Accanto ai numerosi motivi di interesse storico che Chiavenna offre ai visitatori, vi sono anche diverse curiosità. Una, in particolare, colpisce per la sua singolarità: su diversi portoni di diverse dimore, dense di storia illustre, troviamo, al posto del classico battente, una figura di serpe in ferro battuto. Stupisce la scelta, se si pensa che il serpente è uno dei più classici simboli del male, nella sua forma insinuante, subdola e repellente. Evidentemente la serpe posta a guardia di questi portoni assume una diversa valenza, si carica di un significato protettivo o, come si dice con parola un po' difficile, apotropaico (serve a tener lontane le influenze malefiche).
Un’antica leggenda (rielaborata da Alfredo Martinelli nella raccolta "L'erba della memoria - Leggende e racconti valtellinesi", Piccolo Tibeti, Milano, 1964, pp. 205-211) spiega l’origine di tale significato. Essa narra di un tempo nel quale i Chiavennaschi dovettero subire le conseguenze negative di una vera e propria invasione di moscerini e piccoli insetti, conseguenze non solo fastidiose, ma anche disastrose per l’agricoltura: gli indesiderati ospiti, infatti, banchettavano alle spalle delle fatiche e del sudore dei contadini, prendendo d’assalto i raccolti, ed in particolare la frutta e la verdura. Si trattava di un vero flagello biblico, ed i Chiavennaschi, dopo averle provate tutte per liberarsi degli insetti, si rivolsero, esasperati, ad un mago che aveva fama di potente operatore di sortilegi e magie.
Costui amava parlare per enigmi, ed enigmatica fu la risposta che diede loro: si limitò a chiedere se avessero visto una serpe bianca, senza aggiungere null’altro che potesse chiarire il senso delle sue misteriose parole. I Chiavennaschi rimasero assai stupiti di fronte ad esse, ma non osarono chiedere di più, limitandosi a rispondere che di serpi se ne potevano vedere molte, ma di bianche non se n’erano mai viste. Se ne tornarono, quindi, a casa, convinti che il mago non volesse o non potesse aiutarli. Lo stupore aumentò, poi, quando videro il mago entrare nella cittadina, la sera di quello stesso giorno, chiamando a raccolta la gente intorno a sé. Cosa stava accadendo? Il mago ci aveva ripensato? Egli, incurante degli occhi dai quali trasparivano questi interrogativi, chiese, con voce ferma, che si preparasse un grande falò. Nessuno osò chiederne la ragione, e la catasta di legna fu preparata. Egli stesso appiccò il fuoco, e questo divampò, diffondendo i suoi bagliori nelle ombre della sera.
Ad un certo punto il mago estrasse dal suo mantello uno strumento magico, e cominciò ad intonare una melodia. Una melodia strana, che non si era mai udita, una melodia magica, che evocò, dal fuoco, un essere misterioso. All’inizio non si riusciva a distinguere cosa fosse quell’essere che prendeva forma fra le fiamme, poi la sua forma si fece più chiara, più definita. Era una serpe bianca, la serpe bianca di cui aveva parlato il mago. Il misterioso animale, guizzando fra le fiamme, attirò tutti gli insetti ed i moscerini che avevano infestato la zona. Tutti, proprio tutti, furono così inghiottiti dalle fiamme e sparirono, per sempre. Gli abitanti di Chiavenna avevano assistito alla scena, e rimasero sbigottiti.
Non si erano ancora ripresi dallo stupore, quando accadde qualcosa di ancor più prodigioso: il fuoco si era fatto ancora più vivo, quasi accecante, e la serpe, che sembrava fare tutt’uno con il fuoco, si protese in direzione del mago, lo avvolse nelle sue spire e lo trascinò nel cuore delle fiamme. Tutto questo accadde in pochi istanti. Il mago, sempre avvolto nelle spire della serpe, cominciò ad ardere, consumandosi, e con lui si consumava anche la serpe. Alla fine non si vedevano che le fiamme: la serpe ed il mago erano spariti. Anche le fiamme cominciarono a spegnersi, rapidamente, lasciando, sotto lo sguardo degli esterrefatti presenti, il posto ad un gran mucchio di tizzoni fumanti.
Immaginate, ora, cosa poteva passare nella mente di coloro che avevano assistito agli eventi di quella serata prodigiosa. I pensieri si rincorrevano, e con essi i contrastanti sentimenti di sollievo e timore, sollievo per la fine del flagello degli insetti distruttori, timore per la fine miserevole del mago.
Ma il pensiero dominante riguardava la misteriosa serpe bianca: cos’era? Quale significato aveva? In alcuni prevalse l’idea che essa fosse la manifestazione visibile della forza magica evocata dal mago, che aveva liberato la città dagli insetti nocivi, altri preferirono pensare che fosse una forza magica che aveva punito il mago per aver attuato un sortilegio empio e, probabilmente ingannatore: forse, infatti, egli intendeva impadronirsi della città, dopo averla liberata, e soggiogarne gli abitanti, forse era stato addirittura lui a scatenare, con le sue pratiche magiche, l’invasione degli insetti, che nulla aveva di naturale. In entrambi i casi, la serpe bianca venne vista come forza protettiva, vuoi contro gli insetti, vuoi contro i malefici e le pratiche magiche subdole ed ingannatrici. E come tale venne posta sull’uscio di diversi palazzi.
Ma sembra che non sia bastato: tutto era nato da un'invasione di insetti nocivi all'agricoltura, e queste invasioni, magari di proporzioni più ridotte, ma pur sempre preoccupanti, proseguirono. Il rapporto fra insetti e uomini è spesso stato assai teso (almeno visto dalla parte dell'uomo). Si credeva, in particolare, che alcuni insetti fossero prodotto dell'intervento diretto delle forze malefiche. I vermi della frutta, per esempio, erano attribuiti all'azione diabolica delle streghe nel sabba della notte di San Giovanni Battista (21 giugno), la notte più corta dell'anno, nella quale le forze delle tenebre scatenavano la controffensiva contro quelle dirompenti dlla luce. A volte l'atteggiamento superstiziono od irrazionale induceva a comportamenti che, con la mentalità dei giorni nostri, stentiamo a comprendere. Tale è la storia del processo alle gatte o gattane (i bruchi). La racconta Bruno Credaro (in "Chiavenna", Lecco, 1957), cui cediamo volentieri la parola.
Nell'anno di grazia 1659 "si presentano... al commissario di Chiavenna i consoli della stessa città, di Mese, di Gordona, di Prata e di Samolaco per denunciare, non indovinereste mai, le "gatte", i bruchi che stanno devastando tutte le ortaglie, i frutteti e i boschi del territorio. Domandano che contro di loro il magistrato sporga regolare denuncia per i danni e che questa sia affissa a un albero per ognuno dei Comuni, con l'invito alle accusate a nominarsi un difensore il quale dimostri, se ne sarà capace, che loro esercitano un diritto conferito da madre natura, che di nessun danno sono colpevoli e che perciò non devono essere espulse dai terreni coltivati e relegare nei boschi. A questo punto si sarebbe indotti a credere che la denuncia fosse il naturale prodotto di quel buon umore che agli amici chiavennaschi non è mai mancato. ma non è così: il signor commissario prende le cose molto sul serio e celebra il processo per direttissima: il giorno dopo il suo messo ha già affisso il manifesto sugli alberi. Quattro giorni dopo compaiono i querelanti assistiti dal loro avvocato davanti al giudice; le povere "gatte" smettono, in grande agitazione, di rosicchiare i cavoli negli orti; sono inquiete ben a ragione, anche perché non risulta dai verbali che avessero trovato un avvocato difensore e nemmeno che ne fosse stato nominato uno d'ufficio. La sentenza è formalmente contro di loro: il giudiche si rifà alla Genesi per osservare che anche i bruchi hanno un posto nel quadro delle creature, ma che l'uomo (sempre lui, questo prepotente) ha sugli altri esseri diritti prevalenti, come dimostra tutte le volte che va a caccia o pesca. Perciò le "gatte" saranno a buon diritto eliminate dagli orti e dai frutteti; non senza però che siano assegnate a loro zone boscose, diligentemente enumerate, dove possano vivere in pace: saggia sentenza, alla quale non manca un certo tono francescano e che anticipa i criteri che governano al tempo nostro i parchi nazionali".
Ma le apparizioni del male in quel di Chiavenna non si limitano alle pervicaci "gattane", che, ovviamente, disattesero sentenze ed ingiunzioni, da esseri pervicaci ed irragionevoli che erano (e che sono). Altre leggende parlano dell'espressione massima del male, il diavolo, che si manifesta in divese forme. La più divertente è, forse, quella del gaudente del crotto. Una volta, raccontano, da un crotto che stava un po’ fuori Chiavenna, in direzione di Piuro, uscì un omone che teneva in una mano violini di capra e bresaole, nell’altra un enorme boccale di birra. Sembrava un tipo gioviale, di quelli che amano far baldoria in compagnia. Vide due giovani e li invitò ad entrare nel crotto per festeggiare con lui qualunque cosa volessero festeggiare: ogni pretesto era buono per far bisboccia, offriva lui. I due si lasciarono trascinare dalla sua esuberante allegria, e si decisero a seguirlo. In quel mentre, però, sopraggiunsero le ragazze dei due e, vista la scena, si misero ad urlare con quanto fiato avevano, invocando la Madonna. I due giovani all’inizio rimasero sbigottiti, ma subito compresero: dal crotto uscì una gigantesca fiammata, che riuscirono ad evitare con un balzo all’indietro; l’omone, a sua volta, cacciò un urlo terribile, disumano, come una bestia ferita. Dalla Mera si levò, infine, un’onda gigantesca, che si portò via il crotto in fiamme ed il diabolico tentatore. Alla fine fu chiaro che quella era una specie di porta dell’inferno e che i due giovani stavano per seguire il diavolo stesso, rischiando di farsi portar via da lui.
Un altro chiavennasco, tal Quirolo, è protagonista di questa edificante storia, rielaborata anche da Alfredo Martinelli nella sua raccolta “L’erba della memoria – Leggende e racconti valtellinesi” (Tip. Mevio Washington, 1964, pp. 139-147). Costui, per avere soldi, fama e potere, aveva venduto l’anima al diavolo. Un tema classico, all’origine di tante altre storie. Ma questa ha una particolarità: voleva che anche la moglie facesse la stessa cosa. Lei, invece, non ci pensava neppure: pia e devota com’era, per nulla al mondo, neppure per tutto il mondo si sarebbe allontanata dalla grazia divina. Così soffriva, sia per la scellerata scelta del marito, sia per la sua insistenza, che la rattristava profondamente. Decise, dunque, ci implorare l’aiuto della Madonna. Fingendo di accondiscendere al suo volere, andò con lui ad un luogo fissato per l'appuntamento con il diavolo. Ma aveva un piano: risalendo la Valle di San Giacomo, passò vicino al Santuario di Gallivaggio, e gli chiese di poter entrare a pregare per l'ultima volta. Questi, di malavoglia, accondiscese, standosene, com’è ovvio, fuori, perché al fumo delle candele, dopo il patto con il Maligno, non poteva più resistere. Era il mese di maggio, il mese mariano, e la donna entrò nel santuario, piangendo e pregando con fervore la Madonna, che l'ascoltò. Fece calare, infatti, su di lei un sonno profondo ed apparve dentro le sue sante mura, assumendo un aspetto identico a quello della pia donna. Poi, mentre questa dormiva, uscì fuori ed andò incontro al marito, pronta per riprendere il cammino. Quando i due raggiunsero il luogo dove il Diavolo di attendeva, questi si accorse subito di non avere di fronte una comune donna, bensì la Madre di Dio: appena la vide, fece un gran balzo indietro e cominciò a dimenarsi furiosamente, sentendosi ingannato. Fuggì, quindi, verso la Val Rabbiosa, aprendosi, nel cuore della forra del torrente omonimo, una via per tornare all'inferno, un'orrida spaccatura che mai vide, da allora, la luce del sole né mai incontrò sguardo d'uomo. Quirolo aveva assistito alla scena senza poter neppure muovere labbro per la sorpresa. Quando il Diavolo fu sparito, balbettò qualcosa che doveva essere una domanda rivolta alla moglie. In quell'istante la donna si trasfigurò, vestendosi di luce e mostrando una rosa dalla quale stillava una goccia di sangue. La rosa di maggio, il mese mariano. Poi sparì. Al suo posto, ecco venirgli incontro la moglie, con mesto sorriso. Quirolo comprese, si pentì amaramente e da allora rinunciò a soldi, fama ed onore. Del Diavolo più nulla si è saputo; ma nessuno osa indagare troppo la faccenda, perché la spaccatura nel cuore della Val Rabbiosa incute in tutti il più profondo terrore.
Non dobbiamo, però, pensare che Chiavenna abbia dato origine a storie di segno negativo o grottesco. Piace chiudere con una storia edificante, che ha come protagoniste le cave di Chiavenna, dalle quali veniva estratta la famosa pietra verde, cioè la pietra ollare, lavorata ed esportata nel bacino padano fin dall'epoca romana. Si tratta vero e proprio miracolo, narrato da San Pier Damiani. Sul finire del secolo X, racconta questi, un grande masso si staccò dal fianco del monte e seppellì uno degli scalpellini, che  però non fu schiacciato, ma intrappolato in una grotta senza uscita. Venne pianto come morto, ma un anno dopo, scavando in quel medesimo luogo, fu ritrovato vivo. Agli stupefatti salvatori raccontò di essere stato nutrito, per tutto quel tempo, da una colomba che, entrando da un pertugio, gli aveva portato soavissimo cibo,  tutti i giorni, tranne uno: un miracolo! Si seppe, poi, che l’intervento celeste era stato mosso dalla moglie, la quale tutti i giorni, tranne uno, aveva fatto dire una messa per lo sventurato marito.

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