Fra le tante leggende legate al territorio di Cosio Valtellino, ne raccontiamo una legata alla figura di un imbroglione ed ambientata nell’ampia e bellissima alpe Olano, ai piedi del pizzo omonimo. La prendiamo dalla bella raccolta intitolata “Gh’era na volta”, di Renzo Passerini. Il florido alpeggio, dove si produceva e si produce ancora dell’ottimo Bitto, apparteneva, in passato, alla curia di Cosio Valtellino. La sua amministrazione passò di mano in mano, senza che alcuno avesse mai di che lagnarsi. Finché capitò in quelle di un tal Bellotti, della famiglia detta dei Pedrinai, di Sacco, analfabeta ma assai abile nel fare i conti. Costui era un uomo tanto scaltro quanto disonesto, ed architettò un piano ingegnoso per truffare la curia. Nei suoi rendiconti periodici cominciò ad inserire sistematicamente spese inesistenti e costi gonfiati, riducendo, per contro, deliberatamente le cifre effettive dei ricavi. Di un alpeggio florido nella realtà fece, quindi, un’impresa sulla carta in perdita. Ed al preoccupato prevosto di Cosio Valtellino, che non sapeva spiegarsi la cattiva china che avevano preso quei conti, seppe dare spiegazioni tanto inventate quanto plausibili, fino a convincerlo che, alla fin fine, quell’alpeggio era solo una macchina per accumulare debiti su debiti, per cui sarebbe stato un affare disfarsene. Gli prospettò, quindi, che molte famiglie di Sacco erano interessate all’acquisto: solo questi contadini, che abitavano vicino all’alpeggio, avrebbero potuto, non senza grandi sacrifici, tornare a farlo fruttare.
Il prevosto ci pensò non una, ma più volte, perché non era cosa su cui decide alla leggera, ma alla fine accettò di firmare la cessione dell’alpeggio, con regolare atto notarile, ad alcune famiglie di Sacco. Pensava di essersi tolto un peso, e per un bel pezzo dormì tranquillo. Poi alcune voci che gli erano giunte all’orecchio cominciarono a turbare i suoi sonni: dicevano, queste voci, che in quel di Sacco le famiglie che avevano acquistato l’alpeggio se la passavano decisamente meglio che in passato, perché gli affari andavano a gonfie vele. Ed aggiungevano, maligne come solo le voci di paese sanno essere, che se la ridevano alle spalle del prevosto di Cosio Valtellino e della sua dabbenaggine. Questi decise, dunque, di vederci chiaro, e scoprì l’inganno: altro che spese, altro che debiti! Quell’alpeggio valeva una fortuna. Ed ormai era troppo tardi per recuperarla. Non poteva, però, l’imbroglione passarla liscia. Venne, quindi, con atto solenne scomunicato e radiato dalla Fabbriceria della Chiesa. Ma la punizione non si fermò qui: il prevosto vi aggiunse, per soprammercato, una bella (si fa per dire) maledizione post mortem: dopo il trapasso l’imbroglione sarebbe stato condannato ad aggirarsi senza pace su un carrozzino di un rosso fiammante, trainato da un cavallo nero, in quel medesimo alpeggio di cui aveva fraudolentemente privato la curia, fino al giorno nel quale questa non gli avesse concesso il perdono.
E così accadde. Dal giorno della morte del disonesto amministratore sull’alpeggio e nei suoi dintorni cominciarono ad accadere cose inquietanti, ed ancora oggi accadono nelle notti di luna piena. Terminata la stagione estiva, quando le mucche sono ridiscese a Sacco e sull’alpeggio restano solo il caricatore d’alpe e il casinée per stà endrée, cioè per far pascolare a poche bestie l’erba rimasta, a notte fatta si odono cigolare le ruole del “birücìn de ulàa”, cioè del carrozzino del monte Olano (così viene chiamato). Sui ciottoli delle mulattiera che portano all’alpeggio si odono, poi, gli zoccoli del cavallo e qualcuno testimonia di aver visto il sinistro profilo del carrozzino correre sul sentiero di Val Giöta, sulla cima della Bianca e sulla Motta. La leggenda vuole che nel carrozzino vaghi l’anima in pena dell’amministratore disonesto, in attesa del giorno del perdono. Che, dice sempre la leggenda, probabilmente non verrà mai.

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