Giorni notevoli: 1, 6, 12, 15, 17, 20, 21, 22, 25, 29, 31

1 GENNAIO

Primo giorno dell'anno, giorno di pronostici. A Bormio le ragazze in età da marito avevano la consuetudine di lanciare una pantofola in direzione della porta di casa: se questa si fermava con la punta rivolta alla porta, la ragazza di sarebbe sposata entro il carnevale successivo o almeno entro l'anno; in caso contrario, avrebbe dovuto aspettare l'anno successivo.

Amleto Del Giorgio, nel bel volume "Samolaco ieri e oggi" (Chiavenna, 1965), scrive:
L’alba del nuovo anno, con il cielo terso e gelido o nel grigiore della neve, sorgeva sempre al canto più o meno intonato di brigatele di giovani. Passata la notte di S. Silvestro al calduccio di crepitanti fuochi accesi sulle soglie o addirittura all’interno degli ospitali “anticròt” con i “mèz” (mezzo litro) di grossolana maiolica traboccanti di vino che passava da una mano all’altra, da una bocca all’altra, esaurito più volte il repertorio delle canzoni e la rassegna sulle vanità del momento, al primo albeggiare essi scendevano in paese, occupando in tutta la larghezza le stradicciole, tenendosi a braccetto o, meglio, stretti l'un l'altro con le braccia quasi avvinghiate alle spalle, al collo. Fra una canzone e l'altra facevano sosta davanti alle case, evitando con discrezione quelle travagliate dal lutto, dalla discordia o dalla malattia e dando la preferenza, naturalmente, a quelle rallegrate dalla presenza di belle ragazze da marito. I padroni di casa si affacciavan lieti sull'uscio (fortuna vedere giovani il primo giorno dell'anno!) e offrivano a tutti l'acquavite. Seguivano allegre battute, talvolta un po' spiritose e audaci, qualche richiesta di notizie... sulle gentili abitatrici che quella mattina si ostinavano a star rinchiuse, e poi il crocchio si allontanava, intonando ancora una volta, magari, la stessa canzone. Così, di casa in casa, la scena si ripeteva.
Naturalmente non tutti erano poi in grado di assistere con un minimo di decoro alle sacre funzione in chiesa dove, fra l'altro, si baciava la graziosa statuetta del "Bambìin" Gesù che dall'altare scendeva, con immensa gioia dei bambini, nella navata centrale e a tutti, umilmente, si accostava. Molti si buttavano a letto e per quel giorno non se ne parlava più. Ma non era spenta ancora l'eco dei canti e dei "bun àn" che frotte di ragazzi con grandi sacchi in spalla, intabarrati con ruvidi maglioni di lana casalinga sotto le povere giacchette "della festa", con i calzoni di panno né lunghi né corti, con zoccoletti di ontano o, í più fortunati, con scarpe... dalla suola di legno: "zuculóom" irrobustita di grossi chiodi e risuonanti sul selciato, rumoreggiavano a tutte le porte: "Uéi, bun dì bun àn, bón capudàn, sum scè s'urì dàm labunamèen a mìiiii (uéi, buon giorno, buon anno, buon capodanno, son qua se volete dare la buona mano a mèeee!). Ed entravano festosi, e con festosa generosità, quel giorno, si donavano ai ragazzi noci,manciate di spicchi dimela essicati, nocciole, noci e soprattutto, abbondanti mestolate di "belegót", castagne lesse con il guscio, cotte l’ultima sera dell’anno in enormi calderoni di rame, nei quali nereggiavano, quel giorno, nell’angolo della cucina di ogni cosa. Poi era la volta dei figliocci che, ancor prima di mezzogiorno, si recavano con gioiosa ansia, temperata appena da certa timidezza, dai padrini e dalle madrine. Questi avevano già preparato una mela, un’arancia, una manciatella di nocciole americane, alle volte due o tre caramelle di orzo “Scaramellini” e, sempre, il “mic(h)ìin” e cioè un panino, che ai quei tempi equivaleva, per i nostri ragazzi, ad un raffinato dolce attuale!…
E a mezzogiorno non la solita polenta con il minuscolo pezzodi formaggio o di ricotta vecchi insieme al pugno di castagne stracotte, dolciastre e stomacanti, ma vero risotto, ottenuto con brodo di una delle otto o dieci gallinelle che davano vita al pollaio. La carne si mangiava, allora, poche volte all'anno e veniva in preziosi pacchetti di carta gialla, grossolana, da Chiavenna; a parte i pochi fortunati che potevano fare la "mazìglia" e cioè uccidere e insaccare il maiale.
I primi dell'anno erano giorni straordinari per i ragazzi, ai quali non sembrava vero che, dopo Capodanno, giungesse così presto l'Epifania,cioè la Befàna che, nera nera, scendeva dinotte dal camino e infilava anch'essa mele, nocciole nella ruvida calza di lana casalinga appesa…”

Vittorio Spinetti, nell’opera “Le streghe in Valtellina” (Sondrio, 1903), riporta in questi termini le credenze popolari sulla Magada: “Senza dirne altre molte citerò quella della Valle della Maga. In uno dei profondi burroni del torrente Rogna che divide il comune di Teglio da quello di Chiuro, dove l'acqua balzando di masso in masso mugghia biancheggiando come spuma di latte, il congresso delle streghe si raduna ogni inverno il primo giorno dell' anno: là le streghe tessono le loro danze co' piedi di capro, sui prati, facendo liquefare le nevi durante le loro carole: là fu veduta la strega, orrida vecchietta, inghiottir le interiora dei bambini lavate nelle acque del torrente, dei bambini rubati dalle culle nei casolari: fu veduta levarsi sulle gambe e sparire sotto le rupi”

El prümm de l’an, el pass d’ün can
(il primo dell'anno il passo di un cane, cioè il giorno si allunga di un poco - Montagna)

Ogni an che uée fa sperà in bée
(ogni anno che viene fa sperare in bene - Sirta)

Al prüm dì in l’àn al crés un schbadac’ d’un g(h)àl
(il primo giorno dell’anno il giorno cresce di uno sbadiglio di gallo – Samolaco)

Ogni an che uée, fa spera ‘n bée
(ogni anno che viene, si spera in bene – Ardenno)

Al dí Dinadèe al cress pién un didée, al prüm di l’an un schbadácc d’un gall
(a Natale il giorno cresce di un ditale, a Capodanno dello sbadiglio di un gallo – Samolaco)

Chi màia üga al prim de l’an, màia danée tütt l’an
(chi mangia uva il primo dell'anno, mangia soldi tutto l'anno)

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6 GENNAIO

L'Epifania era giorno di pronostici. A Bormio le ragazze in età da marito avevano la consuetudine di lanciare una pantofola in direzione della porta di casa: se questa si fermava con la punta rivolta alla porta, la ragazza di sarebbe sposata entro il carnevale successivo o almeno entro l'anno; in caso contrario, avrebbe dovuto aspettare l'anno successivo.

Ad Ardenno la tradizione del gabinàt assumeva questa forma: i bambini bussavano alle case cercando di anticipare la persona che veniva ad aprire, con la frase, "bundé, gabinàt a me"; se ci riuscivano ottenevano in premio una manciata di "gabinat", castagne lessate nel guscio.

Riportiamo alcune pagine da “La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, di Tullio Urangia Tazzoli (Anonima Bolis Bergamo, 1935):
Il giorno dell' Epifania (Paskuéta), 6 gennaio, è caratteristico, in Bormio e nelle valli, dall'uso del gabinàt. Il nome gabe-nacht - notte di doni — ci proviene, assieme all'usanza, dalla Baviera da dove passò in alto Adige ed ove dura tuttora. Questa usanza consisteva e consiste nel prevenire una persona nel saluto col motto "gabinat„ dai vespri della vigilia sino a quelli dell' Epifania. Chi era stato ed è stato nel saluto prevenuto doveva e deve pagare qualche regalo a chi detto saluto gli indirizzava e gli indirizza. Il costume è unicamente, ora, sfruttato dai ragazzi che in queste giornate vanno girovagando da parenti vicini od agiati. Esso, invece, era molto in voga nella seconda metà del secolo scorso. È interessante rilevare come l'Epifania in Italia e nella stessa Valtellina avesse un tempo altri riti: il rito del fuoco, ad esempio, rito che esiste tuttora in Valtellina ma che si compie oggi a fine carnevale vecchio e nuovo. L'usanza del gabinat è esteso a quasi tutta la regione dell'Adda. Le forme dei doni o del pagamento variano da zona a zona. Così rileviamo come:
Nel terziere inferiore di valle (Morbegno) il pagamento è riservato al giorno di S. Antonio ed è fatto con la tradizionale kopéta che a Bormio si mangia, invece, il giorno di S. Lucia;
nel terziere di mezzo di valle (oltre Sondrio verso Tirano) si regalano anche seduta stante, però se si abbiano a porta di mano, dolci, ninnoli, confetti...;
nel terziere superiore di valle (specie a Grosio) questi doni rituali Sono ridotti a tre... perchè tale è il mercato dei Re Magi.

In questa occasione una volta si usavano una infinità di strattagemmi e di burle per riuscire vincitori concorrendovi persone di ogni sesso e di ogni età. Glicerio Longa cita una di queste burle occorsa in valle di Livigno, non molti anni fa, di sapore alquanto boccaccesco e che merita che noi ricordiamo:
È ancora vivo il ricordo di due buoni preti dei quali uno mingherlino e quasi nano (el skenín) l'altro corpulento ed aitante (don Doménik): tutti e due di arguto e giocondo umore, vicini di casa ed amicissimi. Nella festa dell'Epifania il grosso prete se ne andava alla chiesa parrocchiale per dire la messa cantata ma ogni tanto si voltava indietro guardingo per tema qualche sorpresa. Nulla: solo da lontano, sulla strada bianca d neve, un uomo con una gerla si avanzava diritto e rapidamente come se essa fosse vuota. Si era, oramai, alla piazza fra la turba degli accorrenti alla chiesa. Ad un tratto dalla gerla emerge il capo grigio dello skenín che suona un pugno sulla groppa dell'amico gridandogli, sghignazzando, ghibinét! " Tu me l'ek feita st'élta, ma te me la pagarésc!„ (Tu me l'hai fatta qiiésta volta, ma tu me la pagherai!) risponde don Doménik voltandosi come sbalordito. Poi, tra le risa approvatrici della folla, se ne vanno a braccetto in sagrestia. Si racconta che l' anno appresso el skenín venisse d'urgenza chiamato al letto di una puerpera di cui aveva battezzato il rampollo nella giornata. Era ancora l' Epifania. Non è a dire come rimanesse quando entrato nella camera sentì risuonare un allegro ghibinét ! e riconobbe nella puerpera l'amico don Doménik !... „. L'etimologia della parola gabinet è alquanto discussa. C'è chi la vorrebbe costituita da due elementi : l'ebraico gabi   rabbi - re, ed il latino nat - natus. Le risultanti sarebbe Re   nato, cioè : è nato il Re o Gesù. Ma a noi sembra che la prima versione che demmo gabe-nacht - notte dei doni - sia più semplice e più logica giacchè, in realtà, Gesù è nato parecchi giorni innanzi. La tradizionale Befana romana si ispira a questa versione. Nel Contado la denominazione della Befana variava da luogo a luogo. Ad esempio in Valfurva essa è chiamata, tuttora, la Vecchia - Végia: forse un tempo colà, nell'Epifania, si bruciava la Vecchia come si usava in Bormio l'ultimo giorno di Carnevale. Anche l'ortografia della stessa parola, nel Contado, ha sensibili varianti:
Bormio: gabinàt - Valdidentro (Semogo): ghebinét - Valdisotto e Valfurva: gabinét - Livigno ghibinét.

Da Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010:
"Sciorpéttà sf. (pl. sciorpét) bambola che veniva portata di casa in casa dalle bambine in occasione dell'Epifania. Veniva mostrata solo a coloro che donavano loro castagne secche o altri regali. La testimonianza di una signora nata prima del Novecento riferisce che spesso, al posto della bambola di pezza, si portava un ciotolo oblungo di fiume, cui si erano disegnati con il carbone occhi, naso e bocca, coperto con un fazzoletto. - Andà con la sciorpéttä, girare di casa in casa con la bambola per ottenere doni."

Dal Rapporto del prefetto dell'Adda Angiolini al signor Conte Consigliere di Stato Direttore Generale della Pubblica Istruzione su gli usi e costumi del Dipartimento dell’Adda - Sondrio, 8 gennaio 1812 (Pubblicato in: ARTI E TRADIZIONI POPOLARI - LE INCHIESTE NAPOLEONICHE SUI COSTUMI E LE TRADIZIONI NEL REGNO ITALICO, a cura di Giovanni Tassoni, La Vesconta - Bellinzona, 1973):
"Un altro uso singolare, e che forse non si conosce altrove, si è quello dí vincere il Gabbinato. Consiste nel prevenirsi, cioè nell'essere il primo, incominciando dai vespri, invitando un altro a dire la parola gabbinato, dalla vigilia dell'Epifania sino ai vespri dell'Epifania me desima. Chi è prevenuto suole dare qualche regaluccio a colui che gli ha vinto il gabbinato. I poveri, in quel giorno, invece di chiedere l'elemosina, vengono sotto le finestre de' benestanti e vincon loro il gabbinato; i domestici ai padroni, i figli ai genitori, e tutti ricevono qualche regalo. Un tal costume tien forse luogo in questo paese al ferragosto, che si pratica altrove e che qui non si conosce. Giova però l'osservare che nulla v'ha di obbligatorio in tutto questo, potendo chi che sia dismettere di fare il presente al vincitore."

Nel “Dizionario etimologico grosino”, di Gabriele Antonioli e Remo Bracchi (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio), leggiamo:
"Gabinàt rn. usanza consistente nel prevenire qualcuno con tale esclamazione e guadagnando in tal modo il diritto ad un dono. Il periodo di tempo valido va dal suono della campana delle 16 della vigilia dell'Epifania fino all'Ave Maria e di nuovo il giorno dell'Epifania dall'Ave Maria mattutina al suono della benedizione eucaristica, dopo i vespri pomeridiani. Il perdente ha tempo fino alla festa di s. Antonio per assolvere il pegno. Il temine al plurale indica i donativi vinti in tale occasione (vénger i gabinàt) I a Gabinàt al pas del gat, all'Epifania la giornata si è già allungata quanto il passo di un gatto. Bavarese Geb-nacht, corrispondente al composto tedesco di Gaben "doni" e Nacht "notte". In Baviera si indicavano con tale nome le tre festività di Natale, Capodanno ed Epifania, nelle vigilie delle quali i ragazzi poveri dei villaggi cantavano davanti alle porte dei più facoltosi delle nenie tradizionali per ricevere un compenso."

Luisa Moraschinelli, nel "Dizionario del dialetto di Aprica", Sondrio, 2010, scrive:
"Gabinàt sm. tradizione, <dumà an uà a Liscet a cercà al gabinat> domani (giorno dell'Epifania) andiamo a Liscedo a cercare il tradizionale <gabinàt> (Ricorre il 6 gennaio. Oltre alle forme liturgiche, all'attesa della befana, i bambini vanno nelle case e chiedono <al gabinat>. In particolare, di buon'ora, si portavano a Liscedo, nella contrada dove ci sono le selve con il castagno. Entrando nelle case e dicendo: <bun dì, ca l'é gabinat, deman an sàch, deman an pügn, dem üna pesciada un dal c...> ricevevano una scodella di castagne cotte nel calderone.) Inoltre la prima persona che incon­trando un'altra, pronuncia per primo <gabinat> vince il diritto a un dono. (oggi ancora in uso fra la gente locale). <fas al gàbinat>."

Epifania tütt i fest ia porta via
(L'Epifania tutte le feste le porta via - Chiavenna)

La Pifanìä tütti 'l fèšt la pórtä viä
(l'Epifania tutte le feste le porta via - Villa di Chiavenna)

Pifanía, tüti ‘l fèšt i-á bófa via
(Epifania, tutte le feste le soffia via - Samolaco)

La befana porta i belée, ma l'e' la mama che la spenti danée
(la befana porta i doni, ma è la mamma che spende i soldi – Ardenno)

Pasquèta l’impienìss la calzèta (l'Epifania riempie la calzetta)

El dé de Pasquèta, ognùn sö la sua bankèta
(il giorno di Pasquetta - Epifania - ognuno sulla sua panchetta, cioè a casa sua - Morbegno)

A Pasquéta ‘l dé l’è cresüt mez’uréta
(all’Epifania il giorno è cresciuto di mezzora – Valmalenco)

Pasquèta n' urèta
(a Pasquetta - cioè all'Epifania - un'oretta, cioè il giorno si è allungato di circa un'ora rispetto al giorno più breve - Morbegno)

A gabinàt, el dì se slunga el pas d' un gat
(al gabinàt il giorno si allunga del passo di un gatto - Traona)

A gabinàt el pas de ‘n gat
(al gabinàt il giorno si allunga del passo di un gatto - Chiuro)

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12 GENNAIO

S’el piöff de San Mudèst la fa püseé maa l'aqua che i tampèst
(se piove il giorno di san Modesto fa più male l'acqua della tempesta - Ardenno)

15 GENNAIO

San Màuro al va a la comandàa, sant’Antónni al va a la töó, san Baš-cèn al va a la pagàa (s. Mauro va a comandare, s. Antonio a prendere, s. Sebastiano a pagare la neve - Villa di Chiavenna)

San Màur mercant de la néf (san Mauro mercante di neve)

17 GENNAIO

S. Antonio abate era figura assai cara alla devozione popolare, in quanto considerato protettore degli animali, soprattutto dall'herpes. Veniva rappresentato con un porcellino, un campanello, un bastone o anche il fuoco in una mano. Nella sua festa questi venivano portati sul sagrato delle chiesette dedicate al santo e solennemente benedetti; i contadini che non potevano portare le loro bestie fin lì, le facevano comunque uscire dalla stalla al rintocco della campanella che annunciava la benedizione.
A Bormio cavalli, muli e somari venivano benedetti sul piazzale della chiesa del SS. Crocifisso, nella contrada di Combo.

Nel "Dizionario etimologico grosino" (Gabriele Antonioli-Remo Bracchi, Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio), leggiamo:
"Secondo una statistica del 1981 nel nostro comune il nome Antonio era portato da 104 maschi e da 33 femmine. Questa diffusione è certamente dovuta alla profonda devozione popolare verso s. Antonio abate, protettore degli animali domestici, la cui festa si celebra il 17 gennaio. In tale occasione vengono benedetti il sale, lo zucchero, la sugna (la sóngia), indumenti e medicinali per le persone e per il bestiame, perché venga preservato da malattie. Questo è l'ultimo giorno per assolvere i pegni contratti a gabinàt e per­tanto può essere considerata l'estrema appendice del tempo natalizio e l'inizio del periodo carnevalesco. Il santo è abitualmente raffigurato dall'iconografia popolare come un vecchio dalla barba bianca, appoggiato a un bordone con un campanello, e con un maiale ai suoi piedi ed è pertanto chiamato con l'appellativo di sant Antòni del purscèl o del campanèl. Sembra che inizialmente il porco indicasse il demonio che aveva tentato invano il Santo durante il suo eremitaggio nel deserto, ma questo significato è andato totalmente scomparendo e il maiale è divenuto invece l'emblema degli animali domestici. A s. Antonio abate è dedicato un altare della antica chiesa di s. Giorgio e la chiesetta alpestre dell'alpe di Biancadìn o Piancadìn in Valgrosina. Al santo ci si rivolge anche per trovare un oggetto smarrito (sant Antoni dela barba biènca, fam truèr quel che al me manca). Quanto alle credenze meteorologiche, per similitudine, si abbina la barba bianca del santo alla neve di cui si ritiene apportatore: sant Antoni e santa Nésa l'é i mercànt dela nef, oppure: sant Antoni dela barba biènca, se nò al ghe n'é, pòch al ghe manca. Ma in prossimità di questa festa possono anche verificarsi delle sciroccate che riducono in fanghiglia la neve presente in paese; da qui il detto: sant Antoni slàper. Per antica consuetudine, regolata da un apposito capito­lo degli statuti comunali, nel giorno di s. Antonio si distribuiva alle porte della chiesa parrocchiale una parte del pane dei legati ad ogni partecipante alla funzione religiosa (cap. 10, ed. 1729). Filastrocche: sant Antoni mio benigno dém la cièf del vostro scrigno, pèr tör su vergót de bèl. Sant Antòni del campanèl, al campanèl al s'é rumpì e sant Antoni l'é fugì, l'é andac' de dré de una pòrta e l'à truài una càura mòrta, l'é vignì un usèl e al n'à fac' una gran pèl, s. Antonio mio benigno prestami la chiave del tuo scrigno per prendere qualcosa di bello. S. Antonio del campanello, il campanello si è rotto e s. Antonio è scappato dietro ad una porta, dove ha trovato una capra morta, è arrivato un uccello e ne ha fatto una scorpacciata."

Dalla prefazione di Remo Bracchi al “Dizionario etimologico grosino”, di Gabriele Antonioli e Remo Bracchi (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio), leggiamo:
"Il carnevale iniziava ufficialmente nella festa di sant'Antonio Abate (17 gennaio), con la sfilata del bestiame adornato di nastri colorati per la benedizione. Faceva parte dei riti agricoli della morte dell'inverno e dell'inizio della bella stagione. Il legame tra morti e fecondità è sottolineato da Eliade (Eliade, Storia 363). A Grosio era in vigore l'antica pratica del caserada di mòrt con preghiere di suffragio per i defunti. Il rituale dell'uccisione dell'inverno si svolgeva con numerosi falò di rovi e sterpaglie, in qualche parte ancora con il rogo del pupazzo che personifica il carnevale. Nella sfilata folcloristica grosina, le maschere tipiche sono al Carnevàl Véc', la Magra Quarésma, la Bernarda bimembre, mezza vecchia e mezza neonato, al Tòni e l'Órs. Come si è visto prima, l'orso entra sempre nei riti dell'inverno. I giovanotti di Tiolo avevano l'uso di strofinare sul volto delle ragazze una stoffa bianca macchiata di nerofumo. A Le Prese e Mondadizza la tinteggiatura è definita come darghe la papa e viene significativamente accompagnata dalla lotta per la conquista dell'aratro. Le giovani potevano replicare allo scherzo soltanto nell'anno bisestile."

S. Antona n'ura bona (A S. Antonio è un'ora buona, cioè il giorno si è allungato di un'ora circa rispetto al solstizio d'inverno del 21 dicembre - Bormio)

A Sant’Antóni, n’óra bóni (A S. Antonio è un'ora buona, cioè il giorno si è allungato di un'ora circa rispetto al solstizio d'inverno del 21 dicembre - Samolaco)

A S. Antoni un'ura bona al fa frecc e nul cuiona
(A S. Antonio un'ora buona, fa freddo e non scherza - Tirano)

S. Antoni padovàn salva nuàlter e al nos besciàm del fok, di ladri, di lof, di can e di mal cristiàn  
(S. Antonio padovano salva noi ed il nostro bestiame, dal fuoco, dai ladri, dai lupi dai cani e dai cattivi cristiani - Grosio)

S. Antoni de la barba bianca u ch' el fioca u pók el manca
(S. Antonio dalla barba bianca, o nevica o poco ci manca)

S. Antòni da la barba ‘giànca, o pröm o dopu la nef nu la manca (sant’Antonio dalla barba bianca, o prima o dopo la neve non manca – Valmalenco)

Sant Antòni da la barba ggiànca u ch’al fiòcca u poch al manca
(Sant'Antonio dalla barba bianca, o nevica o poco manca - Montagna)

Sant’Antòni de la barba bianca, o al fiöca o pòc ghe mànca
(sant'Antonio dalla barba bianca, o nevica o poco ci manca)

Sant'Antòni se la nif non ghè poc ghe mànca
(a sant'Antonio se non c'è la nece, poco ci manca - Sacco, Valgerola)

Sant'Antoni dé la barba bianca, vòtt dé prima e vòtt dé dòpu nun la manca
(Sant'Antonio dalla barba bianca, otto giorni prima o otto giorni dopo la neve non manca)

San Màuro al va a la comandàa, sant’Antónni al va a la töó, san Baš-cèn al va a la pagàa (s. Mauro va a comandare, s. Antonio a prendere, s. Sebastiano a pagare la neve - Villa di Chiavenna)

Sant'Antoni de la barba bianca i è rar i agn che la ghé manca
(Sant'Antonio dalla barba bianca sono rari gli anni nei quali gli manca - Ardenno)

Dopu S. Antoni tücc i dée iè del demoni
(Dopo S. Antonio tutti i giorni sono del demonio, perché è carnevale)

A Sant'Antoni abat el salta fora tucc' i matt
(A S. Antonio abate saltano fuori tutti i matti, perché inizia il carnevale - Bormio)

A Sant'Antoni i se deslìga i màt (a Sant'Antonio si slegano i matti, perché inizia il carnevale - Sondalo)

A Sant’Antòni al sa desgéla ànca i macc'
(a Sant'Antonio si scongelano anche i matti, perché inizia il carnevale - Tirano)

Sant’Antòni da la barba bianca, fam truà quel che me manca, sant’Antòni da la barba grìsa, fam truà quel che gu mìga (Sant'Antonio dalla barba bianca, fammi trovare quel che mi manca, Sant'Antonio dalla barba grigia, fammi trovare quel che non ho - Ardenno)

Sant'Antoni de la barba bianca fam truà quel che me manca, sant'Antoni de la barba grìsa fam truà quel che gù mìga (sant'Antonio dalla barba bianca fammi trovare quel che mi manca, san'Antonio dalla barba grigia fammi trovare quel che non ho - Ardenno)

Sant’Antòne de la bàrba grìsa, mét sü la màglia sóta la camìsa
(Sant'Antonio dalla barba grigia, metti la maglia sotto la camicia - Teglio)

Sant'Antòni uèn debòtt, gòo gni scarpi gni sciambròcc
(sant'Antonio vieni subito, non ho né scarpe né scarpacce - Selve)

Sant'Antòni e San Giuànn, tuca tèra sensa fa dagn
(Sant'Antonio e San Giovanni, tocca terra senza far danni - lo si diceva quando si faceva accidentalmente rotolare qualche sasso - Selve)

Sant’Antòni abate, te guarénti da le mate, dai sciàt e dai bìs e dai fémni che slufìs
(sant’Antonio abate ti guardi dalle matte, dai rospi, dalle bisce e dalle donne che scoreggiano)

Sant’Antòni a mèzz gené, mèrda ‘n buca ai urscelé
(Sant’Antonio a metà gennaio, tempo inadatto per i cacciatori)

Sant’Antoni Paduàn, salva nualter e ‘l nos bes’ciàm dal föch, di ladri, di lüf, di can e di mal cristiàn (sant’Antonio da Padova, salva noi ed il nostro bestiame dal fuoco, dai ladri, dai lupi, dai cani e dai cattivi cristiani)

San Lurénz de la gran caldüra, sant’Antòne de la gran fregiüra, l’ün e l’ótru póch i düra (il gran caldo di San Lorenzo ed il gran freddo di Sant'Antonio durano molto poco - Teglio)

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20 GENNAIO

Si celebra oggi la festa patronale di Villa di Chiavenna, il paese della bassa Val Bregaglia che precede il confine italo-svizzero.

S. Sebastiàn de la viola in man
(S. Sebastiano con la viola in mano)

S. Sebastiàn el sùu in munt e in pian
(S. Sebastiano, il sole al monte e al piano - Morbegno)

A san Baš-cèn un urä de chèen
(a s. Sebastiano un'ora di cane, il giorno si è allungato di una buon'ora - Villa di Chiavenna)

San Sebastiàn con la viöla en màn el su al munt e al piàn
(San Sebastiano con la viola in mano il sole al monte e al piano - Castione)

San Sebastiàa, frècc' de càa (a San Sebastiano fa un freddo da cani)

21 GENNAIO

Si celebra la memoria di Sant'Agnese, rappresentata con un agnello in mano, con un crocifisso, con un giglio o con un libro.

De S. Agnes la luserta la cor gió per la scies
(A Sant'Agnese la lucertola corre lungo la siepe - Montagna)

A Sant'Agnésa, un'ura distésa
(A sant'Agnese un'ora abbondante, cioè il giorno si è allungato di un'ora abbondante dal solstizio d'inverno del 21 dicembre - Bormio)

A sant Antòni un'óra bóna e a santa Nésa un'óra distésa
(a sant'Antonio il giorno si è allungato di un'ora buona ed a sant'Agnese di un'ora distesa - Grosio)

Sant Antòni e santa Nésa l'é i mercànt de la néf
(sant'Antonio e santa Agnese portano neve - Grosio)

22 GENNAIO

San Vincéns de la gran fregiüra, San Lurenz de la gran caldüra, l'ön e l'òtru pòch el düra
(San Vincenzo del gran gelo, San Lorenzo del gran caldo, l'uno e l'altro poco durano - Sirta)

25 GENNAIO

La Conversa de San Pàol la sìghi pür düra ma miga scüra
(la conversione di San Paolo sia pure una giornata fredda, ma non nuvolosa)

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29 GENNAIO

Secondo un’antica credenza diffusa in tutta la Lombardia, i tre giorni più freddi dell’anno sono gli ultimi giorni di gennaio, vale a dire il 29, 30 e 31. Questi giorni sono chiamati anche “giorni della merla”. Un’antica leggenda vuole, infatti, che un tempo una merla, che allora, come tutti gli altri uccelli della sua specie, aveva le piume bianche, per cercare di sfuggire alla morsa del freddo che minacciava di uccidere lei ed i suoi piccoli, cercò rifugio nella parte terminale di un camino, dal quale saliva un denso e caldo fumo nero. Ci stette tre giorni, perché il freddo non accennava a diminuire. Il quarto giorno, finalmente, giunse febbraio, e con esso terminò la fase più intensa del gelo. Un timido sole regalava un primo accenno di tepore. La merla ed i piccoli poterono, così, lasciare il rifugio improvvisato e volar via. Ma l’avventura non fu senza conseguenze: l’intera famigliola, infatti, aveva perso per sempre il bel colore candido delle piume, che erano diventate nere a causa del fumo che le aveva avvolte, salvandole, in quei tre giorni. I merli neri si diffusero sempre di più, tanto che ora tutti i merli sono neri.

Vediamo, ora, cosa scrive Giuseppe Napoleone Besta, nei sui “Bozzetti Valtellinesi” (Bonazzi, Tirano, 1878).
Un freddo rigido e secco penetra nelle ossa e costringe ciascuno a chiudersi nella propria casa. Il ricco nelle sale foderate di legno, al tepore della stufa, passa le giornate e le lunghe sere chiacchierando, leggendo, giocando. L’artista, per quanto glielo concedono i mezzi e il freddo, lavora attizzando di quando in quando il fuoco nel camino della sua cucina; il contadino e il medico riparano nella stalla. I giorni della merla, gli ultimi di gennaio, sono quasi sempre i giorni più rigidi dell’inverno, poiché nel febbraio qualche vento sciroccale tempra la crudezza del clima. In questi dì o presso a poco in questi ogni anno il freddo diventa crudo oltremodo, ed è causa di malattie pericolose. I poveri vecchi, i bimbi tenerelli, sono in quest’epoca fatale rapiti all’amore dei loro cari; ed il becchino ha da rompere le zolle gelate del camposanto, spesso dopo aver da un canto gettato un alto strato di neve per scavare una fossa.
Se avessimo a passare i domestici annali, vedremmo che pur troppo ogni famiglia in questo periodo dell’annata ha una qualche pagina di lutto; e tanti vecchi padri, tante care nonne passarono nel numero dei più! Appunto perciò il buon dottore del villaggio in questa stagione non cessa di raccomandare alle madri vigilanza sui bambini, e a tutti in generale, di none sporsi senza stretto bisogno al freddo intenso; di guardarsi dal repentino passaggio da una tepida ad una gelata temperatura; e tutto questo onde prevenire tossi, catarri, mal di gola, tisi e tutta la catena delle infermità che sono triste retaggio dell’invernale stagione.
Rammentiamo in Valtellina anni parecchi in cui il freddo fu intenso al segno da far morire gli uccelli che non emigrano da questi paesi, da far scoppiare con forte detonazione le piante a cui la bassezza della temperatura raggelò gli interni umori, infine da assiderare sulla via qualche infelice che nella notte non ebbe tempo di porsi al sicuro. Furono pochi tali inverni ma sono pure trascorsi sulla nostra amena vallata.
E un rigido inverno fu quello del 1812, nel quale appunto scoppiavano nottetempo gli alberi nelle pianure di S. Giacomo e della Selvetta, imitando lo sparo dei mortaretti. Il termometro Reamour scese a 20 gradi sotto il gelo. Fu in quell’inverno tremendamente memorabile in cui a mille a mille cadevano gelati nelle incommensurabili steppe dell’Ukrania, coi molti infelici soldati di Napoleone, parecchi dei nostri avi, i di cui pochi sopravvissuti a quell’eccidio, che una fortuna miracolosa aveva risparmiati, ritornarono al tetto natale dopo aver lasciato qualche membro distrutto dal freddo là in quell’immenso cimitero, ove la corona del grande di Corsica perdette parte dei tanti allori. In quegli anni un terribile nemico infestava la nostra vallata. I lupi, i famelici lupi, nei crepacci dei nostri monti, nei burroni delle nostre macchie, tessean carole ululando al chiarore della luna. Nel freddo gennaio, poi, scendevano affamati sui nostri campi; passeggiavano sulle nostre vie; finivano all’uscio dei nostri ovili, in cerca di preda… Il piano della Selvetta è per strane leggende memorabile, come quello in cui avvennero scene di sangue, e nessuno osava temerario avventurarsi di notte in quei paraggi.
Anche nel 1816 un inverno dei più orrendi funestò la Valtellina, quell’inverno che poi preparò la miseria del 1817 di dolorosa memoria.”

31 GENNAIO

Tullio Urangia Tazzoli, ne "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, (Anonima Bolis Bergamo, 1935), scrive:
Ed i giorni s'allungano già. Al 31 di gennaio i ragazzi bormiesi se né vanno per le strade gridando allegri "è fóra Genarùm„! (gennaio se va l) Abitudini comuni anche nelle valli attigue specie nelle alte valli bergamasche e bresciane ove i ragazzi si divertono un mondo facendo i funerali al mese di gennaio al suono di raganelle, fischi, strascichi di catene infernali... et similia. I ragazzi bormiesi sono, forse, più discreti giacché bussano alle porte dando il lieto annuncio... Due giorni più tardi, il 2 febbraio, la gioventù bormiese ripiglia il motivo con altrettanta allegria picchiando di porta in porta e gridando lietamente l'è fora l'urs de la tana! (è fuori l'orso dalla tana) cioè l'inverno, od orso, è ormai snidato... e cacciato.

Riportiamo alcuni passi dal volume “La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, di Tullio Urangia Tazzoli (Anonima Bolis Bergamo, 1935):
Al 31 di gennaio i ragazzi bormiesi se né vanno per le strade gridando allegri "è fóra Genarùm „! (gennaio se va!). Abitudini comuni anche nelle valli attigue specie nelle alte valli bergamasche e bresciane dove i ragazzi si divertono un mondo facendo i funerali al mese di gennaio al suono di raganelle, fischi, strascichi di catene infernali... et similia. I ragazzi bormiesi sono, forse, più discreti giacchè bussano alle porte dando il lieto annuncio...”

Ercole Bassi, ne “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ”, (Milano, Tipografia degli Operai, 1890), a sua volta scrive:
“Alla fine di gennaio si fa lo scherzo: «Fö Genée» (fuori gennaio); cioè si fa tutto il possibile per indurre la persona cui si vuol fare lo scherzo ad uscire di casa, ed allora le si gridano le dette parole.
Uno scherzo simile si usa al 2 febbraio, procurando di far affacciare alla porta o alla finestra la persona cui si vuol fare lo scherzo, poi gli si grida: «È fuori l'orso dalla tana.» Si può di leggieri pensare le astuzie che si dovevano mettere in uso, stando ognuno sull'avvisato.”

Da Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008:
"Giné - sm. sing. gennaio.
Curiosa l’usanza, molto in voga negli anni passati, che consisteva nell’invitare con un pretesto qualsiasi una persona (meglio se era un vecchio un po’ scorbutico) a uscire di casa la sera del 31 gennaio per gridarle allegramente l’è fö el giné (in alternativa, il 2 febbraio: l'è fö l'urs de la tàna). Seguivano le risate, in genere anche di chi era stato vittima del giochetto. Simbolicamente significava che la brutta stagione era ormai passata."

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MESE DI GENNAIO

Com'è gennaio...

Ginée, ginerùn spazza i scrign e i masùn
(Gennaro, gennarone, svuota le dispense - Morbegno e Valle di Morbegno)

Genarùn spàza suléé e balcùn
(il lungo gennaio spazza solai e balconi, riduce le provviste – Ardenno)

A metà ginée, metà fenée
(a metà gennaio è cosumato metà del fieno - Tirano)

L’invernu el l'à mai maià i ratt
(L'inverno non l'hanno mai mangiato i topi - Mello)

Dì crescent, dì spungent
(giorni crescenti, giorni pungenti: a gennaio le giornate si allungano, ma fa molto freddo - Chiavenna)

La néf la maja miga al lóf (la neve non la mangia il lupo - Bormio)

In del més de ginée el gela via i pée
(Nel mese di gennaio gelano i piedi - Caiolo)

‘l ginè ‘l g’ha nöf nevè (a gennaio nevica nove volte – Valmalenco)

Giné e fevré la néf ai pée (gennaio e febbraio la neve ai piedi - Castione)

L'invèrnu i l’à mài maiàt i lüf
(L'inverno non l'hanno mai mangiato i lupi - Albosaggia e Castello dell'Acqua)

El geniér l'è bianc, el febriér l'è pien de vént
(Gennaio è bianco, febbraio è pieno di vento)

Giné fa i punt, fevré i a rump (gennaio fa i ponti, febbraio li rompe - Castione)

El ginée s’ha ‘cciapàl cume l’è
(gennaio bisogna prenderlo come viene - Montagna)

Fiòca, fiòca, bon ginér che gó colsi, e gó colzér, e gó gràn giu nel granér e in cantina un bon biciér (nevica, nevica - pure - buon gennaio, che ho calze e calzari, che ho grano giù nel granaio e in cantina un buon bicchiere)


... e come deve essere

Genar sèk, vilàn rik (gennaio secco, villano ricco - Cagnoletti)

Sot la nef pan, sota 'l gelt fam
(sotto la neve c'è il pane, sotto il gelo la fame - Poschiavo)

La néf angràsa i campàgni (la neve ingrassa la campagna - Tirano)

An de nevàia, an de fenàia
(anno di grandi nevicate, anno di abbondante raccolta di fieno - Gerola)

Gran nevaia, gran fenaia (molta neve, molto fieno - Val Bregaglia)

Néf en giné, gràn a sté (neve a gennaio, grano a staia - Teglio)

Dìu me ‘n sàlve d’en bèl giné (Dio mi salvi da un bel mese di gennaio - Teglio)

Se giné al met èrba, se te g(h)e fen cunserval
(se cresce erba a gennaio, se hai fieno conservalo - Fraciscio)

Un bel ginéer el fa pciànsc in feuréer
(un bel gennaio fa piangere in febbraio - Sirta)

Un bel Ginée el fa piàncc’ in febrée
(un bel gennaio fa piangere in febbraio - Ardenno)

Ginéer de gacc', feuréer de macc'
(gennaio dei gatti, febbraio dei matti, cioè buon gennaio, cattivo febbraio - Sirta)

Se genée nul genégia e febrée nul febrégia marz e april la kùa végia
(Se gennaio non fa il gennaio e febbraio non fa il febbraio, marzo ed aprile propongono una coda dell'inverno - Morbegno)

I lavori da fare...

A piantà i favi de giné, el se fa un bel favé
(se si piantano le fave a gennaio, crescono bene)

Chi ca völ un bèl aié, el le sùmni de giné
(chi vuole un bell’orto lo semini a gennaio)

A piantà i favi de giné, el se fa un bel favé (se si piantano le fave a gennaio si ha un buon raccolto)


... con qualche avvertenza...

I malàgn de ginée i ta ména a l’usée
(i malanni di gennaio ti portano al cimitero - Tirano)

...e ricordando che non c'è solo il lavoro.

Pasèe ‘l d’ Nadèe, ogni végia po’ balèe
(dopo il Natale, ogni vecchia può ballare, cioè è carnevale – Samolaco)

Dopu Natàl tücc i dée iè carnavàl
(dopo Natale tutti i giorni sono carnevale - Campo Val Tartano)

Dopo Natal töcc' i dì l'è carnevàl (dopo Natale tutti i giorni è carnevale - Traona)

Da Natàl a l'Epifanìa se fa minga ecunumìa
(da Natale all'Epifania non si fa economia - Castione)

Dopu S. Antoni tücc i dée iè del demoni
(Dopo S. Antonio tutti i giorni sono del demonio, perché è carnevale)

A Sant'Antoni abat el salta fora tucc' i matt
(A S. Antonio abate saltano fuori tutti i matti, perché inizia il carnevale - Bormio)

A Sant'Antoni i se deslìga i màt
(a Sant'Antonio si slegano i matti, perché inizia il carnevale - Sondalo)

A Sant’Antòni al sa desgéla ànca i macc'
(a Sant'Antonio si scongelano anche i matti, perché inizia il carnevale - Tirano)

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Da "Lombardia" (nella collezione almanacchi regionali diretta da R. Almagià), Paravia, Milano, Torino, Firenze, Roma, 1925:






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I PROVERBI SONO IN GRAN PARTE TRATTI DAI SEGUENTI TESTI:

Gaggi, Silvio, "Il volgar eloquio - dialetto malenco", Tipografia Bettini, Sondrio, 2011
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996)
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003
Pier Antonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pier Antonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pier Antonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Pier Antonio Castellani, "Detti e citazioni della Valdidentro", I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Luigi Godenzi e don Reto Crameri, "Proverbi, modi di dire, filastrocche raccolti a Poschiavo, in particolare nelle sue frazioni", con la collaborazione di alcune classi delle Scuole di Avviamento Pratico, Tip. Menghini, Poschiavo (CH), 1987
Lina Lombardini Rini, "Favole e racconti in dialetto di Valtellina", Edizioni Sandron, Palermo-Roma, 1926
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)


Utilissima anche la consultazione di Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001

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PRINCIPALI TESTI CONSULTATI:

Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
Tullio Urangia Tazzoli, "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, Anonima Bolis Bergamo, 1935;
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996);
Giuseppina Lombardini, “Leggende e tradizioni valtellinesi”, Sondrio, ed. Mevio Washington, 1925;
Lina Rini Lombardini, “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950;
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice;
Glicerio Longa, "Vocabolario Bormino”, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913;
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000);
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – Fidanzamento e matrimonio” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2004);
Luigi De Bernardi, "Almanacco valtellinese e valchiavennasco", II, Sondrio, 1991;
Giuseppe Napoleone Besta, "Bozzetti Valtellinesi", Bonazzi, Tirano, 1878;
Ercole Bassi, “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ”, Milano, Tipografia degli Operai, 1890;
"Ardenno- Strade e contrade", a cura della cooperativa "L'Involt" di Sondrio;
"Castione - Un paese di Valtellina", edito a cura della Biblioteca Comunale di Castione, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario di Sondrio;
don Domenico Songini, “Storie di Traona – terra buona”, vol. II, Bettini Sondrio, 2004
;
don Domenico Songini, “Storia e... storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001;
Scuola primaria di Sirta: calendari 1986 e 1991 (a cura dell'insegnante Liberale Libera);
Luisa Moraschinelli, “Uita d'Abriga cüntada an dal so dialet (agn '40)”;
Giovanni Bianchini e Remo Bracchi, "“Dizionario etimologico dei dialetti della Val di Tartano”, Fondazione Pro Valtellina, IDEVV, 2003;
Rosa Gusmeroli, "Le mie care Selve";
Cirillo Ruffoni, "Ai confini del cielo - la mia infanzia a Gerola", Tipografia Bettini, Sondrio, 2003;
Cirillo Ruffoni, "Chi va e chi resta - Romanzo storico ambientato in bassa Valtellina nel secolo XV", Tipografia Bettini, Sondrio, 2000;
Cirillo Ruffoni, "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento", Tipografia Bettini, Sondrio, 1998;
Mario Songini (Diga), "La Val Masino e la sua gente - storia, cronaca e altro", Comune di Val Masino, 2006;
Tarcisio Della Ferrera, "Una volta", Edizione Pro-Loco Comune di Chiuro, 1982;
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003;
Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001;
Associazione Archivio della Memoria di Ponte in Valtellina, "La memoria della cura, la cura della memoria", Alpinia editrice, 2007;
Luisa Moraschinelli, "Come si viveva nei paesi di Valtellina negli anni '40 - l'Aprica", Alpinia editrice, 2000;
Aurelio Benetti, Dario Benetti, Angelo Dell'Oca, Diego Zoia, "Uomini delle Alpi - Contadini e pastori in Valtellina", Jaca Book, 1982;
Patrizio Del Nero, “Albaredo e la via di San Marco – Storia di una comunità alpina”, Editour, 2001;
Amleto Del Giorgio, "Samolaco ieri e oggi", Chiavenna, 1965;
Ines Busnarda Luzzi, "Case di sassi", II, L'officina del Libro, Sondrio, 1994;
aa.vv. “Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio” (Silvana editoriale, 1995) Pierantonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996 Pierantonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999 Pierantonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Pietro Ligari, “Ragionamenti d’agricoltura” (1752), Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1988
Saveria Masa, “Libro dei miracoli della Madonna di Tirano”, edito a cura dell’Associazione Amici del Santuario della Beata Vergine di Tirano” (Società Storica Valtellinese, Sondrio, 2004)
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890

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