SANTI (clicca qui per aprire la pagina relativa a questo giorno dal sito www.santiebeati.it):
S. Felice I papa, S. Ferdinando, Giovanni

SANTI PATRONI: SS. Trinità (Novate Mezzola, prima domenica dopo la Pentecoste)

PROVERBI

Tempesta de macc', stagiùn rüinàda (tempesta a maggio, stagione rovinata – Chiuro)
Macc sücc, gran per tücc (maggio asciutto, grano per tutti)
La roba mal tiràda, la fa poca düràda (la roba mal acquisita dura poco - Traona)
Tè de màlva de ùgni mal al ta sàlva (il the di malva salva da ogni male - Tirano)
Tégn i pée al cold, ma la cràpa sémpri al frèsch
(tieni i piedi al caldo, ma la testa sempre al fresco - Tirano)
Tücc i fa par dòpu tüt lagà (tutti lavorano per poi lasciare tutto - Tirano)
Dìu vèt, Dìu pruvèt (Dio vede, Dio provvede - Ardenno)
Al giüntà l'é parent dal plangia (perderci è parente del piangere - Poschiavo)
Al basta 'na scarìza par brüsà tüta la masserizia (basta una scintilla per bruciare tutto il casolare - Poschiavo)
Cald da lenzögl fa miga buglì la pignàta (il caldo delle lenzuola non fa bollire la pentola - Poschiavo)

Leggende della Val Codera

VITA DI UNA VOLTA

Ricorre la prima domenica dopo la Pentecoste (festa della SS. Trinità) la festa patronale di Novate Mezzola, paese cui è dedicata la seguente carrellata di leggende della sua valle, l'affascinante ed unica Val Codera.

La Val Codera, una delle più suggestive ed amate in provincia di Sondrio, in quanto ancora preservata dall’accesso degli autoveicoli per la mancanza di una strada carrozzabile, è anche una delle più ricche di leggende legate ad ombre, presenze inquietanti e stregonerie. Del resto, la leggenda stessa che narra della sua origine non è luminosa: si dice che a Dio, dopo che ebbe fatto il mondo, avanzassero mucchio di pietre, che, sparse un po' alla rinfusa, crearono la valle, il cui nome, infatti, deriva da "cotaria" e quindi da "cote", cioè masso. Molti anziani raccontano ancora di aver udito, o aver vissuto di persona, incontri con uomini ed animali misteriosi, rivelatisi poi manifestazioni di anime malvagie o di streghe.
La figura più celebre è quella del Valfubia, su cui si narrano diverse storie. Costui era un uomo malvagio, che rubava anche a persone povere, fra le quali una povera vedova che aveva molti figli da mantenere, per cui, una volta morto, fu condannato a vagare, come un’anima in pena (cioè come un cunfinà), di notte, assumendo sembianze sempre diverse, ora di uccello rapace, ora di maiale (con un curioso taschino dal quale usciva tabacco!), ora di ombra inafferabile. Dicono che le sue urla lamentevoli fossero davvero impressionanti. Come spesso accade in questi casi, per risarcirsi della sua condizione infelice prendeva di mira quanti si trovassero a transitare da soli su sentieri della valle, o anche uscissero di casa la sera, nella zona compresa fra Codera e Bresciadega. Faceva, quindi, rotolare contro di loro sassi dalle gande, oppure, più spesso, si materializzava improvvisamente, fra le ombre della sera, terrorizzando i malcapitati con un forte soffio. L’unico modo per tenerlo alla larga era munirsi di un rosario: quel segno di devozione e preghiera, infatti, riusciva insopportabile alla sua anima malvagia.
Racconta una signora (testimonianza tratta dalla bella raccolta "C’era una volta”, raccolta di leggende valchiavennasche e valtellinesi edita nel 1994, con il contributo di varie scuole della Provincia di Sondrio, a cura del comune di Prata Camportaccio): "Era una sera di settembre e mi trovavo a Bresciadega, nella baita, con la Fiorina, mia figlia e il fidanzato, un finanziere. Stavo preparando il caffè e, mentre bolliva, sono uscita sul prato vicino per fare un bisogno. Non c'era anima viva, né uomini né animali. Mentre mi chinavo ho sentito un soffio molto forte che mi ha travolto, allora sono rientrata di corsa nella baita, molto spaventata. Il finanziere è corso fuori con un'arma, ma non c'era nessuno. Era uno scherzo del Valfubia che voleva farmi spaventare ... e c'era riuscito! Da allora, tutte le sere, dopo aver munto le mucche, andavo alla capanna e con me avevo sempre un bastone, una pila e un rosario in tasca. Solo quella sera il Valfubia mi ha fatto uno scherzo, però ha preso di mira quasi tutti."
Se vi capita di passare in questa straordinaria valle e di incontrare qualche valligiani, state bene attenti, però, a parlare di leggende: c'è ancora chi giura di aver visto il Valfubia, e si offenderebbe non poco se lo definissimo frutto dell'immaginazione popolare. Nel volume sopra citato, per esempio, viene riportata anche questa testimonianza, raccolta nella Scuola Elementare di Campo Mezzola:
"C'era una volta in Bresciadega (gruppo di case in Val Codera) un uomo di nome Valfubia. Invece di lavorare rubava. Allora fu condannato ad uscire di notte con vestiti strani e aveva sempre una faccia diversa. Un brutto giorno una signora, mentre il caffè bolliva nel focolare, andò fuori a fare i suoi bisogni. Il Valfubia le andò vicino e fece un soffio forte. La povera signora si spaventò tantissimo. Entrò in casa a chiamare suo marito. Lui uscì con il fucile per catturare quell'uomo cattivo, ma non riuscì. Il giorno dopo la signora andò alla stalla e prese il rosario ed un bastone per la paura. Il Valfubia ritornò anche quella sera, ma vedendo il rosario se ne andò a gambe levate perché lui era un diavolo. Non si avvicinò più a quella donna, ma continuò a fare scherzi alle altre persone. Questa storia me l'ha raccontata la mia nonna e lei dice che è proprio accaduta."
La sua anima pare si aggiri ancora proprio in quella valle che porta il suo nome, la Valfubia (o Val Fobbia), una laterale minore della Val Codera. La attraversano, spesso senza saperlo, tutti quelli che salgono a Codera sulla storica mulattiera che parte dalla località Castello (Mezzolpiano) di Novate Mezzola: quando questa, infatti, dopo Avedée, si abbassa per qualche decina di metri, dopo una galleria paramassi oltrepassa proprio il solco della Valfubia, che scende dal versante alla sinistra del viandante che procede verso Codera.
Più inquietante ancora del Valfubia è la figura di un uomo misterioso che terrorizzava, sempre nottetempo, i viandanti sui sentieri nei dintorni di Cola (voce dialettale che significa colle, vetta) e di San Giorgio di Cola. La sua dimora era in una grotta nascosta, da qualche parte nei pressi del sentiero che unisce i due paesi scendendo nel cuore oscuro dell’impressionante vallone di Revelaso (o Revelasco: da "rava", dirupo). Chi lo aveva visto lo descriveva come un individuo vestito in modo bizzarro, ben diverso da quello semplice ed essenziale dei contadini: portava una giacca nera su pantaloni e stivali marroni. Talvolta di lui si udivano solo rumori, il fruscio dei rami degli alberi che scuoteva per far paura alla gente, oppure si intuiva la presenza, dietro qualche anfratto o qualche fronda, quando i lupi, suoi amici, ululavano nelle notti di luna piena, perché, si dice, se ne stava sempre nascosto a spiare le persone che passavano. Ma non si limitava a questo: altre volte scatenava la sua malvagità giungendo ad uccidere i viandanti, tanto che si era creato un terrore tale che la gente, al calar delle prime ombre della sera, non solo non usciva più di casa, ma vi si chiudeva proprio dentro a chiave, sussultando ad ogni rumore nella soffitta o alla porta di casa.
Non si poteva più andare avanti così, ed allora venne decisa una vera e propria battuta di caccia, cui parteciparono tutti gli uomini dei due paesi, ed anche qualche donna coraggiosa. Guidati dal lume della luna e delle lanterne e muniti di robusti bastoni di castagno, costoro setacciarono i boschi della zona. Alla fine la loro tenacia fu premiata, perché apparve, fra gli alberi, l’ombra dell’uomo malvagio, che fu riempito di energiche bastonate e scaraventato nel cuore del vallone, dal quale non riemerse più. Rimasero, di lui, solo i flebili lamenti che, durante i temporali, salivano dalla Caurga. Ma nessuno ebbe più nulla di cui temere, da allora.

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Torniamo, ora, verso Codera, e fermiamoci al maggengo di Cii, posto su un bellissimo terrazzo panoramico che guarda al lago di Novate. Qui ci accoglie una delle più classiche storie di stregonerie, quella delle streghe di Cii. Protagonista un giovane di Codera, fidanzato ad una ragazza di Cii. Un giorno, mentre si recava a trovarla, si imbattè in una volpe misteriosa e, seguendola, si accorse che entrava proprio nella casa della fidanzata. Sbirciando, vide che questa e la madre, vestite della festa, ungevano tempie, polsi e caviglie, pronunciando poi la formula “Tre ur andà, tre ur a sta e tre ur a venì” e volando via attraverso la cappa del camino. Preso dalla curiosità, pronunciò anche lui la formula, ma, essendo furbo, apportò qualche modifica e disse “Un ur andà, un ur a sta e un ur a venì”. Si ritrovò, così, in un grande salone, nel quale erano riunite molte persone, anche morte, mentre un misterioso individuo, dalle gambe caprine, scriveva su un librone il nome dei presenti. Lui tracciò sul librone una croce, perché non sapeva scrivere, ed allora accadde qualcosa di ancora più incredibile: forse perché era un segno che con quel posto non si conciliava troppo, forse per qualche altro motivo, il giovane si ritrovò, nudo e con il librone nero in mano, in cima al pizzo d’Arnasca, proprio sul ciglio dell’impressionante parete liscia che precipita nella valle omonima. Siccome conosceva bene quelle montagne, riuscì a scendere a valle, dove incontrò due donne che gli offrirono una camicia ed un paio di calze, purché gli consentisse di cancellare il loro nome dal libro. Allora capì tutto: la sala misteriosa era un ritrovo di streghe e stregoni, presieduto dal diavolo, ed allora corse dal Vescovo di Como per denunciare i malefici della valle. Questi, nella cattedrale, lesse pubblicamente i nomi segnati sul libro. Ogni volta che un nome veniva pronunciato, la persona corrispondente appariva prodigiosamente. Streghe e stregoni vennero così catturati e mandati al rogo.
Questa, però, non è lunica storia di stregoneria ambientata nel piccolo nucleo di Cii; una seconda storia, raccolta dalla Scuola Media di Novate Mezzola, viene così riportata nella citata raccolta "C'era una volta":

"A Codera viveva una vedova con sua figlia; allora c'erano molte vedove. Un giovanotto si era innamorato di quella ragazza e voleva sposarla, lo aveva confidato anche al prete, ma egli gli aveva detto che non era la ragazza che faceva per lui. Il giovanotto insisteva dicendo che la ragazza sapeva custodire le capre, raccogliere la legna, lavorare la maglia e che andava sempre in chiesa. Il prete continuava a dirgli di non sposarla. Allora il giovanotto gli chiese come faceva a giustificare quella affermazione e quindi il prete lo aveva invitato a casa di giovedì (il giovedì era il giorno in cui le streghe lavoravano) per dargli delle spiegazioni.
Il prete allora aveva mandato il giovane sulla grande "lobia" di casa sua, gli aveva detto di mettere il piede sopra il suo e di guardare verso Cii. Stavano arrivando la ragazza e sua madre che erano andate a prendere della legna che avevano messo in una fascina infilata sulle corna. Il povero ragazzo stava per svenire e dovette bere dell'acqua. Dovette ricredersi, e il prete gli suggerì di fare finta di niente e di fare fagotto (a quel tempo non esistevano le valigie, neanche di cartone); quindi era sceso a valle per richiedere i documenti ed era partito per l'America senza fare più ritorno.
"
Non c'è due senza tre: ecco la storia dell'anziana strega di Cii, che completa il sinistro trittico di Cii (raccolta citata, contributo della Scuola Media di Novate):
"C'erano due donne piuttosto anziane e una disse all'altra che era un po' di tempo che non ne faceva una delle sue; l'altra le rispose che ci stava pensando. La mattina seguente il figlio sarebbe dovuto andare a prendere una gerla di fieno e lei si sarebbe trasformata in un rovo per farlo cadere, perché si voleva sposare e lei sarebbe rimasta sola. Per combinazione la futura nuora aveva sentito e alla mattina impedì al fidanzato di andare, offrendosi al suo posto. Prese un falcetto e riempì di fieno la gerla. Mentre scendeva vide un rovo, lo tagliò a pezzetti e lo buttò nella valle. Quando arrivò a Cii trovò la suocera che stava per morire e le disse che il rovo che aveva tagliato era lei. Allora la donna le disse che se era così era meglio che morisse."

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Altre storie si raccontano sulle stregonerie della Val Codera. Una di queste parla di un gatto nero che tenta di aggredire un giovane che saliva a Codera per trovare la fidanzata: il giovane gli taglia una zampa, che si trasforma prodigiosamente in una mano con una fede al dito. Appena giunto in paese, si reca poi da una donna che cerca di lui: entrato in casa, ode il suo lamento, vede un moncone al posto della mano sinistra e capisce che il gatto era lei, e che si trattava di una strega. Ed allora se ne esce con una frase lapidaria: “Se eravate voi e non siete morta, morirete”.
Assai simile alla precedente questa seconda storia, che ha sempre come protagonista la metamorfosi di una strega in gatto nero:
"Un uomo stava scendendo a Codera dall'alta valle. Arrivato al lavatoio vecchio, dopo "Prà Mulinat", gli si fece incontro un gatto nero che cominciò a giragli tra le gambe. L'uomo tentò di cacciarlo via, ma il gatto non ne voleva sapere. Al colmo della sopportazione, l'uomo prese la roncola che portava appesa alla cintola e gli tagliò una zampa; immediatamente si fermò impietrito: la zampa appena tagliata si era trasformata in una mano di donna con una fede al dito! Arrivato a Codera gli dissero che una donna lo cercava. Andò a trovarla e questa gli disse che doveva punirlo perché le aveva fatto del male. L'uomo allora capì che quella donna non era altro che una strega e riuscì così a smascherarla. ("C'era una volta", cit.).

La gente della valle sapeva che spiriti ed esseri malefici potevano scatenare il loro potere dal suono dell’Ave Maria, alle sei di sera, fino ai primi rintocchi del mattino (è un detto diffuso, in provincia di Sondrio, “suna l’Ave Maria, gira la stria”, cioè al suono dell’Ave Maria la strega si mette a girare). Ma il suono di questa campana, la Bàrbula, poteva anche salvare dagli spiriti, quando riecheggiava alle sei di mattina, termine oltre il quale ad essi non era più concesso girare per insidiare i viandanti. Una volta, infatti, salvò una donna costretta a tornare a notte fonda a Codera dopo avere acquistato una medicina a Novate. Incontrò ad Avedèe, località dalla quale si comincia a vedere la valle, quattro uomini con una lanterna, proprio mentre udiva il rintocco dell’Ave Maria mattutina. Erano spiriti, e le dissero che se non fosse suonata la campana, l’avrebbero portata via con sé.
Ma la leggenda più misteriosa, che ha come protagonisti non più streghe, ma stregoni, è ambientata all'alpe d'Arnasca, che si stende, nella valle omonima, ai piedi dello splendido scenario della parete, liscia, verticale, perfetta, del pizzo Ligoncio. Ecco, di nuovo, quanto riporta la raccolta citata (di nuovo, si tratta di un contributo della Scuola Media di Novate):
"C'era la credenza che prima del Concilio di Trento, quando si scendeva dalle Alpi, il territorio veniva occupato da vari stregoni. Quando si tornava su a primavera questi, nel lasciare quello che era il loro territorio, provocavano un terribile temporale o qualcosa peggio.
Capitò che caricarono l'Alpe d'Arnasca e alla sera lasciarono lì un ragazzotto solo. Tutto intorno c'erano solo le mucche. Lassù le baite sono fatte a secco, si può guardare fuori dalle fessure presenti tra le pietre. Il ragazzo, ad un certo punto, sentì un gran rumore intorno, guardò fuori e vide cinque o sei uomini di statura smisurata. Questi piantarono nel terreno due pali, poi ne misero uno per traverso al qual appesero un gran calderone. In quest'ultimo misero a bollire un mucca intera e quando fu cotta ne presero un pezzo ciascuno. Intanto il ragazzo stava a guardare. Quando ebbero finito di mangiare, misero insieme le ossa e si accorsero che mancava la coscia. Allora uno disse: "Vai sù a Negar Fur a prendere un pezzo di sanbuco". Il sambuco, che ha una specie di midollo dentro, poteva servire per sostituire la coscia. Allora uno si diresse verso Negar Fur per prendere un pezzo di sambuco. Con una scure lo tagliarono a forma di gamba, poi lo misero sotto le altre ossa che ricoprirono con la pelle. Ad un loro cenno saltò in piedi la mucca. Si dice che per diversi anni la mucca è andata in Arnasca con la gamba di legno."

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Chiudiamo questo rapido viaggio nell'immaginario della Val Codera con una storia che ha il pregio di dissipare un po' il clima fosco che finora è parso sempre più addensarsi fra le severe pareti di quest'antica valle. Si tratta di una storia dal tono decisamente edificante che ha come scenario, l'aspra Val Ladrogno, la quale precipita sul fondo della Val Codera quasi di fronte all'abitato di Codera, sul versante opposto della valle. Ce la racconta don Domenico Songini in “Storie di Traona - Terra buona” (Sondrio, 2004: il prosieguo della scheda è largamente debitore a questa opera di gradevolissima lettura). La storia ha inizio a Traona, dove viveva, molti secoli fa, un individuo che, accecato dall’avidità di denaro, si macchiò di un misfatto orribile. Gli capitò di incrociare, su un sentiero che si inerpicava nel folto bosco sopra il paese, un tizio che tornava dalla fiera di Traona. Intuì che doveva avere con sé molti soldi, il probabile ricavato di qualche vendita. Erano soli, fu un attimo: non si diede l’incomodo neppure di intimare “o la borsa o la vita”, gli balzò addosso e si prese entrambe, pugnalando senza pietà il malcapitato, che non ebbe neanche il tempo di invocarla. Poi fuggì via, tornando alla propria dimora. Il suo pensiero era tutto per il denaro che avrebbe trovato nella borsa della povera vittima: a questa non pensava affatto.
Tornò difilato alla propria casa, fece per aprire ma, quando guardò la chiave che aveva in mano, si accorse che questa era macchiata di sangue.  C’era, lì vicino, una roggia, e vi immerse le mani, senza però risultato acuno: l’acqua non lavava via il sangue. Provò in un torrentello che scorreva poco distante, ma anche questa volta senza esito. Neppure le acque tumultuose del torrente Vallone poterono lavar via il sangue. L’assassino, allora, fu preso dal panico: la prova che smascherava il suo crimine sembrava indelebilmente impressa sulle sue mani. Scappò, dunque, dal paese, gettò il denaro nell’Adda e, senza farsi vedere da nessuno, attraversò l’intera Costiera, verso ovest. Giunto all’imbocco della Val Codera, la risalì fino all’omonimo paese. Ma aveva paura a fermarsi in un posto abitato da Cristiani, ed allora, attraversato il torrente, cominciò ad inerpicarsi lungo un erto sentiero, che risaliva una selvaggia e solitaria laterale della Val Codera. Era, appunto, la Val Ladrogno, che ancora non aveva quel nome (le venne dato poi, in ricordo del ladrone che vi aveva trovato rifugio).
Alla fine raggiunse un luogo così remoto ed aspro che gli parve abbastanza sicuro per fermarsi e riordinare le idee. Probabilmente realizzò solo allora quel che aveva fatto, ed alla paura si aggiunse la vergogna, il disgusto, il profondo pentimento. Si fasciò le mani, sempre orribilmente macchiate di sangue, con due sacchetti, che non si tolse più. Visse per circa quattro mesi in una caverna, alimentandosi di bacche ed erbe. Poi decise di tornare fra gli uomini: non sapeva bene come, ma si rendeva conto di dover affrontare la responsabilità di quel che aveva fatto, perché anche nella più profonda solitudine i tristi pensieri sono un’insostenibile compagnia. Lasciò la sua caverna e la Val Codera, tornò alla Costiera, percorrendola sul sentiero di mezza costa fino alla Val Bombolasca (che scende sul lato opposto, occidentale, rispetto al Vallone, del poggio sul quale è arroccata la chiesa di S. Giovanni).
Era notte fonda, ma chiara, illuminata da una luna grande come il sorriso di un bambino nei giorni di festa. Si vedeva, più in basso, molta gente su strade e sentieri che scendevano all’imponente chiesa di S. Alessandro di Traona. Vinse il timore e scese anche lui. Udì, allora, i canti che per molti anni aveva sentito nella notte più amata dai bambini, quella di Natale. Ed allora il pentimento, fino a quel momento morso che procurava un dolore cieco e senza speranza, assunse un significato, fu illuminato da una prospettiva di salvezza. Si ricordò di aver ascoltato, qualche volta, molti anni fa, che non c’è colpa tanto grave da non ottenere il perdono divino a fronte di un sincero pentimento. Chiese perdono a Dio piangendo a dirotto, entrando in chiesa e togliendosi i sacchetti che fasciavano le mani: che vedesse, la gente, e capisse che era lui l’assassino di cui tutti parlavano da mesi, avrebbe avuto quel che si meritava.
Ma non incontrò nessuno sguardo sgomento, nessuno sguardo d’accusa, nessuno pareva notarlo: tutti, finita la funzione, si affettavano a tornare a casa, per preparare la gioiosa sorpresa dei regali che all’alba piccoli e grandi avrebbero trovato. Solo quando la chiesa fu quasi vuota si guardò le mani: non c’era più traccia di sangue. Un segno del cielo, pensò, un segno del perdono divino che attendeva solo il suggello sacramentale. Si precipitò, allora, dal parroco e confessò il suo peccato, dandogli poi la disposizione, come segno del suo pentimento, di vendere tutti i suoi beni e donare il ricavato alla famiglia della vittima. Ottenuta l’assoluzione, tornò ai monti più alti, in Val Ladrogno, ai magri pascoli sotto la cima di Gaiazzo (che, dicono, prese il nome proprio dalla sua incontenibile gioia), per trascorrere, come eremita, il resto della sua vita, nella preghiera e nella rinuncia.
La storia potrebbe finire qui, ma così non è: qualche anno dopo l’eremita del Gaiazzo, ormai assai noto in bassa Valtellina con il nome di “pentì”, ridiscese al piano ed entrò per alcuni anni nel monastero di S. Pietro in Vallate, dove gli venne dato il nome di Fra’ Paolo di Traona. Ricevuta l’ordinazione sacerdotale, lasciò la comunità monastica per tornare a Traona e fondare un cenobio, cioè una piccola comunità di monaci che condividevano la vita di lavoro, preghiera e contemplazione, in una modesta abitazione presso la cappella di S. Nicolao. Intorno a padre Paolo, priore del cenobio di S. Nicolao, si raccolsero, infatti, alcuni giovani che desideravano seguire l’esempio della sua vita santa, scandita dall’aurea massima benedettina dell’ “ora et labora”.

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Difficile, a questo punto, resistere alla tentazione di andare a vedere direttamente i luoghi scenario di tanti misteri. Un ottimo modo per farlo è quello di effettuare un'escursione ad anello che tocca tutti i nuclei principali della Val Codera, che conservano ancora un fascino straordinario, sottratti, come sono, per la difficile accessibilità, agli assalti di un turismo facile e di massa.
Staccandoci dalla ss. 36 dello Spluga all'altezza di Via Ligoncio (Farmacia), la percorriamo interamente in salita fino al suo termine, cioè al parcheggio di Mezzolpiano (m. 326), frazione di Novate Mezzola, dove parte una mulattiera comoda e ben curata, che si inerpica sull’impressionante fianco sinistro (per chi sale) della forra della Val Codera. Questo sentiero è, insieme con quello gemello sul lato opposto della valle, l’unico accesso a questa importante valle, il che la rende pressoché unica fra le grandi valli della provincia di Sondrio. Il primo centro abitato che si incontra salendo è quello di Avedèe, a 790 metri. Poco oltre, la valle comincia a mostrarsi all’escursionista: appare anche Codera, il suo centro principale. Per raggiungere il paese bisogna però scendere di qualche decina di metri, lambendo, quasi, il fianco granitico della montagna e sfruttando anche due preziosissime gallerie paramassi (i massi sono, infatti, su tracciati come questo la più grande minaccia). Si risale, infine, ad una cappelletta che annuncia il paese, preceduto dal suo cimitero, posto quasi di fronte alla laterale val Ladrogno.
Codera (m. 850) ci accoglie con la chiesa, dal caratteristico campanile. Sul sagrato un possibile prezioso punto di appoggio, il rifugio La Locanda. Sul lato opposto del paese, abitato tutto l’anno, si può raggiungere un secondo prezioso punto di ristoro, l’Osteria Alpina. Torniamo, ora, indietro: poco oltre l'Osteria Alpina, proseguendo sulla destra, troviamo un bivio: prendendo a destra (segnalazioni per San Giorgio ed il Sentiero Life delle Alpi Retiche) scendiamo, con pochi tornanti, al ponte sul torrente Codera, piccolo capolavoro d’ingegneria, sospeso su quaranta metri di vuoto. Subito dopo il ponte si incontra un bivio e si prende a destra, raggiungendo ben presto l’impressionante forra terminale della val Ladrogno, valicata da un secondo e non meno ardito ponte. Poi si raggiunge un più tranquillo bosco di castagni: il sentiero, salendo, conduce alle case di Cii (m. 851).
Oltre Cii, il sentiero prosegue nella salita, con traccia meno evidente, ma non lo si può perdere: alla fine si congiunge con il Tracciolino, che, con un tracciato pungo più di dieci chilometri, spesso intagliato nella viva roccia, unisce la Val Codera alla Val dei Ratti, partendo dalla presa d’acqua della Sondel poco sopra Codera e raggiungendo la diga di Moledana, sotto Càsten.
Il tracciolino valica il vallone della val Grande, entrando poi in un bel bosco, sul grande dosso di Cola (voce dialettale che significa colle, vetta). Qui viene tagliato da un sentiero (segnalazione) che, percorso in salita (sulla sinistra), conduce a Cola (m. 1018). La salita all’abitato di Cola è uno sprofondare nel grembo del tempo. Qui il silenzio è rotto solo dallo scampanìo delle capre. Il dosso termina alle pendici rocciose che salgono alla punta Redescala (m. 2304), che nasconde il Sasso Manduino.
Se, tornati al tracciolino, lo si lascia subito per seguire il medesimo sentiero, ma in direzione opposta, cioè scendendo verso destra, si incontra, dopo diversi tornanti, una cappelletta, posta, come molte altre, a protezione del viandante che si accinge ad affrontare luoghi insidiosi. Bisogna, infatti, calarsi nel pauroso cuore del vallone di Revelaso, dove massi ciclopici sembrano dire che questo non è posto per uomini. Sul lato opposto, il sentiero supera un punto molto esposto (massima attenzione, anche se la sede è larga e ben scalinata!), prima di condurre a luoghi più tranquilli, fino alla splendida conca di prati che ospita San Giorgio di Cola (m. 748), paese di cavatori di granito, gentile e sorprendente isola bucolica in un mare di forre e precipizi. Dal belvedere ottima è la vista sul lago di Mezzola. Questi luoghi, come testimonia un avello celtico nei pressi del cimitero, hanno visto da tempo assai antico la mano operosa dell’uomo. Una leggenda vuole che questo avello, insieme ad un altro simile, abbia ospitato la salma di un comandante spagnolo, in servizio al Forte di Fuentes (edificato nel 1603), morti per la malaria che infestava il Pian di Spagna (la leggenda è riportata nel volume di Giambattista Gianoli "Dizionario storico delle valli dell'Adda e del Mera", Tipografia Commerciale Valtellinese, Sondrio, 1945, pg. 59). Se si sale alle spalle del paese e si supera il cimitero ci si ricongiunge, seguendo le indicazioni, al Tracciolino.
Per chiudere l’anello, però, bisogna procedere in direzione opposta, passando sul lato settentrionale del paese (sulla destra, per chi scende), ed imboccando un’ardita mulattiera che aggira, sulla destra, la cima dello sperone roccioso su cui poggia il paese, si porta sul lato opposto e scende sul suo fianco aspro e selvaggio, con una serie di 19 tornanti dx-sx. Anche qui la montagna incombe sul viandante, senza però farsi mai veramente minacciosa. Superato un ultimo tratto in un rado bosco, si giunge al termine della mulattiera, e si scende, per una strada sterrata, ad intercettare la via asfaltata che, percorsa verso destra, conduce al ponte sul torrente Codera, oltre il quale confluisce, in breve, nella via Castello; salendo verso destra, siamo, infine, al parcheggio di Mezzolpiano, dopo circa 5 ore di cammino, necessarie per superare un dislivello approssimativo di 900 metri.

 

STORIA
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AMBIENTE


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I PROVERBI SONO IN GRAN PARTE TRATTI DAI SEGUENTI TESTI:

Gaggi, Silvio, "Il volgar eloquio - dialetto malenco", Tipografia Bettini, Sondrio, 2011
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996)
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003
Pier Antonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pier Antonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pier Antonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Pier Antonio Castellani, "Detti e citazioni della Valdidentro", I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Luigi Godenzi e don Reto Crameri, "Proverbi, modi di dire, filastrocche raccolti a Poschiavo, in particolare nelle sue frazioni", con la collaborazione di alcune classi delle Scuole di Avviamento Pratico, Tip. Menghini, Poschiavo (CH), 1987
Lina Lombardini Rini, "Favole e racconti in dialetto di Valtellina", Edizioni Sandron, Palermo-Roma, 1926
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)


Utilissima anche la consultazione di Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001

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PRINCIPALI TESTI CONSULTATI:

Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
Tullio Urangia Tazzoli, "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, Anonima Bolis Bergamo, 1935;
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996);
Giuseppina Lombardini, “Leggende e tradizioni valtellinesi”, Sondrio, ed. Mevio Washington, 1925;
Lina Rini Lombardini, “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950;
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice;
Glicerio Longa, "Vocabolario Bormino”, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913;
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000);
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – Fidanzamento e matrimonio” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2004);
Luigi De Bernardi, "Almanacco valtellinese e valchiavennasco", II, Sondrio, 1991;
Giuseppe Napoleone Besta, "Bozzetti Valtellinesi", Bonazzi, Tirano, 1878;
Ercole Bassi, “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ”, Milano, Tipografia degli Operai, 1890;
"Ardenno- Strade e contrade", a cura della cooperativa "L'Involt" di Sondrio;
"Castione - Un paese di Valtellina", edito a cura della Biblioteca Comunale di Castione, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario di Sondrio;
don Domenico Songini, “Storie di Traona – terra buona”, vol. II, Bettini Sondrio, 2004;
don Domenico Songini, “Storia e... storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001;
Scuola primaria di Sirta: calendari 1986 e 1991 (a cura dell'insegnante Liberale Libera);
Luisa Moraschinelli, “Uita d'Abriga cüntada an dal so dialet (agn '40)”;
Giovanni Bianchini e Remo Bracchi, "“Dizionario etimologico dei dialetti della Val di Tartano”, Fondazione Pro Valtellina, IDEVV, 2003;
Rosa Gusmeroli, "Le mie care Selve";
Cirillo Ruffoni, "Ai confini del cielo - la mia infanzia a Gerola", Tipografia Bettini, Sondrio, 2003;
Cirillo Ruffoni, "Chi va e chi resta - Romanzo storico ambientato in bassa Valtellina nel secolo XV", Tipografia Bettini, Sondrio, 2000;
Cirillo Ruffoni, "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento", Tipografia Bettini, Sondrio, 1998;
Mario Songini (Diga), "La Val Masino e la sua gente - storia, cronaca e altro", Comune di Val Masino, 2006;
Tarcisio Della Ferrera, "Una volta", Edizione Pro-Loco Comune di Chiuro, 1982;
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003;
Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001;
Associazione Archivio della Memoria di Ponte in Valtellina, "La memoria della cura, la cura della memoria", Alpinia editrice, 2007;
Luisa Moraschinelli, "Come si viveva nei paesi di Valtellina negli anni '40 - l'Aprica", Alpinia editrice, 2000;
Aurelio Benetti, Dario Benetti, Angelo Dell'Oca, Diego Zoia, "Uomini delle Alpi - Contadini e pastori in Valtellina", Jaca Book, 1982;
Patrizio Del Nero, “Albaredo e la via di San Marco – Storia di una comunità alpina”, Editour, 2001;
Amleto Del Giorgio, "Samolaco ieri e oggi", Chiavenna, 1965;
Ines Busnarda Luzzi, "Case di sassi", II, L'officina del Libro, Sondrio, 1994;
aa.vv. “Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio” (Silvana editoriale, 1995) Pierantonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996 Pierantonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999 Pierantonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Pietro Ligari, “Ragionamenti d’agricoltura” (1752), Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1988
Saveria Masa, “Libro dei miracoli della Madonna di Tirano”, edito a cura dell’Associazione Amici del Santuario della Beata Vergine di Tirano” (Società Storica Valtellinese, Sondrio, 2004)
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890

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