Per tracciare un quadro il più possibile completo dell’immaginario a Bormio e nel Bormiese (e della sua cornice storica) ci affidiamo interamente a quanto riporta Tullio Urangia Tazzoli, ne "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari” (Anonima Bolis Bergamo, 1935).

“La credenza degli stregoni e delle streghe non è ancora completamente scomparsa dai monti e dalle valli del Bormiese ed essa segna pagine dolorose nella vita fiorente del Contado.
Giacché, per accennare solo a date più sicure ed in cui lo stregonismo più infierì, nel secolo XIV e negli anni 1485-86, 1630-31-32-33, 1672-73-74-75-76, e ancora nel 1796, sulla soglia della rivoluzione francese, si processarono in Bormio moltissime persone quali indiziate di malefici e stregoneria: molte furono sottoposte a tormenti e giustiziate, molte bandite dal Contado. Nell'Archivio del Pio Istituto Scolastico di Bormio si conservano, tuttora, ben 35 grossi fascicoli riguardanti i processi delle streghe del secolo XVII. "Il fenomeno psicologico, osserva il Torlai, non è difficile a concepire giacché l'antipatia d'una persona poteva ispirare il dolore di una disgrazia che la ragione non poteva ma voleva umanamente spiegare; l'ingenua fede nella potenza di una persona che avesse facoltà difare servire un essere soprannaturale ai suoi capricci per movere le nevi, i venti, le valanghe che le menti semplici e chiuse non potevano credere essere fenomeni secondari e dipendenti solo dal più grande fenomeno di cui sola è governata la vita dell'universo; il residuo atavico delle credenze mitologiche sono altrettante ragioni che spiegano il fenomeno di credere alle streghe „.
Una volta, poi, che fu creduto all'esistenza di questi esseri intermedi tra l'uomo e il demonio avvenne, per una naturale suggestione, che primieramente si sviluppò in qualche individuo per il sistema nervoso debole più predisposto il timore di essere, qualche volta, a contatto con le streghe, timore che, quasi malattia epidemica, si dilatò e diede luogo a credenza comune. Afferma il Torlai che " così infausta superstizione non trovò abbastanza rigoroso il clero che aveva tanta ascendenza sulla popolazione,,. Ma per quanto, a lode del vero, e come già noi accennammo, in molti casi di processi l'autorità ecclesiastica si intromettesse per lenire e far assolvere gli imputati mai l'autorità stessa sentì il coraggio di negare che una persona potesse essere invasa dallo spirito del demonio e per potenza di questo potesse fare opera soprannaturale. Consta, però, che anche il vescovo di Como monsignor Carafini con lettera 17 agosto 1632 ingiungesse ai magistrati bormiesi di astenersi da tutte quelle procedure riservate al Foro Ecclesiastico. In realtà i processi continuarono si giunse sino oltre la metà del secolo scorso, cioè negli anni di grazia 1862-1864, quando per l'intervento intelligente ed energico dell'arciprete di Bormio don Tomaso Valenti in unione al vescovo di Como si procedette contro i responsabili delle ultime due follie collettive, fra cui eranvi degli stessi ecclesiastici, conosciute comunemente coi nomi "il Tesoro di S. Sebastiano„ e "la Santa di Morignone „.
L'esame dei processi bormiesi attraverso i secoli ed attraverso i corrosi, mal conservati e sbiaditi incartamenti del Pio Istituto Scolastico sono interessantissimi per lo studioso dipopolaresca ambientando essi, e vivacemente, la vita del  Bormiese di quel tempo. Per chi non vuole perdere tempo e forse non riesce a decifrare i polverosi manoscritti raccomandiamo le Note del Notaio Lazzaro Marioli circa il supplizio delle streghe in Bormio nel 1485, il già citato lavoro del Longa per il processo di Giovanni Bormetti detto Merendin (1673), quellodel cav. Pietro d'Alessandrini pel processo di Caterina Meld Rassigara (1674), la narrazione di Pietro Monti nel processo contro Maddalena Lazzari (1796) ed, infine, il romanzo storico "Il Conte Diavolo„ di Giovanni Robustelli ricco pure di leggende diaboliche e di stregonerie che concludono col supplizio e la morte del conte Galeano Lechi (1797).
In quei processi, attraverso la tortura e la paura della morte, furono strappate a quegli innocenti le più bestiali confessioni, confessioni che, tanta era l’ignoranza ed il terrore, corrispondevano alle molte delle più bestiali inverosimili credenze diffuse nel Contado.
Riassumiamo, per la cronaca, i nostri appunti raccolti nelle varie valli. Le più note radunate delle streghe e stregoni nel Bormiese erano: i ruderi del castello e della chiesa di S. Pietro dominante il borgo di Bormio; la Agneda, zona a burroni, presso la valle Campello, a mezzo chilometro dal borgo in direzione N. E.; la zona della Reit — testata del vallone d'Uzza in Valfurva ed altra zona, non ben definita, nel bacino di S. Caterina; la zona tra Premadio e S. Colombano ed, inoltre, la sciupa de li stria (fessura delle streghe) sotto la frazione di S. Antonio di Pedenosso ad est della cascata di Scianno in Valdidentro; la zona del ponte del Diavolo in Valdisotto; le località delle steblína nella zona del monte Vago (Vale) al confine sud della vallata verso la valle di Poschiavo, adiacenze di Campaccio - kampacc, in valle di Livigno. Tralascio, intenzionalmente, le valli, quasi deserte, del Braulio e di Fraele.
Al luogo di adunata stregoni e streghe si portavano rapidamente da una località all'altra volando su di una scopa quando non erano aiutati, cavallerescamente, da Belzebù in persona vestito da cavaliere servente — dal grande, bizzarro pennacchio — che apriva le danze. Queste fosche tregende intorno al diavolo "Berlichéte de li colza grìgia„ all'alba cessavano e venivano da Belzebù a stregoni e streghe impartiti gli ordini per i malefizi. Questi erano praticati contro le persone, gli animali, i prodotti agricoli e gli stessi fabbricati. Si ammalavano le persone specie le spose ed i bimbi; gli animali, specie i bovini, venivano colpiti da strane malattie ed epidemie; intisichiva la segale, marcivano le patate; si scoperchiavano le case, cadevano a pezzi le mura degli abitati; qualunque lavoro utile e buono era impedito. Le streghe e gli stregoni si tramutavano in tutte le forme per raggiungere i loro intenti maligni e crudeli: spesse volte si tramutavano anche in animali più o meno domestici e feroci…

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Non vi è bisogno di un grande sforzo psicologico per comprendere come in realtà il culto pei morti sia, in una misura più o meno accentuata e più o meno larvata, determinato da due sentimenti: la paura e l'egoismo. Le affettuose ed anche paurose credenze sui morti accentuano questi due sentimenti nell'anima bormiese giacchè rientrano nella psicologia di un popolo già preparato ed ambientato alle credenze più superstiziose. Oltre all'amarlo il montanaro, sopratutto, teme i morti come tutto ciò che fa parte di un mondo che sfugge alla sua percezione sensibile, il "mondo dell'al di là„ di cui non comprende nè l'essenza nè l'estensione. Solo egli sa, perchè la religione glielo insegna, di una esistenza di premio o di castigo dopo morto a seconda delle azioni che esso ha compiuto in vita. I morti suoi, i pór mórt ‑ i kàr mórt, serviranno ad aiutarlo ed in questa vita e nel momento del trapasso. Così, in fondo, nel culto dei morti ivi è un senso di egoismo personale e di attaccamento alla vita.
A Bormio si dice: un De Profundis ai por mórt perchè i me ghíten!. In Valfurva: kàr mort ejdé dum (aiutatici). A Livigno: Se i m'ésan bricia (il brisa bolognese) ejdé i bon mort....
Tali ed altre espressioni consimili nelle vallate bormine rivelano l'aiuto richiesto ai trapassati: aiuto richiesto non pei soli cristiani ma anche pel bestiame il quale, coi figli, e forse più di essi, è necessario al montanaro per la sua modesta e rude esistenza. La paura del "mondo dell'al di là„ pieno di mistero conduce i più a fuggire i cimiteri specie se si è soli e di notte, vecchie paure comuni ovunque ma quassù forse più sentite. È ancora vivo in Bormio (quando il cimitero era raccolto intorno alla chiesa arcipretale dei S.S. Gervasio e Protasio) la scommessa, vecchio motivo che si ritrova ovunque, di una giovane di piantare il fuso che si impigliò alle vesti per cui la misera fu presa da tale terrore, strémizi, che morì di colpo, de mort séka. Anche la supposizione di rivedere dei morti redivivi nelle anime semplici e timorate incute quassù molto spavento…
Ora è naturale che nel popolo sono i morti in pena, quelli cioè più o meno colpevoli più o meno puniti ed in espiazione della Divina Giustizia, che possono assumere atteggiamenti o forme paurose nell' ingenua e superstiziosa anima popolare, (i dannati sono appunto vestiti in rosso cupo) e, logicamente, sono codesti morti i più bisognosi della preghiera dei vivi…

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I confinati (konfinà)
È questa forse la più popolare e caratteristica leggenda del Bormiese. I konfinà sono i morti che condussero vita peccaminosa e che sono obbligati, per volontà di Dio, per misción de Dio, a rimanere confinati nei luoghi generalmente più
selvaggi e solitari dei monti. Essi erano confinati per toglierli fuori dalle case, per toj fora di bajt, e tenerne lontano lo spirito maligno. Sono sempre, però, spiriti cristiani in pena e, generalmente, condannati a battere le rupi con mazze potentissime. Nessun li vede ma molti ne odono, ancora, il picchiare sotterraneo. La mazza non deve essere toccata: se si trovasse per caso nel terreno essa scomparirebbe e porterebbe sventura, sventura terribile lanciata dal konfinét essere invisibile ma attivissimo. Così raccontava il vecchio Marco di Uzza già da noi ricordato. Le leggende sui konfind sono numerosissime e ne esistono in Bormio ed in tutte le vallate del Contado. Ne accenneremo ad alcune fra le più tipiche, in quanto il konfinà è la più diffusa credenza rimasta tuttora nel popolo, traendole dalle varie vallate bormiesi.
A Bormio nellafrazione Combo, nei sotterranei della antichissima ex casa Zuccola-Settomini è confinato don Gaudenzio Zuccola, signore vissuto nel settecento di vita allegra e scostumata, condannato colà a "picchiare continuamente con una pesante mazza di ferro che gli deve essere rinnovata per sette anni... „.
Nel Vallone del Braulio, e più specialmente nel vallone dei Vitelli e Piano d'Asta alla quarta cantoniera dello Stelvio, sono confinati i vecchi bormini, al véc P...; al véc C..., mentre sulla vedretta del Giogo dello Stelvio havvi il vecchio prete Z.
Narra Glicerio Longa che un vecchione, certo Pietro Bermolini detto Tarkíta, mentre parecchi anni fa con una dozzina di amici fra cui il famoso botanico Martino Anzi faceva una escursione su quei ghiacciai sentì lui stesso con le sue proprie orecchie "che i konfinà di valle Vitelli picchiavano senza tregua ...„

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Gli eretici.
Secondo la credenza popolare bormina l'anima dell'eretico viene cacciata in luoghi orribili sino al giudizio universale e si incarna nel corpo di un cane o di un porco o di un orso vagabondo e, sinanche, in quello di un cavallo mai in quello di un agnello, bue od asino forse perchè animali consacrati dai testi biblici...
Queste incarnazioni come, acutamente osserva il Longa, sono traccie di tutta una "zoologia religiosa„ secondo l'espressione del Niceforo e sono fra le più interessanti nelle tradizioni alpine. Ne evochiamo alcune delle varie vallate e del centro (Bormio).
È vivissima nel Bormiese la tragica fine, al Dosso sopra Cepina, del conte Gaetano Lechi chiamato, come accennammo, il Conte Diavolo. La tradizione popolare vuole che dopo morto si fosse tramutato in un orso bruno errante fra quelle balze...
Ma gli eretici si mutano, anche, oltre che in cani, porchi, ed orsi, in cavalli selvaggi. In attesa del perdono di Dio essi errano per l'aria su bianchi cavalli nelle notti di tempesta ed il montanaro bormiese che ode il vento fischiare, sinistro, fra le alte rupi scoscese ed agitarsi, in lamento, le cime degli abeti e dei pini mormora, sommesso e spaurito: è la caccia selvaggia! Analoghe credenze e leggende ritroviamo nei paesi scandinavi : la incarnazione di Odino si ripete nelle valli camune ed in quella trentina di Fieme...

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I tesori nascosti.
Questa credenza dei tesori nascosti — ché chiamava quasi a raccolta tutto il mondo demoniaco delle streghe e stregoni, maghi, confinati, anime in pena — si ritrova su per le balze dei monti e nelle bajte solitarie e sperdute come nei paesetti delle vallate e della stessa Bormio e rivive in tempi più recenti nelle valli attigue atesine, trentine e camune.
Lo stesso demonio entra direttamente a tentare i cristiani coi tesori più meravigliosi!…
In Bormio la leggenda dei tesori nascosti si intreccia coi ricordi di un patriziato ricco e potente. Ricordi vaghi e confusi perchè i documenti sicuri mancano nei particolari della vita privata ma che le vecchissime case, i ruderi delle torri, gli avanzi architettonici attestano di questo patriziato l'esistenza
attraverso i secoli. Su questi ricordi la fantasia popolare lavora e crea leggende più o meno fantastiche e paurose.
Così nei sotterranei bui e lunghi che sembra realmente, dai pochi assaggi fatti, attraversassero il borgo e collegassero le Casate più potenti (forse rifugi in tempo di guerra, durante i saccheggi, gli incendi, le pestilenze) la tradizione ripete che, ancora oggi, in quei sotterranei si spengono le fiaccole in mano a quelli che volessero penetrarvi e vecchissime persone narrano, ancora, che soffiano sui lumi invisibili spiriti che stanno laggiù custodi dei "famosi tesori...„. Ed il popolo, o meglio la credenza popolare, specifica meglio le sue fantasie.
Così nella casa già dei nobili De Brunis poi Dea (ora Buzzi-Negri), l'unica delle pochissime che ancora conserva traccie notevoli dell'antica sua architettura, esisterebbero dei "veri tesori„. In essa vi era una sala sfavillante, teatro, nella notte, di balli licenziosi: "vi si entrava da una porta ferrata sotto un archivolto,,. "Si narra ancor oggi, secondo la Rini Lombardini, di donne del popolo scomparse da non molto tempo che vi furono condotte ad occhi bendati attraverso una rete di misteriosi sentieri. Una notte nel fervore delle danze si spensero i lumi, tremarono le pareti e comparve fra lampi sanguigni il demonio!„ E si narra, ancora, di strani rumori che si odono nel silenzio della notte, dei neri gattoni che passano, rapidi, sui tetri loggiati, lampeggianti negli occhi e di "una signora vestita di seta che appare di quando in quando...„
Pure intorno alle rovine del quartiere degli Alberti (che dalle merlate rocche sovrastanti la chiesa arcipretale ed il vicolo dei morti va sino alla via tuttora chiamata degli Alberti dalle vecchie bifore e piccole porte di sasso a sesto acuto e che limita a nord la via Vittoria già Riparto Dosso Ruina) fioriscono tradizioni tetre ed ancora più tetre e strane leggende.
"Era, continua la Rini Lombardini, ancora fiorente la Casata degli Alberti quando, fantasma implicata di chissà quale dramma, risaliva la Dama Bianca dai profondi sotterranei del palazzotto merlato per andare cauta ed improvvisa, con passo d'ombra, di stanza in stanza muta annunziatrice ai nipoti di una non lontana sventura. Si dice anche di lei che, avvolta in bianchi veli, agitasse misteriosamente delle antiche pergamene su cui erano scritte indicazioni per ritrovare il tesoro nascosto,,. Leggenda, questa, che ci ricorda quella delle ruine del castello di Carlomagno sopra Esine già feudo dei Federici ben visibile dal convento dei P.P. Cappuccini della S.S. Annunziata presso Borno di Valcamonica…

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Alla leggenda mistica e gentile della Madonna di Isolaccia fanno riscontro le paurose e strane storie che dalle Torri di Fraele che sovrastano Isolaccia ed il suo verde piano nelle giornate di bufera ricorrono nelle menti dei più vecchi di quei montanari, storie a loro tramandate dai padri e dai monaci.
Come spesso avviene la trama leggendaria si ricollega ad un fatto storico. Siamo al tempo della maggiore floridezza del Contado. Spavaldo ne è Podestà per gli Sforza Cisermundo che ha rintuzzate, con arrogante sprezzo, le richieste del retico ambasciatore Ulrico di Massol di Stiss. Pochi mesi dopo le Tre Leghe Grigie invadono il Contado malgrado le offertedei sei ambasciatori inviati da Bormio. Questi vengono, contro il diritto delle genti, rinchiusi e tenuti in ostaggio nella torre di Zernez. Dice la leggenda che alle Torri di Fraele fu tentata la resistenza ed in un primo tempo dalle Scale, interrotte ma ricoperte astutamente con frasche e cuoio, nell' assalto notturno precipitarono cavalli e cavalieri ed insegne nel sottostante burrone che dal passo delle Torri strapiomba in lavina sopra il Sasso di Prada presso la chiesa parrocchiale di Pedenosso. Nelle prime ore della lotta il panico e l’incalzare delle schiere sopraggiungenti celeri al rumore della lotta, l'oscurità, il sospetto del tradimento aumentarono la confusione e la carneficina. I cadaveri furono tanti e la carneficina così intensa che corsero dalle Torri pel Sasso di Prada a Pedenosso sino alla Piana di Isolaccia rivi di sangue commisti alle acque che precipitano, dall'alto, fra sterpeti e macigni.
Ma più che l'astuzia ed il valore potè il numero e la resistenza bormina fu vinta. Per dieci giorni e dieci notti i grigioni saccheggiarono Bormio ed il Contado: poi scesero, baldanzosi, a valle. La leggenda indugia su quel tragico precipitare dalle Torri di cavalli e cavalieri nella notte fonda ed ai primi chiarori dell'alba; narra di urla e di gemiti ripercossi dalla montagna in echi paurosi; di gente inerme, ferita o morente, finita a colpi di mazza; di scheletri, corazze e schinieri sepolti e ritrovati fra quei greppi e di altre strane e sinistre storie che si ricollegano ad altri avvenimenti assai più antichi.
Come avviene di solito nelle leggende fantasia e superstizioni mutano date, fatti e trasformano e riavvicinano gli avvenimenti. Così si parla tutt'oggi tra quei monti anche di una grande battaglia avvenuta sino dai tempi di S. Ambrogio (secolo VII) nella piana di Fraele, oltre le Torri, nel campo di "Zuco„ contro gli Ariani : si dice che la carneficina fosse orrenda anche in quel tempo come lo attestano armi e ossa gigantesche ritrovate. Forse dal passo delle Torri (allora forse non esistenti) accorsero i difensori battezzati e sfuggirono alla strage : forse, invano, gli sperduti ed i vinti. Quella forra o canalone che dalle Torri precipita a valle su Pedenosso ed Isolaccia chiamasi tuttora Burrone dei Morti ricco come è di tradizioni di stragi e di sangue...”

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