valle.
Dopo il primo severo strappo, intercettiamo una stradina asfaltata che parte, sulla sinistra, in corrispondenza dell’inizio della strada statale 404 della Val Gerola.
La stradina, con fondo lastricato, prosegue con un andamento meno ripido e ci porta ai ruderi delle case della località san Carlo, a 385 metri. Troviamo, fra i ruderi, anche una chiesetta secentesca. Proprio a questo luogo è legata un’antica leggenda. Pare che, dopo l’imbrunire, il viandante si possa imbattere in una misteriosa fiammella, la forma meno paurosa, ma non priva di elementi inquietanti, della presenza di un’anima defunta. Con espressione dialettale è stata battezzata “ciarìn de san Carlu”, e non pare avere un comportamento minaccioso: non si avvicina ai vivi, ed, anzi, tende a sfuggire alla loro curiosità, allontanandosi da quanti cerchino di vederla più da vicino. Queste apparizioni avvengono soprattutto nelle notti d’estate, ed hanno dato vita a diverse spiegazioni. La più accreditata si ispira alla natura dei luoghi, densi di spessore storico.
Pochi metri più avanti, al primo tornante destrorso, è possibile vedere ancora, infatti, a sinistra, su un modesto terrazzo prativo di forte suggestione panoramica, i miseri resti di una torre medievale (citata, ai tempi della sua visita pastorale in Valtellina, dal morbegnese e Vescovo di Como Feliciano Ninguarda, nel 1589). Più in alto, sulla mulattiera, oltrepassata la panoramica selva Maloberti (punto di sosta attrezzato), siamo, poi, a Campione (m. 580), località legata alla figura dell’eroina rinascimentale Bona Lombarda. Si trattava di una semplice contadina, di cui si innamorò il capitano Pietro Brunoro, che militava nell’esercito del Ducato di Milano (allora signoria dei Visconti), guidato dal capitano di ventura Niccolò Piccinino e dal valtellinese Stefano Quadrio, esercito che aveva appena sconfitto quello veneziano nella battaglia di Delebio (1432). I due si sposarono nella chiesa di Sacco e la moglie seguì poi il capitano, di origine parmense, nelle sue peregrinazioni legate alla compagnia di ventura per la quale militava. Fin qui niente di strano: ciò che, però, rese quasi leggendaria la figura della donna fu la pratica delle armi, nella quale, affiancando il marito, si distinse per coraggio e valore.
Ebbene: secondo i più, la fiammella sarebbe proprio la manifestazione visibile della sua anima, che torna ai luoghi eternamente legati a quel primo innamoramento che resta, fra i ricordi di un’esistenza, probabilmente il più caro. Una versione, quindi, assai romantica.
Ne esistono, però, di ben più sinistre. Secondo altri, infatti, la fiammella sarebbe un’anima in pena. Raccontano, inoltre, che in questi luoghi si siano visti anche fantasmi di sacerdoti celebrare la Messa, chiedendo ai malcapitati viandanti, impietriti per il terrore, di servire l’inquietante liturgia. Chi ha ragione? Non c’è altro modo di sciogliere l’arcano dilemma se non quello di percorrere la mulattiera, a sera calata, dal vicolo Nani alla statale 404, che intercetta poco sopra Campione (proseguendo, sul lato opposto della strada, fino a Sacco, m. 700).
Portiamoci, ora, all’imbocco della Valle del Bitto di Albaredo. La provinciale per il passo di San Marco, che parte dalla piazza S. Antonio di Morbegno, dopo un primo tratto nel quale sale circondata da selve, attraversa, ad un tornante destrorso, una bellissima ed ampia conca di prati, la località Ortesida (m. 630). Proseguendo verso Arzo ("aars" termine che deriva da “arso”, bruciato), circa mezzo chilometro oltre, troviamo, sulla destra, uno slargo della carreggiata, e, sulla sinistra, una fermata del servizio di autobus Morbegno-Albaredo. Lasciamo qui l’automobile ed imbocchiamo una stradina che, dopo pochi metri, ci porta ai prati dei Tartüsèi, che dalla strada non si vedono, perché sono nascosti da una breve fascia di alberi. La località è incantevole: seguendo un sentierino, giungiamo nei pressi di una chiesetta. L’amenità dei prati contrasta con la leggenda che li riguarda. Un tempo qui la gente viveva tutto l’anno, e si narrava che, nelle notti di luna piena, un fantasma si aggirasse fra il limite del bosco e le baite.
Coloro che ne testimoniavano l’esistenza non erano in grado di darne una descrizione precisa ed univoca, per cui anche qui le versioni erano contrastanti: vi era chi credeva che si trattasse di un’anima che torna a visitare i luoghi amati e chi, invece, chi parlava di un’anima inquieta e tormentata, condannata da Dio, per le sue colpe, ad aggirarsi senza pace, turbando la pace dei vivi, oppure a cercare invano un tesoro che non aveva mai trovato in vita. L’effetto era, comunque, assai inquietante, tanto che il fantasma veniva denominato “la paura”, e costituiva il protagonista di innumerevoli storie raccontate, nelle precoci sere d’inverno, ai bambini.
Di queste due leggende si può leggere nel bel volume di Giulio Perotti intitolato “Morbegno”, ed edito nel 1992 a cura della cooperativa turistica Pan.
Fin qui il fantasma nella dimensione dell’arcano. Sempre nel territorio del comune di Morbegno è, però, possibile anche trovare una variazione sul tema, un vero e proprio paese fantasma, che, per la quota modesta, rappresenta un esempio unico in Valtellina. Si tratta dei Torchi Bianchi, località dal passato illustre, per la sua felice collocazione geografica. Giovanni Guler von Weineck, famoso visitatore della valle, che pubblica il resoconto del suo viaggio nel 1616, così ne scrive: “Dopo duecento passi da Desco si arriva alla frazione chiamata Torchi, perché è una distesa di pregiate vigne sino a Cattegno…” In effetti la località si trova fra Paniga, ad est, e Campovico, ad ovest, ma appare oggi assai diversa da come la poté vedere il Weineck. Un recente incendio, nel 1991, non solo, infatti, ha devastato il bel versante montuoso costituito dal fianco meridionale del Culmine di Dazio, sul lato orientale della val Toate, ma ha anche colpito irreparabilmente le case del paesino, minandone la stabilità. Due successive ordinanze, del 1991 e del 1994, hanno quindi vietato il transito sulla mulattiera che lo attraversa e che sale fino a Categno. Non è, perciò, possibile addentrarsi fra le rovine pericolanti, ma è sempre interessante avvicinarsi al limite inferiore delle case, per osservare lo scenario singolare e sinistro.
Per farlo, raggiungiamo Campovico, sempre nel comune di Morbegno, lasciando la ss. 38 dello Stelvio allo svincolo per Paniga (all’altezza di Talamona, sulla sinistra, per chi giunga da Sondrio). Invece di prendere a sinistra, per Talamona, prendiamo a destra, passando sotto un viadotto e raggiungendo il ponte arcuato di Paniga. Oltre il ponte, prendiamo a sinistra, in direzione di Campovico (m. 235). Appena prima di entrare in paese, lasciamo la provinciale Valeriana per imboccare una stradina sterrata, sulla destra, che porta al piede del monte. Qui possiamo lasciare l’automobile e cominciare a salire seguendo una carrozzabile asfaltata o la vecchia mulattiera che la taglia, fino ad incontrare il cartello che segna l’inizio della zona di transito vietato, nei presso della chiesa di S. Abbondio, che si erge su un imponente terrapieno. Non ci resta che alzare lo sguardo e guardare al triste scenario delle case in rovina.
Se, tuttavia, vogliamo guardare un po’ più da vicino senza correre rischi, ed insieme percorrere un buon tratto della mulattiera per Categno, possiamo sfruttare una variante che parte da Campovico. Portiamoci, allora, nel centro del paese, sotto la chiesa parrocchiale dedicata alla Visitazione della B. V. Maria. Possiamo lasciare l’automobile nel comodo parcheggio che si trova presso il cimitero. Dirigiamoci, poi, ad est, verso il limite del paese, nei pressi del torrente Toate, e percorriamo la pista che ne fiancheggia l’argine fino a trovare un ponticello in metallo, che ci porta sul lato opposto, dove parte un sentiero segnalato da bolli rossi. Si tratta di un sentiero davvero suggestivo, a tratti scavato nella roccia, che sale ripido, raggiungendo una casupola isolata, con un ottimo colpo d’occhio sull’aspra ed impressionante forra terminale della val Toate (l’unica valle di una certa importanza sulla Costiera dei Cech). Il sentiero prosegue fino ad intercettare la mulattiera per Categno, a monte dei Torchi Bianchi. Se percorriamo la mulattiera in discesa, cioè verso destra, potremo, quindi, raggiungerne il limite alto, occidentale: tenendoci a debita distanza, per evitare rischi, avremo, così, modo di osservare più da vicino gli scheletri delle abitazioni raggiunte dalle fiamme.
Già che ci siamo, non perderemo, poi, l’occasione per tornare sui nostri passi e proseguire (superando anche una cappelletta ed un punto panoramico dal quale si mostra la forra della val Toate in tutta la sua selvaggia bellezza) fino ad intercettare una carrozzabile con fondo in terra battuta, che, percorsa per un tratto verso destra, porta al bellissimo balcone panoramico di Categno (m. 488), dove si trova anche l’agriturismo dell’antica osteria di Categn.
La passeggiata da Campovico a Categno richiede circa tre quarti d’ora di cammino, per un dislivello in salita di circa 250 metri.
Il ritorno a Campovico può seguire un percorso diverso: tornando sui nostri passi, invece di scendere sulla mulattiera proseguiamo sulla pista, fino ad intercettare la strada asfaltata che dal ponte sull’Adda a nord di Morbegno sale a Dazio. Ci troviamo sul limite occidentale della bella piana di Dazio, fra il Culmine di Dazio, a sud, ed il versante dei Cech, a nord. Percorriamo, ora, per un tratto la strada in discesa, fino a trovare, sulla sinistra, il cartello che indica “Cermeledo”. Dopo aver visitato la chiesetta di San Nazzaro, che risale al 1610 e si trova, isolata dalle case della località, sulla destra della strada, un po’ rialzata, scendiamo alle case di Cermeledo, dove troviamo, sulla destra, la partenza di una bella mulattiera che prosegue nella discesa, fino alla chiesa parrocchiale di Campovico, con un fondo che alterna un bel grisc all’asfalto.
L’anello, percorso a piedi, richiede circa un’ora e mezza di cammino e comporta un dislivello di 270 metri.
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I PROVERBI SONO IN GRAN PARTE TRATTI DAI SEGUENTI TESTI:
Gaggi, Silvio, "Il volgar eloquio - dialetto malenco", Tipografia Bettini, Sondrio, 2011
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996)
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003
Pier Antonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pier Antonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pier Antonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Pier Antonio Castellani, "Detti e citazioni della Valdidentro", I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Luigi Godenzi e don Reto Crameri, "Proverbi, modi di dire, filastrocche raccolti a Poschiavo, in particolare nelle sue frazioni", con la collaborazione di alcune classi delle Scuole di Avviamento Pratico, Tip. Menghini, Poschiavo (CH), 1987
Lina Lombardini Rini, "Favole e racconti in dialetto di Valtellina", Edizioni Sandron, Palermo-Roma, 1926
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed
IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca.
Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970
Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Utilissima anche la consultazione di Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001
PRINCIPALI TESTI CONSULTATI:
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
Tullio Urangia Tazzoli, "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”,
Anonima Bolis Bergamo, 1935;
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996);
Giuseppina Lombardini, “Leggende e tradizioni valtellinesi”, Sondrio, ed. Mevio Washington, 1925;
Lina Rini Lombardini, “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950;
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice;
Glicerio Longa, "Vocabolario Bormino”, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913;
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000);
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – Fidanzamento e matrimonio” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2004);
Luigi De Bernardi, "Almanacco valtellinese e valchiavennasco", II, Sondrio, 1991;
Giuseppe Napoleone Besta, "Bozzetti Valtellinesi", Bonazzi, Tirano, 1878;
Ercole Bassi, “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ”, Milano, Tipografia degli Operai, 1890;
"Ardenno- Strade e contrade", a cura della cooperativa "L'Involt" di Sondrio;
"Castione - Un paese di Valtellina", edito a cura della Biblioteca Comunale di Castione, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario di Sondrio;
don Domenico Songini, “Storie di Traona – terra buona”, vol. II, Bettini Sondrio, 2004;
don Domenico Songini, “Storia e... storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001;
Scuola primaria di Sirta: calendari 1986 e 1991 (a cura dell'insegnante Liberale Libera);
Luisa Moraschinelli, “Uita d'Abriga cüntada an dal so dialet (agn '40)”;
Giovanni Bianchini e Remo Bracchi, "“Dizionario etimologico dei dialetti della Val di Tartano”, Fondazione Pro Valtellina, IDEVV, 2003;
Rosa Gusmeroli, "Le mie care Selve";
Cirillo Ruffoni, "Ai confini del cielo - la mia infanzia a Gerola", Tipografia Bettini, Sondrio, 2003;
Cirillo Ruffoni, "Chi va e chi resta - Romanzo storico ambientato in bassa Valtellina nel secolo XV", Tipografia Bettini, Sondrio, 2000;
Cirillo Ruffoni, "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento", Tipografia Bettini, Sondrio, 1998;
Mario Songini (Diga), "La Val Masino e la sua gente - storia, cronaca e altro", Comune di Val Masino, 2006;
Tarcisio Della Ferrera, "Una volta", Edizione Pro-Loco Comune di Chiuro, 1982;
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003;
Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001;
Associazione Archivio della Memoria di Ponte in Valtellina, "La memoria della cura, la cura della memoria", Alpinia editrice, 2007;
Luisa Moraschinelli, "Come si viveva nei paesi di Valtellina negli anni '40 - l'Aprica", Alpinia editrice, 2000;
Aurelio Benetti, Dario Benetti, Angelo Dell'Oca, Diego Zoia, "Uomini delle Alpi - Contadini e pastori in Valtellina", Jaca Book, 1982;
Patrizio Del Nero, “Albaredo e la via di San Marco – Storia di una comunità alpina”, Editour, 2001;
Amleto Del Giorgio, "Samolaco ieri e oggi", Chiavenna, 1965;
Ines Busnarda Luzzi, "Case di sassi", II, L'officina del Libro, Sondrio, 1994;
aa.vv. “Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio” (Silvana editoriale, 1995)
Pierantonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pierantonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pierantonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed
IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Pietro Ligari, “Ragionamenti d’agricoltura” (1752), Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1988
Saveria Masa, “Libro dei miracoli della Madonna di Tirano”, edito a cura dell’Associazione Amici del Santuario della Beata Vergine di Tirano” (Società Storica Valtellinese, Sondrio, 2004)
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca.
Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970
Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890
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(Massimo Dei Cas, www.paesidivaltellina.it)