Val Pila e Valle di Foscagno

Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in altezza
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
S. Antonio di Scianno-Alpe Vezzola-Alpe Trela-Val Corta-Val Fraele-Valle Alpisella-Livigno
8-9 h
1200
E
SINTESI. All’uscita da Bormio, proseguire per un tratto sulla ss. 38 dello Stelvio, lasciandola, però, prendendo a sinistra sulla strada provinciale per il passo di Foscagno e Livigno che, dopo 3 km da Bormio, ci porta alla frazione di Fiordalpe Turripiano. Qui, annunciata da un cartello che segnala le Torri di Fraele e Pedenosso, troviamo, subito dopo la secentesca chiesa della Madonna della Pietà (o dell’Addolorata) ed una semicurva a destra, una deviazione sulla destra, che imbocchiamo per cominciare a salire sul versante settentrionale della Valdidentro, trovando ben presto un bivio. Qui, ignorata la strada che sale verso destra (indicazioni per Cancano e le Torri di Fraele), stiamo sulla sinistra, cioè sulla strada che sale a Pedenosso. Giunti a Pedenosso, non scendiamo sulla sinistra verso il paese, ma proseguiamo diritti, passando sopra il cimitero e la chiesa parrocchiale dedicata ai santi Martino e Urbano. Nella successiva salita impegnamo un tornante dx ed uno successivo sx, prima dell’ultimo traverso che conduce a S. Antonio di Scianno. Ignorata una deviazione, sulla nostra destra, per le Torri di Fraele, siamo alle poche case della frazioncina, posta a 1650 metri. Poco oltre, la strada supera su un ponticello il torrente Scianno, e raggiunge uno slargo al quale parcheggiamo. Cominciare a salire su una pista sterrata, che nel primo tratto procede all’ombra di un bel bosco di larici, con pendenza media, e ne esce dopo pochi tornanti, in vista delle prime baite, disseminate ad una certa distanza l’una dall’altra. Superato un grande edificio che mostra, sulla facciata, la scritta “Rosalpe”, raggiungiamo l’incrocio con la decauville dell’A.E.M. che corre pianeggiante sulla quota 1880 dalla strada per le Torri di Fraele ad Arnoga. Siamo all’alpe Gattonino ed ignoriamo la decauville, proseguendo nella salita, e superando alcuni tornanti; ad un nuovo bivio ignoriamo la pista di destra, e prendiamo a sinistra (un cartello segnala Val Vezzola, alpe Trela e Lago Nero). Proseguiamo, dunque, nella salita, sempre in terreno aperto; dopo una semicurva a destra giungiamo in vista delle prime baite dell’ampia alpe Vezzola (m. 2091). Ad un bivio prendiamo a destra, seguendo la pista in leggera salita, che descrive un ampio arco di cerchio e passa alta sopra una bellissima conca-pianoro al centro dell’alpe, terminando presso l’ultimo gruppo di baite di Vezzola (m. 2161). Qui troviamo un crocifisso in bronzo in un’edicola di legno. Un segnavia segnala che stiamo imboccando il sentiero n. 176. Si tratta di un sentiero non largo, ma ben marcato, che aggira alcune roccette alla nostra destra e si addentra sul fianco destro (per chi sale) della non ampia Val Vezzola. Il sentiero rimane diverse decina di metri più in alto rispetto al torrente ed alterna alcuni tratti in decisa salita ad altri in falsopiano, superando una portina nella roccia ed un canalone erboso che scende dal crinale alla nostra destra. Giungiamo, così, alla stretta della valle, nella quale il sentiero si riavvicina al torrente, sempre rimanendo alla sua destra. Superata la stretta, ci affacciamo ad un ampio pianoro, sul cui fondo, proprio diritta davanti a noi, possiamo vedere la cima di Lago Nero. Percorrendo il pianoro, siamo ad un bivio. Imbocchiamo la traccia che prende a destra e sale alla bocchetta di Trelina (m. 2283), dalla quale si scende facilmente all'alpe Trela e precisamente all’ampia conca dell’alpe Trela. Il sentiero porta diritto al ristoro dell’alpe Trela, alle baite di Trela (m. 2170). Qui proseguiamo diritti sulla pista che scende in Val Corta (Valle di Fraele). passando a sinistra della sua forra e raggiungendo la Val Fraele presso il ristoro San Giacomo (m. 1956), che resta alla nostra destra. Noi però proseguiamo per un tratto verso sinistra, circondati da un bel bosco, fino al punto in cui la Val Alpisella confluisce nella Val Fraele. Qui troviamo, sulla destra, uno svincolo che scende ad un terrapieno sottostante, adibito a parcheggio, appena prima di un ponticello sull’Adda e di un doppio tornantino destrorso e sinistrorso mbocchiamo, appena prima del ponticello, la ben visibile pista che, con diversi tornanti, comincia a risalire la Val Alpisella, mantenendosi a sinistra (per chi sale) del solco dell’Adda. Nel primo tratto saliamo in direzione sud-ovest, allontanandoci dal solco della valle, circondati da uno splendido bosco di larici. Poi la pista, superata un’incantevole radura, esce all’aperto e piega a destra (ovest). La salita procede, con molta gradualità, scandita da tre laghetti, che precedono il passo. Le sorgenti dell’Adda si trovano fra il primo ed il secondo (che si colloca ad una quota di 2239 metri), ad una quota approssimativa di 2200 metri, in alcune pozze rossastre. Le sorgenti “ufficiali”, invece, cioè quelle di maggior portata, segnalate da un cartello, si trovano sul versante opposto della valle. Raggiungiamo il passo di Val Alpisella (m. 2285), oltre il quale ci si affaccia alla Val Alpisella di Livigno. Appena oltre il passo appare l’incantevole laghetto dell’Alpisella (m. 2268). La pista comincia a scendere, facendosi meno marcata e riducendosi a mulattiera. Dopo una serie di tornanti dx-sx-dx-sx-dx, si porta, con un ultimo traverso verso nord-ovest, al ponte delle Capre (m. 1806), attraversato il quale seguiamo la pista che corre presso la riva orientale del Lago di Livigno. Giungiamo così al limite settentrionale di Livigno.


Pedenosso (clicca qui per ingrandire)

Il territorio del comune di Valdidentro offre una grande ricchezza di opportunità escursionistiche. Chi ama scenari tranquilli e solitari può optare per una bella traversata che, con base a S. Antonio di Scianno, piccola frazione posta quasi sulla verticale di Isolaccia, tocca le Valli Vezzola, Trela e Pila, verdissime ed incantevoli, e termina a Trepalle, il nucleo abitato permanentemente più alto d'Europa. La traversata però presuppone che si disponga di due automobili e che si lasci la seconda presso la chiesa parrocchiale di S. Anna a Trepalle.
Per raggiungere S. Antonio dobbiamo, all’uscita da Bormio, proseguire per un tratto sulla ss. 38 dello Stelvio, lasciandola, però, prendendo a sinistra sulla strada provinciale per il passo di Foscagno e Livigno che, dopo 3 km da Bormio, ci porta alla frazione di Fiordalpe Turripiano. Qui, annunciata da un cartello che segnala le Torri di Fraele e Pedenosso, troviamo, subito dopo la secentesca chiesa della Madonna della Pietà (o dell’Addolorata) ed una semicurva a destra, una deviazione sulla destra, che imbocchiamo per cominciare a salire sul versante settentrionale della Valdidentro, trovando ben presto un bivio. Qui, ignorata la strada che sale verso destra (indicazioni per Cancano e le Torri di Fraele), stiamo sulla sinistra, cioè sulla strada che sale a Pedenosso, a 2 km dalla strada per il Foscagno.
Giunti a Pedenosso, non scendiamo sulla sinistra verso il paese, ma proseguiamo diritti, passando sopra il cimitero e la bella chiesa parrocchiale dedicata ai santi Martino e Urbano. Nella successiva salita impegnamo un tornante dx ed uno successivo sx, prima dell’ultimo traverso che conduce a S. Antonio di Scianno. Ignorata una deviazione, sulla nostra destra, per le Torri di Fraele (si tratta di una stradina che taglia il versante giungendo ad intercettare la strada per Cancano e la Val Fraele), siamo alle poche case della frazioncina, posta a 1650 metri ed a circa 2 km da Pedenosso.
Ci accoglie la bella chiesetta secentesca di S. Antonio, che è legata ad una leggenda, che trascriviamo dal bel volume dedicato al comune di Valdidentro (“Valdidentro, storia, paesi, gente”, di Lorenza Fumagalli, Manuela Gasperi e Marcello Canclini): “Secondo la leggenda ricordata nelle “memorie per servire alla storia ecclesiastica di Bormio” dello storico Ignazio Bardea, S. Antonio Levinese provenendo dalla Germania verso il Bormiese, passò sulla strada di Fraele ed in memoria del santo fu costruita la chiesa dedicata a S. Antonio abate. Si tratta di una semplice chiesa a navata unica alla quale è stato aggiunto un corpo laterale. La chiesa ha un carattere tipico alpino, con tetto a spiovente facciata con portale d’ingresso intagliato, sovrastato da un finestrone, mentre altre due finestre affiancano la porta. La chiesa non ha campanile, ma una campana è retta da un modesto cavaliere.” Nei pressi di S. Antonio, infatti, passava la storica strada per la Germania, dallo studio “Sentieri e strade storiche in Valtellina e nei Grigioni - Dalla preistoria all’epoca austro-ungarica di Cristina Pedrana (2004):
In Alta valle i passi ed i percorsi più importanti verso l'Engadina e la Val Venosta, frequentati probabilmente anche in epoche preistoriche, ma comunque largamente utilizzati dal Medioevo fino agli inizi del XIX secolo furono il passo di Umbrail o Ombraglio denominato "via breve di Val Venosta" e il passo di Fraele o "via lunga di Val Venosta". Entrambi avevano come punto di partenza Bormio dove si giungeva attraverso il passo del Gavia o seguendo la Valtellina per Bolladore, Serravalle, Cepina…La via lunga di Fraele… passava nei pressi della chiesa di San Gallo, raggiungeva Premadio, saliva lungo le difficili "scale di Fraele" fino alle torri, da lì lungo la dolce valle di San Giacomo, oltrepassata l'osteria "hospitalis", di cui si parla in una pergamena del 1287 situata nei pressi della stagione invernale, l'unico punto pericoloso, ai piedi delle torri di Fraele, era superato da una via artificiale costruita con tronchi e assi di legno, perciò poteva essere percorsa anche da cavalli con la soma.
Il primo accenno a questa strada si trova in un documento del 1334; l'ospizio di San Giacomo, però, è citato in documenti molto più antichi. Come attestano alcune fonti, dal 1357 in avanti risultò per molto tempo la via preferita dai cavallanti anche grazie alle continue migliorie apportate. Così la via di Umbrail perse man mano importanza, anche se continuava ad essere percorsa da molti per la brevità del suo tracciato.Tra le merci trasportate era soprattutto il vino della Valtellina ad avere il posto d'onore nell'esportazione verso oltralpe, mentre veniva importato dal Tirolo il sale di Halstatt, considerato merce preziosissima, perché permetteva di conservare gli alimenti. Solo negli ultimi anni del XVIII secolo, anche a causa del clima più crudo, era infatti in atto la cosiddetta piccola glaciazione napoleonica, fu decretato ufficialmente l'abbandono della via di Umbrail a favore di quella di Fraele più comoda e sicura. Nei pressi del passo, poco prima dell'inizio della discesa c'era una "hostaria", storicamente documentata dal
1496, che costituiva un sicuro ricovero per i viandanti soprattutto in inverno. Essa venne distrutta e successivamente ricostruita due volte nel corso del '600."
Ora, nel tratto fra Premadio e le Torri di Fraele la via via lunga di Val Venosta non puntava diritta alla soglia della Val Fraele, ma passava per Pedenosso e giungeva fin quasi a S. Antonio, prima di deviare a destra e raggiungere il piede del canalone che veniva superato da una salinatura in legno (le Scale, appunto). C’è da dire che la presenza di una chiesetta dedicata a S. Antonio Abate nei pressi di un ampio sistema di alpeggi non stupisce affatto, considerato che la devozione al santo, protettore degli animali, era assai viva fra i pastori, per i quali la vita di ogni singolo capo era preziosissima. Considerato che questi alpeggi sono delimitati, in diversi punti, da boschi ripidi o da salti di roccia, si capisce facilmente che non si facesse economia di preghiere al santo e di raccomandazioni ai pastorelli che dovevano sorvegliare il bestiame al pascolo.  Nei pressi della chiesetta, infine, si sente la voce argentina e sempre gradita dell’acqua che zampilla da una fontana.
Poco oltre, la strada supera su un ponticello il torrente Scianno, che poi scende dal Sass de Scegn (o Cràp de Scèn) e raggiunge uno slargo al quale possiamo (anzi, dobbiamo, visto che la pista che parte da qui è chiusa al traffico dei veicoli non autorizzati) parcheggiare l’automobile. Tornando indietro, possiamo vedere la spaccatura della roccia dalla quale il torrente si getta verso il fondovalle; visto da qui, però, non si apprezza la vertiginosa verticalità del salto, che si vede bene, invece, da Isolaccia. Del resto un’ipotesi sull’origine del toponimo “Scianno” lo riconduce a “scamnulum” e “scamnum”, che significa banco di pietra, o anche di arenaria.
L’enorme roccione con una fessura nel mezzo è legato ad una leggenda assai nota, raccontata da Alfredo Martinelli nella raccolta “L’erba della memoria”. Eccone, in duplice versione, la sintesi di Maria Pietrogiovanna, nella raccolta dattiloscritta “Leggende in Alta Valtellina” (valfurva, 27 giugno 1998):
La fenditura che spacca il Sass de Scegn sarebbe legata al passaggio di un gruppo di zingari attraverso la valdidentro. Questi, giunti sopra la rupe che domina la frazione di Isolaccia, si liberarono della zingara più anziana, gettandola dall'alto del dirupo, in quanto ella rallentava la marcia della tribù. La donna, cadendo, maledisse i propri compagni ed il Sass de Scegn sussultò. Dove il torrente precipitava a valle, si aprì una fenditura nera che ingoiò tutta la tribù. Da allora l'acqua non spumeggiò più come prima, ma divenne torbida…
Nel 1505 una tribù di zingari, per recarsi nel nord, passò attraverso la Valdidentro e percorse il sentiero aereo che conduce a Pedenosso, correndo a metà del Sass de Scegn. Questo altro non è che una parete rocciosa, rossastra e d'aspetto dolomitico, che si staglia nitida e verticale sopra le case dell'abitato. In qualche punto la parete è alta più di settanta metri e divisa in due parti da una cascata che spumeggia torbida. Giunti vicino al Sass de Scegn gli zingari, come diavoli ghignanti, precipitarono nel baratro la zingara più vecchia della tribù, che li pregava di fermarsi un po' per riposare. Si udì la maledizione della vecchia, mentre nel medesimo attimo il Sass de Scegn sussultò e, dove l'acqua del torrente precipita, si aprì una fenditura nera che ingoiò gli zingari nel fondo. Da allora l'acqua non spumeggiò più come prima, ma divenne torbida, e l'eco del fragore si mutò in lugubre lamento, come se fossero gli affanni di mille anime in pena. Ora ad ogni secondo, l'eco ripete, per anni, per secoli: "Maledizione! Maledizione!". Nelle notti di luna gli spiriti malvagi di quegli zingari folleggiano lassù, dove è rimasta, come testimonianza del fatto accaduto, una nera spaccatura.”


Piana di Isolaccia (clicca qui per ingrandire)

Questa leggenda è legata alla fama non buona (per usare un eufemismo) di cui gli zingari godevano in passato. Scrive l’illustre dialettologo Remo Bracchi, nel saggio “Il dialetto bormino nei documenti d'archivio” (www.lombardiabeniculturali.it/bormio/saggi/dialetto/):
In uno degli interrogatori di questa raccolta il termine egiptii è certamente da interpretare come sinonimico di "zingari". Si trattava di una categoria considerata non molto diversa dalle due che precedono (sc. Giudei ed eretici). Attualmente i gitani nomadi si designano con l'appellativo sc'tròlich. La voce è attestata anche nei processi con una duplice valenza, una positiva, in seguito perduta, di "indagatore degli astri", dal lat. astrologus, quindi di "conoscitore del destino degli uomini", e una negativa prolungatasi fino al nostro tempo, di "vagabondo senza dimora e senza leggi". Specialmente nella versione femminile sc'tròliga designa in senso proprio la "zingara", in quello traslato la "donna vagabonda, poco seria, disordinata fisicamente e moralmente". Nel processo del 1571 è attestata anche la forma sincopata strolo”.
Al di là della leggenda della zingara, questo luogo era considerato fra i ritrovi privilegiati delle streghe nei loro sabba notturni.
“È impossibile percorrere il sentiero aereo per Pedenosso intagliato a metà parete sopra Isolaccia nella roccia del Sass de Scegn nelle sere di luna, quando l'astro è tondo nel cielo e si è ai giorni del solstizio d'estate o d'inverno. La parete è, difatti, piena di spaventi orribili, poiché è appunto in quelle notti che alcuni spiriti di zingari malvagi folleggiano, svolazzano e s'azzuffano come pipistrelli infuriati lungo quel dirupo a perpendicolo.” (Maria Pietrogiovanna, op. cit.).
Per questo la spaccatura nella roccia veniva chiamata anche "sclàpa de li strìa", cioè "fessura delle streghe". Il riferimento al solstizio d’estate non è casuale: era credenza diffusa che nella notte di San Giovanni, la più corta dell’anno, le forze del male si scatenassero per opporsi all’avanzata della luce ed invertire la tendenza a favore delle tenebre; fra l’atro si credeva che in tale notte le streghe e gli stregoni inserissero nei frutti, in particolare nelle mele, i bachi, che per questo motivo venivano chiamati “giuanìn”.
Un motivo in più per lasciarlo alle nostre spalle e cominciare a salire sulla pista sterrata, che nel primo tratto procede all’ombra di un bel bosco di larici, con pendenza media, dal quale esce dopo pochi tornanti, in vista delle prime baite, disseminate ad una certa distanza l’una dall’altra. L’ambiente è ampio e luminoso: alla nostra destra un’amplissima fascia di prati sale fino alle pendici della dorsale delle tre cime di Platòr, che nascondono la Val Fraele (il termine “Plator”, più che a “platea”, pianura, è da ricondursi all’espressione latina “in summo platorum”, cioè “alla sommità dei prati”, come da qui ben si vede). Alla nostra sinistra, invece, notiamo una bella serie di cime, che fanno da cornice alla Val Viola Bormina: comincia ad occhieggiare, sulla sinistra, la parete nord della cima Piazzi, che si imporrà sempre più come tema conduttore dell’escursione, seguita dalla cresta Sinigaglia, dal pizzo e dal corno di Dosdè. Molto bello anche il colpo d’occhio alle nostre spalle: oltre la striscia di fondovalle della Valdidentro, la conca di Bormio e la Valfurva. Il panorama ad est è chiuso, da sinistra, dalle cime gemelle del Monte delle Scale, dalla cima della Reit, dall’Ortles, dal monte Confinale, dal pizzo Tresero e dal monte Vallecetta.


Valdidentro (clicca qui per ingrandire)

Superato un grande edificio che mostra, sulla facciata, la scritta “Rosalpe”, raggiungiamo l’incrocio con la decauville dell’A.E.M. che corre pianeggiante sulla quota 1880 dalla strada per le Torri di Fraele ad Arnoga. Siamo all’alpe Gattonino, e troviamo anche un pannello con una grande carta che ci può aiutare, qualora ne avessimo bisogno, a chiarirci le idee. Ignorata la decauville, proseguiamo nella salita, e superando alcuni tornanti; ad un nuovo bivio ignoriamo la pista di destra, che sale all’alpe Pezze di Plator, e prendiamo a sinistra (un cartello segnala Val Vezzola, alpe Trela e Lago Nero).
Proseguiamo, dunque, nella salita, sempre in terreno aperto; dopo una semicurva a destra giungiamo in vista delle prime baite dell’ampia alpe Vezzola. Sarà perché la funzione di correzione ortografica automatica di un noto programma di videoscrittura corregge sistematicamente Vezzola in Vezzosa, sarà perché davvero i luoghi sono così, ma quest’alpeggio ha davvero un aspetto incantevole, che conquista. All’ingresso dell’ampia spianata dell’alpe ci accoglie una cappelletta, dedicata alla Beata Vergine di Caravaggio, che reca scritto: “Gesù mio misericordia ai passeggeri assicura la tua via con un Pater Ave Maria!!!” La scritta manifesta una delle funzioni delle sacre edicole: punto di sosta e di preghiera, di invocazione dell’aiuto celeste, soprattutto per le insidie dell’andare. Insidie che non sembrano oggi retaggio del passato, come mostrano le cronache dei telegiornali estivi, che non mancano della notizia di qualche escursionista o fungiàtt che finisce per farsi male o addirittura perdere la vita. Qualche metro più in là una pista di servizio sale ad una graziosa baita con la parte inferiore in muratura e la superiore in legno, costruita con la tecnica dell’incastro negli angoli, chiamata “cardana” o “blockbau”.


Valdidentro (clicca qui per ingrandire)

Proseguiamo, e siamo in breve ad un bivio. Qui i cartelli non ci aiutano: c’è solo un vecchio cartello della Comunità Montana Alta Valtellina, che ci annuncia che siamo all’alpe Vezzola (m. 2091), sul Sentiero del Lago Nero, ma non ci fa capire se si debba prendere a sinistra o a destra. La pista di sinistra scende ad una presa d’acqua che imbriglia il torrente della Val Vezzola, il Cadangola. Il torrente scende poi lungo la ripida val Cadàngola e si congiunge con il torrente Foscagno, fra San Carlo e Semogo, per poi confluire nel torrente Viola.
La semisconosciuta Val Cadangola, un tempo utilizzata per accedere per via più diretta all’alpe Vezzola, al’alpe Trela ed alla Val Fraele, è anch’essa legata ad una leggenda, che ha come protagonista Foronin, il gobbo di Cadangola, che scoprì un mitico tesoro cui era però impossibile accedere. Per non farci mancare nulla, anche in questo caso consultiamo la raccolta di Maria Pietrogiovanna (cit.):
Cadangola è una valle misteriosa con sentieri faticosi che conducono alle Bocche di Trela, di Trelina, all'Alpe di Trela, alla Val dei Pettini e alle polledell'Adda per passaggi fra ghiaioni morenici dove la vita è assente. Lassù c'era un tempo la più ricca villeggiatura estiva delle capre, delle pecore e dei vitelli. Era il regno della pastorizia arcaica che durò fino alle stagioni ormai lontane in cui vi andava a far burro eformaggio Foronin,il gobbo di Cadangola. Foronin, ometto insolito creato proprio per quel mondo singolare, conosceva i segreti della sua montagna, dei suoi pascoli e dei suoi boschi. Una volta siera ricoverato sotto alcune rocce sporgenti a mo' di tetto, perché sorpreso da un temporale. Quando uscì da lì si accorse che gli brillavano gocce d'oro tra i capelli. Tornò sui suoi passi e scoprì una fessura per la quale trasudava acqua con pagliuzze lucenti, ma bisognava perdere troppo tempo per raccoglierne tanto quanto un ago d'abete. Foronin conosceva le buche disseminate sul crinale della Motta Grande e spiegava come brillassero candidissime sotto la luna, essendo il fondo di esse cosparso d'argento, ma non si eramai lasciato vincere dalla tentazione, perché temeva le burle della luna balorda. L'uomo sorrideva, raccontando quando aveva veduto le profondità delle Presure, e riteneva che il fondo delle voragini fosse tempestato di zaffiri e rubini, perché sfavillava come la luce dell'arcobaleno. Egli, però, non si eramai tentato di scendere, essendo ciò possibile solo nel plenilunio di marzo. Ma chi mai si sarebbe avventurato ad un'impresa simile in quella notte sacra?”
Profonda saggezza del gobbo di Cadangola: conoscere i limiti dell'umano e non volerli travalicare.


Cima Piazzi dalla pista per l'alpe Vezzola (clicca qui per ingrandire)

Ma torniamo al nostro bivio: qui prendiamo a destra, sulla pista in leggera salita, che descrive un ampio arco di cerchio e passa alta sopra una bellissima conca-pianoro al centro dell’alpe. Alle nostre spalle la nord della Piazzi celebra io suoi fasti: si mostra bellissima, ed ancor più lo sarà nelle prime ore della sera, al nostro ritorno. Sono giustificate le parole dell’alpinista e naturalista Bruno Galli Valerio, che, passando di qui l’11 agosto del 1900 (in “Punte e Passi”, trad. di Luisa Angelici ed Antonio Boscacci, Sondrio 1998): “Attraversato il fiume sotto S. Carlo, attraversata la valle di Foscagno, risaliamo la valle di Vezzola per raggiungere la Bocchetta di Trela. E' una traversata magnifica. Il piano di Vezzola è un vero parco, fatto da prati verdeggianti intramezzati da boschetti di abeti. Dietro di noi, si rizza la cima di Piazzi colle sue belle cascate di ghiaccio.”  
Il riferimento gli abeti ci porta anche alla più probabile spiegazione dell’etimo di “Vezzola”, da “avèzzöö”, “piccolo abete”, appunto. Alla nostra sinistra, un ampio versante di pascoli, che termina alle falde della cima di Dòscopa (famosa, come le cime di Plator ed il monte Pettini, per i sabba notturni delle streghe). Sul lato alla nostra destra, in alto, vediamo le bocche di Trela, dalle quali passeremo al ritorno; potremmo puntare direttamente a questo facile valico e, dopo breve discesa alla conca dell’alpe Trela, imboccare la comoda pista che, attraverso la Val Pettini, scende in Valle di Fraele, presso il ristoro S. Giacomo. Percorrendo, quindi, la pista che costeggia la diga di Cancano potremmo portarci sul limite della Valle, alle Torri di Fraele, scendere per un tratto lungo la strada asfaltata, lasciarla per imboccare a destra la citata decauville dell’A.E.M. e raggiungere il bivio di quota 1880, da cui tornare all’automobile. Se vogliamo salire alle bocche di Trela, troviamo il sentierino che comincia ad inerpicarsi sul fianco dei pascoli dopo una semicurva a destra appena accennata, ed a destra di un torrentello che scende dal versante (non ci sono segnalazioni). Ma questo sarebbe un altro anello (lo potremmo chiamare anello del Platòr, e richiederebbe circa 5 ore e mezza di cammino).


Alpe Vezzola (clicca qui per ingrandire)

Proseguiamo, dunque, nel nostro cammino percorrendo la pista che effettua l’ultimo ampio arco a sinistra, che contornando il grande pianoro glaciale nel mezzo dell’alpeggio (piano Vezzola), e termina presso l’ultimo gruppo di baite di Vezzola (m. 2161). Qui troviamo un crocifisso in bronzo in un’edicola di legno, sulla quale una targa reca scritto: “Dio ti vede dal sorgere del sole al tramonto della sera. Sia lodato il nome santo di Dio”. Un segnavia segnala che stiamo imboccando il sentiero n. 176. Si tratta di un sentiero non largo, ma ben marcato, che aggira alcune roccette alla nostra destra e si addentra sul fianco destro (per chi sale) della non ampia Val Vezzola. Il sentiero, ben marcato, rimane diverse decina di metri più in alto rispetto al torrente ed alterna alcuni tratti in decisa salita ad altri in falsopiano, superando una portina nella roccia ed un canalone erboso che scende dal crinale alla nostra destra. Giungiamo, così, alla stretta della valle, nella quale il sentiero si riavvicina al torrente, sempre rimanendo alla sua destra. Superata la stretta, ci affacciamo ad un ampio pianoro, dove si possono trovare mucche al pascolo. Sul fondo, proprio diritta davanti a noi, possiamo vedere la cima di Lago Nero.
Entrati nel pianoro, seguiamo il sentiero che, rimanendo sul lato destro, lo attraversa e comincia a piegare a destra, salendo l’ampia e facile sella erbosa sulla quale è posta la bocchetta di Trelina (m. 2283) e dalla bocchetta scendiamo lungo un largo e tranquillo corridoio che ci porta all’ampia conca dell’alpe Trela.


Alpe Trela (clicca qui per ingrandire)

Trela deriva, forse, da “terrella”, piccola terra, ed in effetti l’alpeggio, chiuso quasi da ogni lato da versanti montuosi, ripidi o più dolci, sembra una piccola isola, una terra nascosta, di rara dolcezza e pace. Segnaliamo, per, che nel già citato volume sulla Valdidentro viene proposto un diverso etimo: “Nome probabilmente risalito dalla Val Grosina. Nel dialetto di Grosio tréla designa il casello per la conservazione del latte e l'affioramento, costruito in muratura a secco sopra sorgenti o corsi d'acqua sui maggenghi e gli alpeggi, forse da una base prelatina turra, monticello di terra. Le costruzioni più antiche erano seminterrate e ricoperte di zolle erbose.
Dal ristoro dell’alpe Trela, alle baite di Trela (m. 2170), procediamo diritti sulla pista che scende in Val Corta (Valle di Fraele), passando a sinistra della sua forra e raggiungendo la Val Fraele presso il ristoro San Giacomo (m. 1956), che resta alla nostra destra. Noi però proseguiamo per un tratto verso sinistra, circondati da un bel bosco, fino al punto in cui la Val Alpisella confluisce nella Val Fraele.


Lago di San Giacomo

Imbocchiamo, appena prima di un ponticello, la ben visibile pista che, con diversi tornanti, comincia a risalire la Val Alpisella (dal termine latino "alpicula", piccola alpe), mantenendosi a sinistra (per chi sale) del solco dell’Adda. Nel primo tratto saliamo in direzione sud-ovest, allontanandoci dal solco della valle, circondati da uno splendido bosco di larici, oltre le cime dei quali, alla nostra destra, fa capolino il corrugato versante meridionale del pizzo Aguzzo (m. 2568). Poi la pista, superata un’incantevole radura, esce all’aperto e piega a destra (ovest): vediamo, ora, distintamente, davanti a noi, il passo della Val Alpisella, posto a 2285 metri, poco a monte delle sorgenti che andiamo a visitare, mentre alla nostra sinistra sembra incombere l’ombroso e roccioso versante settentrionale del monte Pettini: da qui si comprende perché questa cima sia stata eletta dalle streghe per i loro sabba.


Laghetto dell'Alpisella

La salita procede, con molta gradualità, scandita da tre laghetti, che precedono il passo. Le sorgenti dell’Adda si trovano fra il primo ed il secondo (che si colloca ad una quota di 2239 metri), ad una quota approssimativa di 2200 metri, in alcune pozze rossastre. Le sorgenti “ufficiali”, invece, cioè quelle di maggior portata, segnalate da un cartello, si trovano sul versante opposto della valle.
Intanto raggiungiamo il passo di Val Alpisella (m. 2285), segnalato da un cartello, oltre il quale ci si affaccia alla Val Alpisella di Livigno. Appena oltre il passo appare l’incantevole laghetto dell’Alpisella (m. 2268). Alcuni cartelli ci mostrano le tre possibili direzioni nelle quali ci possiamo muovere dal passo: possiamo scendere al ponte delle Capre ed al lago di Livigno (seguendo il percorso della celebre “Pedaleda”, percorso di mountain-bike: cogliamo l’occasione per osservare che questa bella escursione può essere effettuata, senza difficoltà, anche su due ruote e, nel caso si disponga di due automobili, si può concludere con la discesa a Livigno), possiamo tornare a Cancano, passando per le sorgenti dell’Adda, o possiamo salire ai due baitoni della malga Alpisella, che si stende, solitaria e silenziosa, ai piedi del versante settentrionale del monte Torraccia (m. 2781) e della cima di Pozzin (m. 2681), a sud del passo.
È interessante, a questo punto, leggere quanto scrive Bruno Galli Valerio, alpinista e naturalista che molto amò queste montagne, il 16 agosto 1902: “Attraversando l’Alpisella per fare una passeggiata a Livigno, penso che se fossi un pittore passerei alcuni giorni lassù, per riprodurre gli splendidi contrasti: le rocce nude, tormentate, i pascoli verdi e i laghetti dell’Alpisella. Vorrei dipingere l’ultimo laghetto verso Livigno, collo sfondo artistico del Saliente e della Corna dei cavalli, le cui guglie brune si staccano sull’azzurro del cielo.” (Bruno Galli Valerio, “Punte e Passi”, a cura di Luisa Angelici ed Antonio Boscacci, Sondrio, 1998).
La pista comincia a scendere, facendosi meno marcata e riducendosi a mulattiera. Dopo una serie di tornanti dx-sx-dx-sx-dx, si porta, con un ultimo traverso verso nord-ovest, al ponte delle Capre (m. 1806), attraversato il quale seguiamo la pista che corre presso la riva orientale del Lago di Livigno. Giungiamo così al limite settentrionale di Livigno.

CARTA DEL PERCORSO sulla base della Swisstopo, che ne detiene il Copyright. Ho aggiunto alla carta alcuni toponimi ed una traccia rossa continua (carrozzabili, piste) o puntinata (mulattiere, sentieri). Apri qui la carta on-line

 

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