Cosa accade alle anime dopo la morte? Nella visione teologica cristiana più antica, l’alternativa è secca: sono giudicate degne dell’eterna beatitudine del Paradiso, oppure meritevoli dei supplizi eterni dell’Inferno. Nei secoli dell’alto medioevo cominciò, poi, ad essere elaborata la dottrina teologica del Purgatorio, cammino di purificazione che può essere lungo e doloroso, ma che ha come esito la luce della salvezza.
Anche la fantasia popolare, però, elaborò, nei secoli, una sua ingenua ed immaginifica visione dei destini oltre la morte. L’esito più interessante di tale elaborazione è, in Valtellina, la credenza nei cunfinàa, o confinàa, cioè nelle anima “confinate”, relegate in luoghi tutt’altro che accoglienti, per scontare lì l’eterna pena meritata. In questa credenza si fondono più motivi. Il principale è il tema dello spirito malvagio che abita i luoghi più paurosi o remoti, dai quali, se possibile, è bene tenersi lontani. Ma sul modo in cui lo spirito vive il suo esilio eterno sussistono diverse varianti.
La più “logica” lo presenta (o li presenta, perché spesso si tratta di una “colonia” di spiriti) inchiodato ad una pena faticosa e disperata (spesso cavare oro o metalli, spaccare pietre, battere con mazze contro macigni, portare enormi massi sulle spalle, portare carichi d’oro da versare in una voragine senza fondo, tutte attività penose che si ripetono di notte in notte, sempre eguali e prive di senso, e che richiamano l’antico mito greco di Sìsifo). Talora questa pena corrisponde al criterio del contrappasso: gli avari, per esempio, dovranno cavare, con un’eterna ed insensata fatica, oro.
Ci sono anche versioni secondo le quali questa condizione non è eterna, ma corrisponderebbe ad una periodo di espiazione che alla fine dona all’anima la necessaria purezza per salire a Dio. Secondo altre ancora, infine, questi spiriti conservano una certa libertà, e continuano a manifestare la loro malvagità a danno degli uomini, spaventandoli con rumori od urla, mettendo a soqquadro le baite, ostacolando in vario modo il loro transito in certi luoghi o le loro attività (in genere, rovesciando loro addosso massi). Questa credenza sembra esprimere un’idea del genere: ci sono persone talmente cattive che si fatica a pensare che smettano di fare del male dopo la morte. Unico, ma sicuro modo per difendersi, è la preghiera, anche nella forma estremamente sintetica del segno di croce.
Leggermente diversa è la spiegazione dell’esistenza dei confinati che ci viene offerta da Aurelio Garobbio, uno dei maggiori studiosi dell’universo immaginario dell’arco alpino, il quale, nella bella raccolta “Montagne e Valli incantate”, (Rocca San Casciano, Cappelli, 1963, pp. 97-98), scrive: “Chi si è macchiato di gravi colpe deve scontare una pena e la pena è in proporzione alla colpa. Se i penitenti rimanessero tra i vivi, turberebbero la loro pace rendendo impossibile la vita. Anche a questo la suprema giustizia ha pensato, ed ha confinato i colpevoli in località appartate, lontane dal mondo dei viventi... L'intera notte dura il febbrile lavoro: devono riportare in alto i massi che il torrente nella sua furia ha precipitato giù per la valle. Qualcuno se li carica sulle spalle, e sono i blocchi piú piccoli; in due, in tre, in quattro — se in due, in tre, in quattro hanno violato leggi dell'onestà e della bontà — si aggrappano ai massi grossi e non riuscendo a sollevarli li fanno rotolare sul terreno. Vana è però la fatica! Solo nelle tenebre le ombre possono operare; con le luci antelucane sono costrette e dileguarsi, mentre i massi spostati o trascinati ritornano al posto di prima.” Ma la sostanza della cosa è sempre la medesima: il confino è una pena assegnata dalla giustizia divina, pena che viene espiata in luoghi remoti, ma non del tutto privi di presenza umana, pena che può protrarsi in eterno oppure avere un termine quando l’anima ha riscattato le proprie colpe.
Molti sono i luoghi legati a tale credenza. In alta Valtellina possiamo ricordare la val d’Uzza, la val Vitelli, i boschi di Pezzel, il monte delle Mine ed il pizzo Bianco in Val Viola Bormina. 
Diversi sono i luoghi di confino anche in Media Valtellina. I più famosi sono la Val di Togno, dove sono relegati i golosi, ridotti ad essere divorati da una fame senza fine ed a contendersi i magri pascoli, e l’alta valle di Postalesio. Qui, sul lato occidentale, ai piedi del passo di Scermendone e dei Corni Rossi, si trova un pianoro nascosto, detto Piana dei Dannati o Piana di Zana, che ospita i cunfinàa dei Corni Rossi, o Corni Bruciati. Chi passasse di qui nottetempo potrebbe udirli battere senza sosta le loro mazze sulle innumerevoli pietre che disseminano una vasta ganda, in una terra che sembra davvero dimenticata da Dio e dagli uomini.
Raccontano pure che anche il versante opposto dei Corni Bruciati, quello che guarda alla Valle di Preda Rossa, sia un luogo che la volontà divina ha destinato alla punizione di queste anime in pena: anche qui l'attività notturna non ha tregua, ed il viandante che si trovasse a passare potrebbe sentirne il suono sinistro.
Si badi che i confinati dell'ampio circondario dei Corni Bruciati non sono esseri di per sé pericolosi: la loro presenza può far tremare, ma non si ricordano atti ostili verso viventi. Chi, però, sentito il sinistro batter di mazza, non volesse subito allontararsi ma, per soddisfare un'insana curiosità, volesse vedere l'aspetto di quelle infelici anime, badi bene a non raccontare a nessuno l'arcana esperienza: se, infatti, ne facesse parola ad altri, verrebbe condannato, dopo la morte, a condividere la loro triste condizione.
Nella "Guida alla Lombardia misteriosa", edita da Sugar (Milano, 1968, pg. 400-401) leggiamo una conferma di questa importante verità (teniamola presente, potrebbe tornarci utile). Vi si parla dei confinati relegati nei boschi poco sopra Berbenno e condannati a tracciare strani geroglifici o a battere con le mazze sulle poche rocce affioranti. Chi li ha visti racconta che hanno in testa un berretto verde e che, sorpresi, portano il dito alla bocca intimando il silenzio, senza profferire parola. Non tutti questi confinati sono, però, condannati per l'eternità: alcuni, e fra essi i soldati caduti combattendo contro gli eretici Grigioni senza aver prima ottenuto l'assoluzione da un confessore, espiano le loro colpe, ma alla fine otterranno il perdono divino.
Spostiamoci, ora, in alta Valmalenco, e precisamente in quella valle del Muretto che, a nord di Chiareggio, è una delle più agevoli porte naturali fra versante retico italiano e svizzero. Si tratta di una valle legata alla travagliata storia dei contrasti fra cattolici valtellinesi e protestanti della Lega Grigia, al tempo in cui questa dominava la Valtellina. Di qui passò, prigioniero, l'arcivescovo Nicolò Rusca, che da 28 anni reggeva con grande energia la parrocchia di Sondrio e che venne rapito da una sorta di incursione dei soldati svizzeri e portato a Thusis, dove era stato costituito un tribunale speciale, lo "Strafgericht", e dove morì, sotto tortura, il 4 settembre 1618. L'episodio suscitò uno scalpore enorme, e convinse i cattolici che i Grigioni volevano estirpare il cattolicesimo dalla valle, inducendoli a preparare la ribellione sanguinosa che ebbe inizio a Tirano il 19 luglio 1620, con la strage di Protestanti nota come "sacro macello valtellinese". Forse fu proprio l'eco sinistra del rapimento dell'arcivescovo a conferire a questa valle una fama inquietante.
Una leggenda racconta, infatti, che il fianco destro (per chi sale, cioè nord-orientale) della valle, occupato dall'impressionante versante montuoso che scende dalla dorsale monte dell'Oro (m. 3154, a sud-est) - monte Muretto (m. 3104, a nord-ovest), è luogo di espiazione eterna per tre dannati. Questi "cunfinàa" si muovono, senza pace, fra massi e gande, scagliandoli, spesso, sui malcapitati pastori o viandanti (alp de l'òor, nel 1544 alpis de loro: chiamata così per la leggendaria presenza di oro nel vicino Monte dlel'Oro, o forse anche dalla radice "ör", che significa "bordo, ciglio su salto o dirupo") conduce al passo. Il rimedio contro questa minaccia, però, è semplice e sicuro: Lina Rini Lombardini (cfr. "In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni", Ramponi, Arti Grafiche, Sondrio, 1961, pg. 48) ci insegna che basta farsi il segno di croce per mettere in fuga le tre anime in pena. Sempre la Lombardini (op. cit., pg. 50) ci parla di un grande masso, in un bosco non meglio specificato della Valmalenco, che sarebbe stato portato fin lì da un confinato, il quale, purificato dalla fatica immane, avrebbe ottenuto il perdono divino. Segno del perdono sarebbe la fonte che sgorga dal masso: l'acqua di sorgente, simbolo di purezza, sgorga fra fiori gentili, simbolo delle opere buone.
Sempre sui confinati di Valmalenco, ecco quel che si legge nella bella opera "Tutto Valmalenco", di Ermanno Sagliani (Edizioni Press, Milano): "Pastori o montanari non sono mai veramente soli poiché, quando si avventurano nei luoghi più solitari della valle, incontrano personaggi soprannaturali, fauni buoni e malvagi, anime di persone senza pace, i cosiddetti "confinàa", animali che sono uomini condannati da sortilegi. Come la capra che s'incontra talvolta in alta Val Torreggio (Val del Turéc') nei dintorni della cima di Corna Rossa e che schernisce i rari viandanti a meno che essi non siano soprannaturali come lei; oppure la "cavra besula", strega in sembianza dì upupa, che di notte svolazza per i boschi ed abitualmente si raduna ad altri uccelli al lago Painale in Val Togno."
Ricordiamo, poi, che il decreto della giustizia divina (o l'immaginazione popolare, a seconda dei punti di vista) ha collocato anime confinate anche in Val Fontana (e qui sono i forti colpi di mazza sulle rocce, uditi nottetempo, a segnalarli) ed a Stazzona.

Per la contea di Bormio ci affidiamo all'autorevolezza dello studioso Tullio Urangia Tazzoli (da "La Contea di Bormio"):
"È, questa forse la più popolare e caratteristica leggenda del Bormiese. I konfinà sono i morti che condussero vita peccaminosa e che sono obbligati, per volontà di Dio, per misciòn de Dio, a rimanere confinati nei luoghi generalmente più selvaggi e solitari dei monti. Essi erano confinati per toglierli fuori dalle case, per toj fora di bajt, e tenerne lontano lo spirito maligno. Sono sempre, però, spiriti cristiani in pena e, generalmente, condannati a battere le rupi con mazze potentissime. Nessun li vede ma molti ne odono, ancora, il picchiare sotterraneo. La mazza non deve essere toccata: se si trovasse per caso nei terreno essa scomparirebbe e porterebbe sventura, sventura terribile lanciata dal confinà, essere invisibile ma attivissimo...
In Valdisotto, in Val Fin, al ponte del Diavolo, è confinato un sondalino soprannominato Lèl. Cosa egli precisamente facesse per espiare i propri peccati e quali fossero non è ben certo. Le versioni sono varie. Molti boscaioli l’hanno sentito battere su per i dirupi colla tradizionale mazza ferrata e molti dicono di averlo veduto. Fra questi una guardia di finanza che gli domandò: Cosa fai qui? — Mi sion tient ki konfinka (io sono dentro qui confinato) — E perché ?- Il Lèl  raccontò alla guardia la sua vita scapigliata pregandolo di fare dire cento messe per essere poi libero dalle pene. Le cento messe furono dette e da allora il Lèl non fu più visto né udito!
...

In Valdidentro un confinato, ricorda la Rini Lombardini, si confortava della sua triste sorte prendendosi spassi molto curiosi: per esempio entrava, talora, in una bajta dispersa e si metteva a gettare fuori i mobili nell'attiguo prato! Nulla, finora, ha potuto arrestare le bizzarie allegre di questo confinato fra un picchiare di mazza e l'altra... In valle di Livigno è più che mai diffusa la leggenda dei konfina. In un luogo famoso per tregende, Le steblina sul monte Mine, havvi confinato un livignasco. Ancora oggi, mi diceva una persona seria di Livigno, vi è gente che giura e spergiura di sentire realmente, passando di là, i caratteristici colpi di mazza! Vi riferiscono, poi, che il teschio del livignasco, anche se rimosso dal luogo ove fu confinato, torna a ritrovarsi sempre nel primitivo luogo riportato, colà, da forze misteriose..."
Confinati sono segnalati anche sulla Reit, sopra Bormio, nei boschi di Pezzel, sul monte Confinale, in valle del Braulio (soprattutto nella valle dei Vitelli ed al piano dell'Asta presso la IV Cantoniera dello Stelvio), in valle d'Uzza ed in Val Sobretta. I confinati del piano dell'Asta, secondo un vecchio detto, poco dopo i rintocchi del mezzogiorno, nelle fredde giornate d'inverno, "i van su a far slavinàr", cioè provocano slavine sulle pendici della Valle del Braulio. Sempre in Valle del Braulio, stando a quanto raccontava un anziano bormino, nel 1848, furono visti, un giorno, dodici confinati, che battevano con la mazza sui massi ed erano, curiosamente, forniti di corde, come se dovessero apprestarsi ad un'escursione sui ghiacciai. Non tutti i confinati, però, sono condannati a rompere pietre (con una mazza che, secondo una leggenda, viene cambiata ogni sette anni): quelli del vallone di Uzza, della Valle del Braulio e dei boschi di Pezzel sono costretti a riempire, con l'oro che stilla dalle rocce, grandi secchi, che portano, poi, in cima ai dirupi per svuotarli in quei salti paurosi. Nella stessa Bormio un calzolaio raccontò di aver visto un'anima di konfinà camminare fra le vie, tirando pedate. Per la verità ne aveva visto solo l'ombra, che dopo pochi istanti era scomparsa (cfr. Tullio Urangia Tazzoli, "La Contea di Bormio", Sondrio, 1932-35, vol. III, pg. 54).
In Valdidentro si racconta di un confinato che, forse perché non era stato assoggettato ad alcuna pena particolare e non sapeva come ammazzare il tempo, si divertiva ad entrare nelle baite isolate gettando fuori, alla rinfusa, sul prato antistante, tutti i mobili (cfr. Lina Rini Lombardini, "Bellezze e leggende della terra di Bormio", Bonazzi, Tirano, 1926, pg. 18).
Tutti i peggiori confinati della Valdidentro si ritrovano, il mercoledì, il venerdì ed il sabato all'inizio del periodo liturgico detto delle Quattro Tempora, sulle pendici del pizzo Bianco, in Val Viola Bormina, in un empio convegno che durava dai rintocchi dell'Ave Maria della sera a quelli dell'Ave Maria mattutina. Quegli spiriti che erano stati malvagi in vita, lungi dal pentirsi, si scatenavano in un sabba nel quale si vantavano delle loro azioni malvagie e maledicevano la pena cui erano condannati. Molti erano pallidi spettri, ma vi era anche chi assumeva le sembianze di animale, di volpe, capro, maiale, cagna, serpente e martora, spettacolo non meno tremendo delle tristemente note tregende delle streghe.
Dei confinati in alta Valtellina parla anche, nella sua splendida ricerca sugli “Usi e costumi del Bormiese” (edita nel 1912, riedita, nel 1998, da Alpinia Editrice) Glicerio Longa. Vale la pena di riportarne una bella pagina:
“In Val d'Uzza — una valle ripidissima che scende dai picchi dell'Aréjt al torbido Frodolfo — sono confinati: B... di S. Antonio di Valfurva, che era stato in America e R.., della Madonna dei Monti. A questo proposito, Marco Granaroli — un vecchio caprajo, anche lui novantenne, che ha un occhio roso dal vajolo — così ebbe a dirmi, con aria di profonda convinzione: «I én su i l'Aréjt ka i kàvan Nr, Sono su l'Aréjt che cavano l'oro». «E perché, chiesi, venivano confinati?». «El vegnian konfinéj parké i fecien tanta balosàda. Venivano confinati perché facevano tante bricconate». «Chi li confinava?». «I religiós, i prèt. I religiosi, i preti». Una volta — racconta sempre Màrku — uno di Férba era salito alla cava del gesso a Mofé (Val d'Uzza) e trovò una mazza di ferro di cinque o sei pesi (1 peso [equivale a] 8 kg). Fece per alzarla, ma non era capace. In quel mentre sentì una voce misteriosa e irata: «Làgala glià kuéla màza! Lasciala lì quella mazza!». Ma non volle dare ascolto e venne giù un tratto per la valle, sforzandosi di trascinarsela dietro. «Verrò domani a caricarla sul carro», pensò poi. Ma l'indomani la mazza era scomparsa. Màrku così spiega la faccenda: «Eran stati R. o B. a portarla via!...». Quando B. morì, nella cassa non si trovò più il corpo, perché era stato portato via dal Diavolo!..."
Una categoria molto particolare di confinati era rappresentata dagli eretici, cioè da coloro che abbracciarono convinzioni religiose contrarie all’insegnamento di Santa Madre Chiesa Cattolica. Questi venivano visti come nemici pericolosissimi, soprattutto dopo il tormentato periodo dei contrasti religiosi di inizio Seicento, che vide la maggioranza cattolica guardare con estrema diffidenza i nuclei riformati protetti dalle Tre Leghe Grigie, fino alla strage del nefasto luglio del 1620. Ecco cosa scrive, di nuovo, il Longa, al proposito:
Nessun peccato era un tempo considerato tanto grave e abominevole quanto il peccato di eresia. Chi moriva in questa condizione non solo non era voluto da Dio, ma neppure dal Diavolo: «A Dio spiacente ed a' nimici sui». Confinato in luogo orrido fino al giorno del Giudizio Universale, l'anima dell'eretico si reincarnava nel corpo di un porcello, di un cane, di un cavallo, o di un orso vagabondi: mai in quello di un agnello o bue o asino. Queste tracce di tutta una «zoologia religiosa», come direbbe il Niceforo, sono una delle note più interessanti del folk-lore alpino. Anche presso le tribù selvagge descritte da Tylor, Lubbok, Letourneau, le anime dei morti sono condannate ad abitare il corpo di certi animali. Il prete Z... che morì in fama di liberale, fu visto parecchio tempo sotto forma di cane.
Il beccamorto di Bormio fu una notte di luna assalito da un cagnolone grande come una pecora bergamasca: un'ànima pèrsa!”

La Valchiavenna non è esente da questo fenomeno. In particolare, fra Isola, Borghetto e Frondaglio si segnala l'anima isolata di un confinato, un'anima persa di cui si udiva spesso il verso singolare e sinistro, simile a quello di una capra. Sembra che il verso annunciasse l'imminente scatenarsi di violenti temporali, per cui coloro che lavoravano vicino alla cascata, vuoi per timore del temporale, vuoi per effetto di quel verso raccapricciante, fuggivano via. Tornati sul luogo di lavoro, riscontravano, però, che la legna raccolta con tanta fatica era stata rubata, il che diede adito a qualche sospetto da parte dei più disincantati. Ma non risulta che il mistero del confinato di Isola sia mai stato dissipato (cfr. la testimonianza orale di Dionigi e Cesarina Battistessa, intervistati da Maria Pantano il 3 aprile 1977 e riportata nella tesi di laurea “... e al strii veran fö cura l'é nocc - Ricerca sulle leggende di Valtellina e Valchiavenna”, dattiloscritto, Biblioteca della Valchiavenna, Chiavenna, febbraio 1980).
Ed ancora, nella "Guida turistica della Valchiavenna" (Rota, Chiavenna, 1986), leggiamo: "Credenza molto diffusa era quella che le anime di persone particolarmente malvagie, o ritenute morte in peccato mortale, fossero condannate a vagare in eterno o a tornare sulla terra a scadenze fisse, solitamente nelle ricorrenze dei loro misfatti. Gli spiriti si agitavano ("i ghé bíten") durante la notte sui luoghi delle loro colpe (particolarmente grave, e come tale molto ricorrente nella casistica dei dannati, era l'inganno per mezzo dello spostamento dei "tèrman", i confini delle proprietà), urlando e provocando rumori paurosi. Talvolta apparivano anche ai vivi, per spaventarli, o chiedere loro azioni che li liberassero o alleviassero i loro tormenti. A causa degli spiriti esistono ancora case disabitate (come la ottocentesca "Villa Sans Souci", sulla S.S. n. 37, tra S. Croce di Piuro e Villa di Chiavenna), o località da non frequentare la notte: d'altra parte il proverbio vuole che dopo il suono dell'Ave Maria, che indica la fine della giornata, comincino a circolare le streghe."

In cima alla Valchiavenna sta la Valle Spluga, o Valle di San Giacomo, chiamata, con orgoglio, dai locali "val di giüst", "valle dei giusti", perché mai alcun malfattore vi venne confinato. Finalmente una valle senza confinati, dunque? Nessuno fra i vivi, certo, ma per i morti è un'altra faccenda. Lo testimonia la leggenda riportata nella bella raccolta "“C'era un volta, Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna”, ed. a cura del Comune di Prata Camportaccio, Sondrio, Bonazzi Grafica, dicembre 1994 (con contributi da diverse scuole della Provincia di Sondrio). Protagonista, il Marùc di Pianazzo (comune di Madesimo):
"Al tempo del Concilio di Trento (1545-1563), sui tornanti che portano a Pianazzo c'era un'anima dannata che spaventava i viandanti. La gente del paese chiamò più di un prete per scacciare questo spirito, ma nessuno ci riusciva finché un giorno arrivò un sacerdote esorcista di Mese, un certo don Cipriani. Aveva percorso tutta la strada a piedi, da Mese a Pianazzo. Nel viaggio gli avevano fatto male i piedi e lui si era fermato in un campo a raccogliere un po' di fieno che aveva messo nelle scarpe per sentire meno dolore.

Arrivato nel punto in cui compariva Maruc, il dannato, don Cipriani se lo trovò davanti! L'uomo di Dio si spaventò, ma non troppo. Don Cipriani incominciò a fare dei gesti per scacciare l'anima dannata, ma questa non voleva saperne di andarsene. Anzi, disse al prete con arroganza: "Che cosa, vuoi fare prediche a me? Nemmeno tu sei un giusto: il fieno che hai nelle scarpe non è tuo, l'hai rubato!"
- E' vero, io ho rubato il fieno, ma sono ancora vivo e, perciò, sono in grado di restituirlo - ribattè il prete. Maruc, sconfitto, dovette andarsene per sempre.
"
Nella medesima raccolta è riportata l'epopea del Valfubia della Val Codera, altra anima confinata che per molto tempo seminò terrore in una valle che ancora oggi, mancando una strada di accesso, ha conservato il volto suggestivo del passato.
Costui era un uomo malvagio, che rubava anche a persone povere, fra le quali una povera vedova che aveva molti figli da mantenere, per cui, una volta morto, fu condannato a vagare, come un’anima in pena (cioè come un cunfinà), di notte, assumendo sembianze sempre diverse, ora di uccello rapace, ora di maiale (con un curioso taschino dal quale usciva tabacco!), ora di ombra inafferabile. Dicono che le sue urla lamentevoli fossero davvero impressionanti. Come spesso accade in questi casi, per risarcirsi della sua condizione infelice prendeva di mira quanti si trovassero a transitare da soli su sentieri della valle, o anche uscissero di casa la sera, nella zona compresa fra Codera e Bresciadega. Faceva, quindi, rotolare contro di loro sassi dalle gande, oppure, più spesso, si materializzava improvvisamente, fra le ombre della sera, terrorizzando i malcapitati con un forte soffio. L’unico modo per tenerlo alla larga era munirsi di un rosario: quel segno di devozione e preghiera, infatti, riusciva insopportabile alla sua anima malvagia.
Racconta una signora (testimonianza tratta dalla bella raccolta "C’era una volta”, raccolta di leggende valchiavennasche e valtellinesi edita nel 1994, con il contributo di varie scuole della Provincia di Sondrio, a cura del comune di Prata Camportaccio): "Era una sera di settembre e mi trovavo a Bresciadega, nella baita, con la Fiorina, mia figlia e il fidanzato, un finanziere. Stavo preparando il caffè e, mentre bolliva, sono uscita sul prato vicino per fare un bisogno. Non c'era anima viva, né uomini né animali. Mentre mi chinavo ho sentito un soffio molto forte che mi ha travolto, allora sono rientrata di corsa nella baita, molto spaventata. Il finanziere è corso fuori con un'arma, ma non c'era nessuno. Era uno scherzo del Valfubia che voleva farmi spaventare ... e c'era riuscito! Da allora, tutte le sere, dopo aver munto le mucche, andavo alla capanna e con me avevo sempre un bastone, una pila e un rosario in tasca. Solo quella sera il Valfubia mi ha fatto uno scherzo, però ha preso di mira quasi tutti."
Se vi capita di passare in questa straordinaria valle e di incontrare qualche valligiani, state bene attenti, però, a parlare di leggende: c'è ancora chi giura di aver visto il Valfubia, e si offenderebbe non poco se lo definissimo frutto dell'immaginazione popolare. Nel volume sopra citato, per esempio, viene riportata anche questa testimonianza, raccolta nella Scuola Elementare di Campo Mezzola:
"C'era una volta in Bresciadega (gruppo di case in Val Codera) un uomo di nome Valfubia. Invece di lavorare rubava. Allora fu condannato ad uscire di notte con vestiti strani e aveva sempre una faccia diversa. Un brutto giorno una signora, mentre il caffè bolliva nel focolare, andò fuori a fare i suoi bisogni. Il Valfubia le andò vicino e fece un soffio forte. La povera signora si spaventò tantissimo. Entrò in casa a chiamare suo marito. Lui uscì con il fucile per catturare quell'uomo cattivo, ma non riuscì. Il giorno dopo la signora andò alla stalla e prese il rosario ed un bastone per la paura. Il Valfubia ritornò anche quella sera, ma vedendo il rosario se ne andò a gambe levate perché lui era un diavolo. Non si avvicinò più a quella donna, ma continuò a fare scherzi alle altre persone. Questa storia me l'ha raccontata la mia nonna e lei dice che è proprio accaduta."
La sua anima pare si aggiri ancora proprio in quella valle che porta il suo nome, la Valfubia (o Val Fobbia), una laterale minore della Val Codera. La attraversano, spesso senza saperlo, tutti quelli che salgono a Codera sulla storica mulattiera che parte dalla località Castello (Mezzolpiano) di Novate Mezzola: quando questa, infatti, dopo Avedée, si abbassa per qualche decina di metri, dopo una galleria paramassi oltrepassa proprio il solco della Valfubia, che scende dal versante alla sinistra del viandante che procede verso Codera.
Ricordiamo, infine, che Alfredo Martinelli, nel fortunato volume "L'erba della memoria - Leggende e tradizioni valtellinesi" (Piccolo Tibet, Milano, 1964, pp. 185-193) rielabora la leggenda di uno dei più temibili kunfinà, il Forest, essere malvagio che, divorato dalla febbre di potere e ricchezza, aveva stretto un patto con il diavolo per soggiogare l'intera valle, in virtù di arti magiche ed arcani sortilegi. Il suo maleficio fu, però, annullato dalle benedizioni e dagli esorcismi di un umile prete, ed il Forest venne precipitato in una enorme voragine, dove fu incatenato, ultimo di una serie di anime dannate, confinate nei luoghi più oscuri nel cuore della montagna. La condanna eterna del Forest venne decretata dalla giustizia divina: doveva ogni giorno caricarsi sulle spalle un pesantissimo carico d'oro per poi svuotarlo nell'abisso oscuro che stava al centro della voragine. Così fu punita la sua sconfinata avidità d'oro e di potere.

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