ESCURSIONI A LANZADA


A Lanzada storia e leggenda si legano in un singolare intreccio. La storia sfuma per qualche aspetto nella leggenda, e questa in quella. Fra le varie figure che hanno fatto l’una ed ispirato l’altra, giganteggia don Giovanni Cilichini, originario di Lanzada, addottoratosi in teologia a Padova, nel 1600. Vicecurato nelle tre Quadre dei Santi Giacomo e Filippo (Chiesa), di Lanzada e Caspoggio, si trovò di fronte, nel suo ministero pastorale, ad una minaccia che si dispose ad affrontare con indomito coraggio. Una minaccia che veniva d’oltralpe. Nel 1512 le Tre Eccelse Leghe Caddea, delle Dieci Giurisdizioni e Grigia (o Superiore) resero tributarie la Valtellina e le contee di Chivenna e Bormio, richiamandosi ad un contestato atto di cessione della valle operato da Mastino Visconti nel 1404. A quel tempo non v’era in Europa che la religione cattolica. Ma di lì a poco Wittenberg fu teatro della clamorosa protesta del monaco agostiniano Martin Lutero, atto d’inizio della riforma che trovò ampie adesioni nei paesi di lingua tedesca, ed anche nella repubblica delle Tre Leghe. Queste fecero di tutto per agevolare la sua diffusione anche in Valtellina. Con un decreto del 1557, Antonio Planta stabilì che in questa valle, dove vi fossero più chiese, una venisse assegnata ai protestanti per il loro culto, e dove ve ne fosse una sola venisse usata a turno da questi e dai cattolici. L'istituzione del tristemente famoso Strafgericht di Thusis, tribunale criminale straordinario di fronte al quale si dovevano presentare tutti coloro che venissero sospettati di attività eversive del potere grigione in Valtellina, rese ancor più acuta la tensione fra cattolici e protestanti, che, pur essendo minoranza, non erano minoranza insignificante.
Don Giovanni Cilichini intuì che non era il momento di temporeggiare o minimizzare: con grande zelo e con la forza della parola e dell’esempio si diede a recuperare alla fede cattolica i riformati di Valmalenco.  I suoi sforzi furono coronati da numerosi successi, tanto che finì ai primi posti nella lista delle persone di cui le autorità grigione avrebbero voluto sbarazzarsi. Per questo, nel 1608, era stato imprigionato e torturato dalle autorità grigione, ma ebbe salva la vita. Al primo posto della lista nera stava, però, una figura di spessore ancor maggiore. Uno dei più fieri oppositori del disegno dei grigioni fu, infatti, l’arciprete di Sondrio, Nicolò Rusca, soprannominato, per la sua ferma determinazione, “martello degli eretici”; dalla sua figura non era, però disgiunta una forte vena di cristiana comprensione, espressa anche dall’affermazione “Odiate l’errore, amate gli erranti”. Con un analogo concetto papa Giovanni XXIII commosse il mondo. Tre secoli e mezzo più tardi. Una figura, dunque, affascinante ed insieme scomoda. E venne, così stando le cose, il fatale luglio del 1618.
Nella Rezia si decise una sorta di blitz per condurlo, a viva forza, in territorio grigione, perché subisse un processo. Esecutrice del blitz fu una schiera di sessanta armati, scesi in Valmalenco proprio dal passo del Muretto, lungo l’importante carovaniera per la quale passavano vini, ardesie e granaglie di Valtellina destinate ai mercati del nord. Gli armati, guidati dal predicatore protestante di Valmalenco, M. A. Alba da Casale Monferrato, scesero direttamente verso Sondrio, e sorpresero l’arciprete, nella notte fra il 24 ed il 25 luglio 1618, nella sua camera da letto, portandolo nella torre del Pretorio di Sondrio. Quella medesima sera, in quel di Lanzada, avvenne un fatto quantomeno insolito. All’uscio di don Cilichini si presentò un suo parrocchiano, passato, con suo grande rincrescimento, all’eretica dottrina. Il rincrescimento era reciproco: i due si stimavano profondamente, e soffrivano per quella divisione di confessione che, in tempi tanto tormentati, era una barriera di non poco conto fra gli uomini.
La tradizione popolare vuole che quella sera si sia svolta, nella casa del vicecurato, la seguente scena. Entrò, l’amico, ricevendo il saluto cordiale del sacerdote. “Mi dica, viene forse perché si è convinto dell’errore?” disse, questi, non troppo convinto, per la verità, di aver avuto partita vinta sul cuore dell’amico, che sapeva essere grande ma anche di grande testardaggine. Non ebbe risposta. L’amico era inquieto. Don Giovanni lo guardò meglio: inquietudine e tormento eran ciò che tutta la sua persona comunicava. Egli sapeva, infatti, della spedizione armata, e sapeva anche di come questa avesse in progetto, sulla via del ritorno, di passare anche da Lanzada per prelevare il sacerdote. Era stato messo a parte del progetto dai suoi correligionari, i quali gli avevano fatto giurare solennemente che non ne avrebbe fatto parola con la vittima predestinata. Si trovava, dunque, ad essere tormentato da un duplice fortissimo legame, il legame di stima e d’affetto all’amico e quello alla sacralità della parola data. Più don Giovanni lo guardava, meno capiva. Così rimase a guardare, in silenzio. Passò, nel silenzio, un tempo che parve ad entrambi lunghissimo, poi l’amico, quasi scuotendosi da un torpore, si precipitò, quasi, al focolare che era sormontato da una grande pioda e la percosse, con il bastone che portava con sé, ed accompagnò il gesto con parole scandite solennemente: “Io dico a te, o pietra, che i Grigioni sono per condur via l’Arciprete di Sondrio e domani mattina, se non fuggirà in tempo, verranno a prendere anche il parroco di Lanzada”. Poi se ne uscì, scappò, quasi. Don Giovanni rimase fermo, stupito. Era d’ingegno pronto, ma gli ci volle qualche istante prima di comprendere il senso di quel che era accaduto.
Realizzato il pericolo che incombeva su di lui, decise di fuggire l’indomani mattina. Celebrò la solita messa delle sei di mattina, si procurò un vecchio abito da Magnàn e con quello indosso si incamminò con passo deciso verso l’imbocco della valle. Mentre percorreva il primo tratto della mulattiera, a Sondrio iniziava la via crucis del Rusca. Sul far del giorno, fu liberato dalla torre e gli venne concesso solo di vestire l’ abito talare, poi fu legato, a testa in giù, sotto il ventre di un mulo, ed il drappello di armati mosse sulla via del ritorno, per evitare di dare nell’occhio e suscitare reazioni ostili nella popolazione che molto amava il suo pastore. Salirono, dunque, per il Moncucco e per Ponchiera. Proprio mentre passavano di qui le vie dei due sacerdoti si incrociarono. I soldati si videro venire incontro quel singolare Magnàn (calderaio, stagnino), che aveva un’aria curiosamente ascetica e dottorale, ben diversa da quella più rude degli artigiani abituati a percorrere chilometri su chilometri nella morsa del gelo e sotto la sferza implacabile del caldo. Per sua fortuna, la schiera aveva troppa fretta per porsi domande troppo sottili, e fra loro non v’era il pastore protestante, che l’avrebbe sicuramente riconosciuto. Il loro capo, però, lo fermò con gesto brusco, e gli chiese se avesse visto il parroco di Lanzada. Don Giovanni trovò la forza per non battere ciglio, ed ebbe pronta la risposta: “Sì, questa mattina, ha già detto Messa”. Per un attimo il suo sguardo incrociò quello del confratello, che era legato, a testa all’ingiù, sotto il mulo, rivolta verso la coda dell’animale. Entrambi dovettero fare un enorme sforzo su se stessi per trattenere l’acuto moto di commozione. Fu un attimo: gli armati si mossero, e si mosse anche don Giovanni, che potè proseguire nella fuga e lasciare la Valtellina per il crinale orobico, rifugiandosi nella bergamasca.
Sorte ben diversa ebbe il Rusca, costretto a proseguire il suo triste viaggio, passando da Torre e Chiesa, salendo a Chiareggio e scavalcando il Muretto. Venne portato a Coira, e di qui a Thusis, dove fu posto sotto processo e torturato. Morì, per l’effetto delle torture, alle nove di sera del 3 settembre del 1618. Scrive lo storico Cesare Cantù: "Il ben vissuto vecchio, benché fosse disfatto di forze e di carne e patisse d'un ernia e di due fonticoli, fu messo alla tortura due volte, e con tanta atrocità che nel calarlo fu trovato morto. I furibondi, tra i dileggi plebei, fecero trascinare a coda di cavallo l'onorato cadavere, e seppellirlo sotto le forche, mentre egli dal luogo ove si eterna la mercede ai servi buoni e fedeli, pregava perdono ai nemici, pietà per i suoi."
Ma la storia di don Cilichini non finisce qui. Si dice che egli abbia vissuto per parecchio tempo, in incognito, in un paesino della bergamasca.  Fece di tutto per passare inosservato, ma non rinnegò i doveri del suo stato sacerdotale. Il parroco del paese, avendolo visto pregare e compiere atti che erano prerogativa di un sacerdote, un giorno lo rimproverò aspramente. Al che egli non seppe trattenere un moto d’orgoglio, e rispose, altero: “La dignità che ha lei l’ho ancor io!” Scoperta la sua condizione, lasciò, dunque, i territori della Serenissima e si recò a Milano, dove si presentò al celebre Cardinal Federico Borromeo “con preghiere, con singulti e con lagrime… l’afflitta religione raccomandandogli e del suo favore appresso al governatore supplicandolo” (Carlo Botta, “Storia d’Italia…”, 1835). Tornò in Valtellina tre anni dopo, nel 1621, dopo che, nella tragica estate del 1620, era scoppiata la rivolta cattolica e la caccia al protestante che fece circa 400 vittime ed inaugurò le guerre di Valtellina. Tornò e riprese il lavoro laddove l’aveva lasciato: vicecurato nelle tre Quadre di Valmalenco, riprese l’opera di persuasione rivolta ai pochi protestanti scampati al massacro. Fu primo parroco di Lanzada quando questa, nel 1624, venne eretta in parrocchia autonoma. Visse altri momenti assai duri, soprattutto durante la terribile pestilenza del 1629-31, che si portò via più della metà degli abitanti della valle, e morì, a 73 anni, nel 1647.
Fin qui la storia venata di leggenda. Ora la leggenda venata di storia. La chiesa di San Giovanni Battista, come abbiamo visto, fu, dal 1624, eretta a parrocchiale. Nella seconda metà del secolo si sentì il bisogno di riedificarla interamente: la comunità, uscita dal periodo nero della peste e delle più acute necessità economiche, volle così esprimere la sua gratitudine alla Provvidenza. I lavori iniziarono nel 1659 e terminarono nel 1666. Tutti, ovviamente, vi contribuirono, ciascuno secondo le proprie possibilità. Tutti, tranne un tale Antonio, che non volle metterci neppure un soldo, suscitando la riprovazione di tutti. Avevano un bel dirgli che era cosa brutta non voler contribuire a quella che era la casa del Signore, ed insieme la casa di tutti. Lui faceva finta di non udire rimproveri e critiche. E, con solenne indifferenza, tirava dritto. E tirò dritto finché poté, cioè finché fu vivo; poi, venne anche per lui il giorno in cui rimase, per sempre, nella posizione distesa. Il giorno della Dama Bianca: un’antica leggenda malenca vuole, infatti, che una dama pallidissima e diafana cavalchi, di notte, seguita da un lugubre corteo di cavalieri, durante alcune notti: è la morte, ed il sinistro suono degli zoccoli del suo cavallo sulle piode risuona per tutta la valle. Quando l’anima dello spilorcio si presentò al Tribunale Celeste, quel rifiuto pervicace di contribuire alle spese per la chiesa non fu preso bene dal Padre Eterno. D’altro canto, non era un uomo davvero cattivo, che meritasse l’inferno. La decisione della Giustizia Divina fu, dunque, questa: avrebbe dovuto lavorare, tutte le notti d’inverno, dalle 11 di sera alle 3 di notte, a consolidare il grande muraglione che sostiene il terrapieno sopra il quale la chiesa era stata eretta, ed a riparare i danni dell’edificio sacro. Ecco che, dunque, da allora, nelle notti d’inverno gli abitanti che abitano presso la chiesa odono colpi sordi e regolari: è l’anima che espia la sua colpa. E la dovrà espiare per un tempo indeterminato: ogniqualvolta, infatti, i suoi discendenti non pregheranno per i morti, o lo faranno in peccato, il suo lavoro verrà vanificato, ed egli dovrà ricominciare da capo. Ma verrà il giorno della liberazione, nel quale, alle 3 di notte in punto, l’anima potrà salire, finalmente, in paradiso, accolta da santi e beati. Troviamo notizia di questa leggenda nei volumi “Domina il Bernina – Conti di Rezia”, di Giuseppe Fornonzini (Sondrio, 1930, pp. 11-18) e "Valmalenco", di Ezio Pavesi (Cappelli Editori, 1969, pg. 183).
Ecco, di nuovo, farsi notte: l’inverno ormai è alle spalle, sul sagrato della chiesa di San Giovanni non si odono più i colpi dell’avaro Antonio. Tutto è silenzio, profondissimo silenzio. Ma, fra la mezzanotte e le tre delle notti di mezza Quaresima, questo silenzio si riempie di presenze inquietanti. Sono le anime di coloro che, in vita, non parteciparono alla processione di San Marco o a quella delle tre rogazioni. Ora procedono, in mesto corteo, cantando sommessamente inni, salmi e litanie. Le loro ossa, infatti, furono sepolte un tempo nella chiesa, e da qui dunque tornano per rendere a Dio quel culto che gli negarono in vita.
Vi è una terza leggenda legata alla chiesa parrocchiale, sempre riportata nel volume “Domina il Bernina – Conti di Rezia”, di Giuseppe Fornonzini (Sondrio, 1930, pg. 18). L’architetto che l’aveva progettata venne ucciso da un compaesano, che poi si diede alla fuga. Fu visto per l’ultima volta ai filigée, un fienile lungo la costa, poi, raccontano, la terra si aprì e lo inghiottì. Nessuno lo vide mai più.
In Val Lanterna, però non è solo la terra ad inghiottire gli uomini. Le profonde ed orride forre del torrente Cormor sembrano avere il malefico potere di attrarre i malcapitati che si espongano troppo sul loro ciglio. In particolare, una volta, come leggiamo nel volume di Giuseppe Nolli "In Valmalenco" (Solmi, Milano, 1907, pp. 266-267), vi cadde dentro una bellissima fanciulla, di animo gentile, che venne trascinata via dalla rabbiosa corrente del torrente e non fu più trovata. Tutti furono scossi e commossi per questa vicenda, ma non tutti ne diedero la medesima versione. Secondo alcuni sarebbe caduta perché aveva seguito le capre su un sentiero troppo esposto; secondo altri si sarebbe lei stessa gettata nel torrente per salvare un agnellino che vi era caduto; secondo altri ancora, infine, avrebbe cercato la morte volontaria per il lacerante doloro di un amore non corrisposto che la legava ad un pastore infedele.
Sul versante opposto, cioè nel vallone di Scerscen, sembrano regnare forze ancor più oscure. Le cupe gallerie delle miniere di amianto abbandonate si dice siano popolate di streghe della peggior specie. Presso queste gallerie, poi, sulla destra del sentiero che introduce al vallone, si trova un curioso roccione levigato, che sembra una grande scranno rialzato. È conosciuto come "sas de la sedia" o anche "sedia del diàul", ed una leggenda racconta che qui si sia rifugiato il diavolo incalzato dalla Vergine Maria che lo cacciava dalle case dei Cristiani; altri, però, spiegano in modo diverso la denominazione, riconducendola al fatto che un tempo i ragazzi salivano, per gioco, dal lato posteriore e faticavano non poco, poi, per scendere.
Perché non si pensi che in quel di Lanzada storie e leggende parlino solo di drammi e tragedie religiose, malefici, assassinii ed espiazioni, chiudiamo con un tocco rosa. Lo scenario è una casa della famiglia Giogia, dove viveva, un tempo, un signore che già aveva scavalcato il traguardo della mezza età, senza riuscire a trovare una donna da maritare. Fosse stato una donna, avrebbe potuto fare un breve viaggio al vicino santuario della Madonna delle Grazie di Primolo, famosa per le grazie elargite ai cuori solitari che grattavano il vetro che ne custodiva la statua: ma per uomo questo era semplicemente sconveniente. Così si coricava, ogni sera, oppresso da un angosciante senso di solitudine. Poi, una notte, nella quale, come gli accadeva non di rado, tardava a prender sonno, udì un debole suono, come di passi nella casa. Passi leggeri, come di donna. Pensò di aver mangiato toppo pesante la sera prima, ma i rumori non cessavano. Anzi, ora aveva la netta impressione che qualcuno fosse entrato nella sua camera. Avvertiva nettamente la presenza di una figura femminile, sì, la sentiva distintamente avvicinarsi al suo letto, scostare le coperte e far atto di coricarsi con lui. Era buio pesto nella stanza: allungò solo la mano, certo di incontrare quella della tanto sospirata compagna con cui condividere il resto dei suoi giorni. Incontrò, invece, una compagnia di più lunga data, che mai l’aveva lasciato dacché calcava la scena di questo mondo, il suo naso: la mano era finita lì, dopo aver percorso inutilmente la vuota aria. Non ebbe neppure il tempo di sorprendersi, che un riso acuto e sardonico echeggiò nella stanza, le coperte parvero animarsi di vita propria ed una fitta sequenza di passi femminili lasciò la stanza. Si levò subito in piedi ed accese il lume: nella stanza non c’era nessuno, ed il silenzio ne aveva ripreso interamente possesso. Solo dopo qualche istante notò, presso la porta, una minuscola pantofola femminile. La storia, finisce qui, con una sospensione che lascia a ciascuno la libertà d’immaginare un seguito che la conduca ad un esito felice o beffardo. 
La medesima casa fu, in altro tempo, teatro di una seconda curiosa vicenda. Protagonista, questa volta, una donna che una notte di giovedì grasso sentì nella casa i passi piuttosto pesanti che parevano essere di uno sconosciuto visitatore (non ci viveva, allora, altri che lei). Passi che raggiunsero un antico inginocchiatoio, lasciato in una stanza come ricordo di qualche antenato consacrato. Alla donna parve nettamente di udire che lo sconosciuto si inginocchiasse proprio lì. Poi sentì una voce sommessa recitare le preghiere dlel'Ufficio diurno. Alla fine, emesso un profondo sospiro, il misterioso visitatore si alzò, facendo scricchiolare il legno antico dell'inginocchiatoio, con un rumore che, nel silenzio assoluto della notte, giunse alle orecchie della donna come uno schiocco di frusta. Con passi lenti e candenzati lasciò la stanza e uscì dalla casa. La donna, per tutto quel tempo, non aveva mosso neppure un ciglio, né osò alzarsi per andare a cercare tracce della misteriosa incursione. lasciò passare l'intera notte, prima di trovare il coraggio di recarsi nella stanza. Quando vi giunse, vide, con enorme sorpresa, che accanto all'inginocchiatoio era comparso un grande vestèe (armadio), mai visto prima. Esitò molto, poi la curiosità l'ebbe vinta: avvicinatasi con circospezione, aprì le ante cigolanti e vide, al suo interno, un consunto abito talare ed un liso berretto da prete, un paio di scarpe con fibbie d'argento ed il libro delle preghiere diurne (il Diurno).
Per molto tempo la donna tenne segreta la vicenda; poi si confidò con il parroco. La storia fece il giro del paese ma nessuno mai poté vedere, né allora né in seguito, il misterioso armadio, che pare sia svanito nel nulla, così come era apparso. nessuno, infine, seppe mai chi potesse essere il misterioso visitatore che si era soffermato, una notte sola, a pregare con fervore in casa Giogia.
Ma l'epopea di casa Giogia non finisce qui. Si narra di un terzo episodio, che forse aiuta a chiarire il mistero del secondo. Correva l'anno 1853, quando Giuseppe, emigrato tornato dall'America, si insediò nella casa dei misteri. Nessuno ci voleva abitare, perché ormai la fama sinistra di casa infestata dai fantasmi era di dominio pubblico. Ma Giuseppe, cui non sembrava vero di trovare subito casa nel suo paese d'origine, non si curava di voci giudicate chiacchiere da comare credulona. Dovette, però ricredersi: anche lui, come i suoi predecessori, visse, infatti, un'avventura da brivido, segnata dall'esperienza di un'arcana apparizione.
Passato qualche mese, venne il Natale. La sera della vigilia Giuseppe sonnecchiava nella sua camera da letto. Il suono festoso delle campane che annunciavano la Messa della mezzanotte lo ridestò. Cacciato il torpore dagli occhi pesanti, si avvide di uno strano chiarore che veniva dalla stanza vicina, quella stessa nella quale, molti anni prima, era apparso il misterioso "vestèe". Si accostò all'uscio e rimase di sasso di fronte ad una scena che aveva dell'incredibile: un sacerdote, vestito con i paramenti più solenni, celebrava con voce quasi sussurrata la Santa Messa. Sull'altare ardevano i ceri ed ai suoi piedi era allestito un presepe completo di pastori e pecorelle. Non credeva ai suoi occhi. Per qualche attimo credette di sognare, ma un brivido freddo lo scosse e gli diede la certezza di essere ben desto. Il sacerdote aveva appena terminato di leggere il Vangelo che annunciava la nascita del Cristo. Riposto il Lezionario, si dispose a pronunciare la predica solenne, rivolgendosi ad un uditorio che solo lui sembrava poter vedere. Parlava con voce sommessa e compresa. Parlava del Natale. Del suo Natale. Diceva che la penultima notte di Natale della sua vita, al mattino presto, non si era alzato per celebrare la prima Messa, quella dell'aurora: invano le campane avevano richiamato i fedeli mattinieri in chiesa. Un anno dopo il Signore l'aveva chiamato a sé e gli aveva chiesto conto di quella Messa non celebrata, di quel peccato di pigrizia così grave nella festa della sua nascita al freddo e al gelo. Come? Il Signore dei Cieli aveva sofferto il gelo pungente come debole infante, e lui non aveva celebrato il dono di quell'immenso amore per timore di un po' di freddo? A Giuseppe parve che il sacerdote, pallido e diafano come il chiarore lunare, arrossisse, quasi, accusandosi di quel peccato. La predica si chiuse con una dichiarazione: "Ora sono in paradiso, ma ho dovuto purgare, prima, per intero il mio peccato".
Terminata l'omelia, l'apparizione svanì. Giuseppe ne colse al volo il senso: si rivestì e corse alla Messa, la più bella e la più solenne dell'anno.
Tutte e tre le storie sono raccontate nel volume “Domina il Bernina – Conti di Rezia”, di Giuseppe Fornonzini (Sondrio, 1930).
 

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