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Nella zona orientale della Costiera dei Cech il tema predominante delle leggende sembra essere legato ad esseri fantastici, bizzarri, inafferrabili.
La palma del primato spetta al celebre Gigiàt, di cui molti parlano, anche se ben pochi possono avere l’ardire di averlo visto. Pare proprio che di Gigiàt ne esistano due specie: l’una, più nota, è quella della Val Masino, l’altra quella che ha attecchito fra i monti della Costiera dei Cech. Il primo Gigiàt è un essere esageratamente grande, un incrocio fra un caprone ed un camoscio (o stambecco), dal pelo lunghissimo (che si fa tosare ogni primavera) e dalle dimensioni gigantesche, tanto da poter attraversare un’intera valle con pochi balzi.
Il secondo Gigiàt, invece, è esageratamente piccolo. Molti dicono che si nasconda anche sotto le foglie di castagno e di lì osservi, curioso ed impertinente, i faticosi passi dei contadini. Lo si sente, più che vedere, fra i Cech: se senti, d’improvviso, uno zufolo che ricama una melodia allegra, o una risata argentina ed impertinente, è lui. Ma, quando volgi lo sguardo per vedere dov’è, lui è già scomparso, come uno gnomo, un folletto. Eppure non è né gnomo, né folletto. È più simile al bagliore, che guizza, repentino, nel cuore del meriggio, e quando te ne accorgi, è già passato.
Bisogna avere rispetto per lui, perché, per quanto dispettosa, la sua presenza è legata alla buona sorte, agli abbondanti raccolti, alla vitalità che prorompe gioiosa. Per tenerselo buono, i contadini gli offrono dei doni: in autunno lasciano i grappoli migliori fra i filari ed in inverno portano nelle selve forme di matusc e mucchietti di castagne, perché non se ne vada in posti più caldi e non lasci quella terra nella quale inventa sempre nuovi ed inaccessibili nascondigli.
Uguale mistero circonda la figura dell’”umetìn de pesolda”, l’ometto della pineta, che, raccontano, di prima mattina, quando tutti ancora dormono e la luce del giorno ammicca appena, incerta, si affaccia alla piazzetta che sta di fronte alla chiesa di Cadelsasso, si assicura che nessuno possa vederlo e beve alla fontana. Chi riesce a sorprenderlo (ma ben pochi ci riescono) potrà godere di buona sorte.
Ma non tutti i misteriosi esseri dei Cech sono benevoli. Ecco una storia più inquietante. Si tratta della storia dell’”om cui pè de caval”, l’uomo con i piedi da cavallo, raccontata da Renzo Passerini nel numero di febbraio 1995 del Gazetin. L’ambientazione è rappresentata dai boschi del Culmine di
Dazio, o Colmen. Viveva qui, in un tempo di cui appena si conserva la memoria, un uomo che aveva avuto in sorte, al posto dei piedi, un paio di grossi zoccoli in tutto e per tutto identici a quelli dei cavalli. Con estremità di quel genere, non c’era calzatura che potesse indossare, per cui era costretto ad andarsene in giro mostrando quei rumorosi e comici zoccoli. In breve era diventato lo zimbello di tutti, e ciò l’aveva indotto a nascondersi nei boschi, a fuggire la gente.
La solitudine l’aveva inselvatichito ed incattivito. Si era fatto anche brutto a vedersi, ricoperto di un pelo ispido e di una barba incolta. Alla fine, per tutti fu semplicemente lo stregone. Uno stregone cattivo, che lanciava occhiatacce sinistre a chiunque si imbattesse sul suo cammino, e che si aggirava, senza fissa dimora, non solo nei boschi della Colmen, ma anche in quelli sopra Dazio e nella Valle di Spluga, la bellissima e selvaggia valle che si apre sopra Cevo, all’ingresso della Val Masino. Aveva preso di mira soprattutto le donne, probabilmente per il risentimento che nutriva nei loro confronti, lui che, a causa dell’aspetto, non ne aveva mai trovata una che l’avesse degnato di uno sguardo. Si appostava, quindi, per cercare di sorprenderne qualcuna sola, e la spaventava con parole e scherzi volgari, scurrili. Ben presto divenne il terrore del gentil sesso in tutta la zona.
D’estate, in particolare, imperversava negli alpeggi della Valle di Spluga, all’alpe Cavislone, all’alpe Desenigo ed a quella di Spluga, prendendo di mira ragazze e donne che, da
Biolo
, Piazzalunga e Cevo vi si recavano, soprattutto alla fine della stagione, quando dovevano andare in cerca delle capre, per recuperarle. Non se ne poteva più.
Per porre fine a questo tormento, alcune donne decisero di recarsi da un santo eremita, che da molti anni viveva di rinunce e preghiere al “Purscelin”, la località Porcellino, posta e mezza costa sul fianco meridionale della Colmen. Lo trovarono intento alla preghiera, e non osarono rivolgergli la parola prima che l’avesse terminata. Esposero, quindi, il motivo della loro angoscia. Il santo eremita stette qualche istante come immerso in una profonda meditazione, poi disse: “L’uomo con il quale avete a che fare non è un uomo comune, ma si è votato al male e la sua anima è del Maligno. Non potrete liberarvi di lui se non con la forza della fede, e per farlo dovrete recitare un rosario quando passerete nei luoghi dove può sorprendervi. E se lo vedrete, gli mostrerete la corona ed il crocifisso che porterete sempre con voi. In questo modo non potrà farvi alcun male”.
Così fecero. Armate di corona e crocifisso, salirono agli alpeggi, attendendo lo stregone con i piedi di cavallo. Quando costui balzò fuori per oltraggiare una di loro, che, recitando Ave Marie, saliva su una balza alla ricerca delle sue capre, costei gli mostrò corona e crocifisso, che teneva nell’una e nell’altra mano. L’effetto fu immediato: come folgorato, lo stregone fu scosso da un tremito, indietreggiò, bestemmiò, fuggì nel cuore dei boschi, che parvero inghiottirlo. Da allora, infatti, non fu più visto.
In segno di ringraziamento fu allora edificata, nei pressi del Ponte del Baffo, in Val Masino, ad un tornante della strada che sale da questa località a Cevo, una cappelletta. Il timore dello stregone si conservò per molto tempo, e, con esso, la consuetudine, ancora viva fra le donne fino a non molto tempo fa, di recitare il rosario alla cappelletta e di salire agli alpeggi della Valle di Spluga con il rosario a portata di mano.

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