Ogni realtà luminosa ha un risvolto umbratile, notturno, tenebroso. Tale è anche la terra di Livigno, che mostra il suo volto sorridente al visitatore, con ricchezza di colori e di scorci, ma serba nascosto anche un lato notturno, espresso da alcune leggende e credenze. La più curiosa, forse, si radica in un fatto storico, nel contesto del disgraziato periodo delle guerre di Valtellina (1620-1636), nel quale la valle venne percorsa dagli eserciti di parte opposta, nessuno dei quali si mostrò davvero amichevole nei suoi confronti. Ecco come la racconta Glicerio Longa, nel suo bello studio su “Usi e costumi del Bormiese” (1912; nuova edizione a cura di Alpinia Editrice nel 1998):
L'esercito imperiale condotto in Valtellina dal Fernamonte (1635), forte di quasi ottomila uomini, con cavalleria, era accampato a Livigno sotto gli ordini di Breziguel. Il duca di Rohan, che era a Scanfs in Engadina, mandò Frezeliere con alcune truppe attraverso il passo di Cassanna e la Val Fedaria a occupare le alture di Blesécia, e poi scese egli stesso con tutte le truppe, circa quattromila fanti e quattrocento cavalli, per il passo e le valli sopraddetti. Il combattimento fu accanito specialmente attorno al Camposanto. Era notte. I francesi — in numero molto minore — ricorsero a uno strattagemma. Travestitisi coi bianchi camici dei confratelli occuparono il sacrato attorno alla chiesa. Sopraggiunti i tedeschi, a quella vista, gridarono: «Noi combattiam coi fanti e non coi santi!». E, in preda al più superstizioso terrore, fuggirono, rincorsi, fin sotto li Ostarìa (bàjta de l'òlta), dai furbi francesi, che rimasero padroni del campo. Questo episodio lo raccontano spesso i vecchi di Livigno, convinti come gli imperiali che i soldati combattenti in veste bianca, attorno al cimitero, fossero proprio... i mort.”

Questo racconto lascia aperta una domanda: perché mai i morti livignasch avrebbero dovuto parteggiare per i Francesi? Per nessuna ragione, secondo Tullio Urangia Tazzoli, che, nel III volume de “La Contea di Bormio”, dà una diversa versione della leggenda:
A Zuotz… il duca di Rohan… giunse in rapida marcia dal Maloja il 25 giugno 1635, congiungendosi ai distaccamenti del De Lande e Montauzier: un totale di 3000 francesi, 1500 grigioni e 400 cavalli. In valle di Livigno eranvi 8000 imperiali sotto il comando di Brisighel: quasi il doppio del piccolo esercito franco-svizzero. Nella notte dal 25 al 26 giugno Rohan tiene consiglio di guerra. Malgrado l’opposizione del De Lande decide l’azione a oltranza e dà l’ordine di avanzata immediata verso il passo di Cassana. Impresa ardita il valico di passi ancora coperti di neve, in una stagione, data l’altitudine, non la migliore, con centinaia di cavalli ed impedimenti, contro un nemico assai più numeroso, agguerrito, riposato! Le avanguardie ai primi chiarori dell’alba pel vallone di Diveria sboccano nella valle dello Spöl. Un ripato misto, grigione e francese, occupa a sorpresa la chiesa parrocchiale di S. Maria ed il cimitero attiguo che diventa il perno della resistenza e dell’offensiva. Gli imperiali, sparpagliati largamente nelle bajte a bivaccare, senza alcuna ordinanza né protezione ai passi, vengono colti all’improvviso e quasi assonnati dai franco-svizzeri. Per maggiore sfortuna ed imprevidenza i ponti sullo Spöl erano stati tagliati e più difficile riusciva la ritirata. Al meglio le ordinanze imperiali si composero e contrattaccarono.

Affermano Glicerio Longa e Giuseppina Lombardini, che si occuparono di storie bormiesi, che in un primo momento i francesi ebbero la peggio. Ma travestiti coi camici di una confraternita, spaventarono gli imperiali che fuggirono in preda al più superstizioso terrore… Ma la tradizione popolare non è questa: ha una concezione assai più larga, religiosa e patriottica insieme. Dice essa (e il ricordo in Livigno è ancora vivo) che contro gli invasori franco-svizzeri ed imperiali, comunque e sempre stranieri e predatori della valle, insorsero i morti livignaschi tanto più sdegnati dalla profanazione e dall’oltraggio recato ai luoghi sacri. Insorsero e gridarono altamente, nei primi bagliori dell’alba: “Via di qua!” E l’effetto fu immediato e disastroso! Poche ore dopo, infatti, gli imperiali si ritiravano su Bormio pei passi d’Eyra e di Foscagno ed, a sua volta, il Rohan per il passo della Forcola e Poschiavo si dirigeva su Tirano.”
Tornando al bel volume del Longa, vi leggiamo la spiegazione di quel che un tempo veniva chiamato il “mal de la luna” e della sua cura:
Per guarire il male della luna (colpo di sole o d'aria): bisogna cavar sangue. Per guarire i ragazzi dal mal della luna (voglio dire quando essi restano tramortiti, perché nel corpo sì genera un verme con due teste e va al cuore e qualche volta li accoppa): fior di farina di frumento fatta passare per uno staccio di seta finissimo. Se ne mette un pizzico in un bicchiere di acqua di fontana che diventa come latte. Questo beverone si dà giù ai ragazzi e in un batter d'occhio il vermaccio è bell'e crepato.”
Stupisce il riferimento alla luna quando di mezzo ci sono sole ed aria: si consideri, però, che la luna veniva ritenuta responsabile di molti disturbi che avevano come sintomi smarrimento, comportamento anomalo, vaneggiamento. La famosa leggenda del “baitel de la luna” esprime bene il potere della luna di stregare e far perdere il senno. Ecco come viene riportata da Maria Pietrogiovanna nella sua bella raccolta dattiloscritta “Le leggende in Alta Valtellina” (Valfurva, giugno 1998):
Nando, un giovane pastore di Livigno, era solito passare l'estate in una baita un po' fuori dal paese, situata su di un dosso in mezzo al bosco. Una sera di luna piena fu attratto all’improvviso da un rumore sordo, portato dal vento, che proveniva dalla Val Federia. Forse erano le onde del ruscello e raccontavano la leggenda del Monte Cassana e di quelle strane processioni di spiriti felici vestiti di bianco, salmodianti sotto la luna. Contemplando il cielo, si accorse che la luna si stava spostando e veniva verso di lui. Essa si fermò sopra la sua baita gli fece un sorriso misterioso ed ammiccante. Si spostò in direzione di una roccia poco distante, poi si allontanò e ritornò in cielo. Nando, incuriosito, si avvicinò alla roccia e vide una minuscola porticina spalancata, attraverso la quale si vedeva un cunicolo, illuminato da tenui fiaccole. Cominciò a scendere lungo il passaggio sotterraneo, che diveniva via via sempre píù agile.
Ad un tratto la stradina terminò e Nando si trovò davanti un'ampia grotta sotterranea, illuminata a giorno da grosse lucciole gialle che roteavano lentamente nell'aria. Un'insegna rossa, gigantesca, con una scritta a caratteri cubitali annunciava il benvenuto nel paese di Cronosveritopoli. La reggevano due grilletti neri e striminziti. Fiori bellissimi, mai visti prima, spuntavano dalle pareti rocciose della grotta, mentre esseri strani, buffi, di tutti i colori e alti appena due spanne, se ne stavano lì attorno affaccendati... nei loro divertimenti. Quando si accorsero della sua presenza, lo guardarono benevoli e lo invitarono ad unirsi a loro. Nando, seppure timoroso, accettò l'invito. Un'insegna luminosa, posta ai piedi di un'enorme pianta e con la scritta "Tutto gratis", attirò la sua attenzione. Lì accanto erano esposti in bella mostra ghiottonerie di ogni tipo, oggetti vari e marchingegni sconosciuti. Nando non seppe resistere ed allungò la mano per prendere alcuni dolcetti di marzapane. Subito una vocina secca ed imperiosa risuonò all'interno dell'albero, richiedendo i soldi, perché in quel mondo "Tutto gratis" voleva dire che bisognava pagare in contanti. Nando rimase perplesso, ma deciso a continuare il suo giro in quel mondo sconosciuto e divertente.
Vide una terza insegna con questa scritta: "Attenzione, è il momento della verità, a tutti i cittadini di Cronosveritopoli verrà fatta una domanda. I bugiardi verranno puniti in modo esemplare". Nando pensò fosse un tranello, ma da buon montanaro aveva fiducia nella gente, lui stesso era conosciuto in tutta Livigno per la sua onestà e la sua lealtà. Quando gli venne chiesto come si chiamasse, Nando rispose dicendo il proprio nome. Subito apparve questa nuova scritta: "Questo è un bugiardo, il suo vero nome è Odnan". Per punizione il giovane venne costretto a mangiare dei biscotti. Ne assaggiò uno e, dopo che il suo naso era cresciuto di un palmo, disse che erano "schifosi", anche se in realtà erano buoni. Un applauso accolse le sue parole, il naso ritornò normale e sull'insegna apparve la seguente scritta: "Hai vinto un viaggio di andata e ritorno per Livigno. Addio e arrivederci". Nando era dubbioso se credere o meno, questa volta però non c'era nessun inganno. Intravide il passaggio che percorso, lo imboccò in tutta fretta e in un batter d'occhio aveva imboccò ritrovò nella sua baita, che da quel giorno fu soprannominata Baitel de la Luna”.
Bella versione, questa, del mal della luna, e bella variante di un tema sempre intrigante, quello del mondo dove tutto va alla rovescia e dove, per essere normali, bisogna, appunto, dire e fare le cose alla rovescia. Il nucleo di questa leggenda si trova nell'articolo "La leggenda del Baitel de la Luna", di Alma, in "Aria buona" (inverno 1959-60).
Nella leggenda si accenna alle strane storie legate al passo di Cassana. Si tratta di un passo storico, la più agevole via di comunicazione fra Bormiese ed Engadina, fra Livigno e Davos. Nel 1635 vi passò, come abbiamo visto, anche l'esercito francese del Rohan per scendere a dar battaglia agli imperiali nella piana di Livigno. Ebbene, il passo fu, qualche secolo prima, teatro di una duplice incursione notturna e di un rapimento incrociato, elaborato in racconto da Alfredo Martinelli nella raccolta "L'erba della memoria - Leggende e racconti valtellinesi" (Piccolo Tibet, Milano, 1964, pp. 11-18).
Siamo nel secolo XIV ed i rapporti fra livignaschi e tavatini (abitanti di Davos, l'antica Tavate) erano molto tesi, anche perché le due comunità stavano a guardia rispettivamente della Valle dell'Adda e del bacino del Reno, e questo portava ad attriti ed a scontri che avevano portato la tensione al culmine. Venne, dunque, decisa da entrambe le parti un'azione che aveva lo scopo di portare alla rovina la comunità nemica, il rapimento della sua stessa radice vitale. Si trattava di due animali, nei quali si riassumeva la potenza generatrice della natura, il toro Nino, a Livigno, e l'orso Moro, a Davos. Ebbene, durante una notte oscura avvenne una duplice spedizione di manipoli che rubarono, dall'una e dall'altra parte, questi animali. Le conseguenze non si fecero attendere. A nord ed a sud del passo di Cassana la natura cominciò a perdere, gradualmente ma inesorabilmente, la propria potenza vitale: i pascoli inaridirono, gli armenti non diedero più latte, nessuna bestia rimase più gravida. Tutto sembrava condurre alla morte, perché gli uomini non sarebbero potuti sopravvivere a lungo alla morte della natura che li ospitava. Ed allora, su entrambi i fronti, fu deciso di chiedere consiglio agli spiriti dei defunti. Così nel livignasco le anime purganti della Valle delle Mine pronunciarono un verdetto inequivocabile: restituite ai tavatini l'orso rapito. Analogo il verdetto del Genio del Bosco nella Valle dello Zug: restituite il toro ai livignaschi. Così il passo di Cassana fu teatro, questa volta alla piena luce del giorno, della restituzione delle bestie rapite e della riconciliazione. La natura subito rifiorì, tutto tornò alla vita ed il 18 maggio 1365 fra le due comunità venne firmata una pace solenne.

L'accenno alla valle delle Mine non è casuale: questo scenario arido e desolato è, secondo un'antichissima convinzione, luogo nel quale sono relegati i confinà, cioè le anime che debbono pagare per la loro condotta malvagia in vita, e sono condannate a battere senza sosta, con pesanti mazze, sulla sterminata congerie di massi che vi si trova. Nelle notti più oscure chi si trovi a passare di là può sentire il sinistro rumore dei colpi di massa sulla roccia.
Sul tema dei confinati, ecco, di nuovo, l'Urangia Tazzoli (op. cit.):
In valle di Livigno é più che mai diffusa la leggenda dei konfinà. In un luogo famoso per tregende, Le steblina sul monte Mine, havvi confinato un livignasco. Ancora oggi, mi diceva una persona seria di Livigno, vi è gente che giura e spergiura di sentire realmente, passando di là, i caratteristici colpi di mazza! Vi riferiscono, poi, che il teschio del livignasco, anche se rimosso dal luogo ove fu confinato, torna a ritrovarsi sempre nel primitivo luogo riportato, colà, da forze misteriose...
Un'altra leggenda, sul medesimo tema, ci chiarisce quale sia la condizione ed il destino ultimo di queste anime. Chiamiamo in soccorso, per raccontarla, di nuovo Maria Pietrogiovanna (op. cit.):
Nel buio degli orridi pietrosi della tetra gola delle Mine sarebbero confinate le anime di chi fu 'inviso a Dio ed al nemico suo'. Le anime hanno incise sulla fronte sette P e sono gravate alla schiena e sul petto di grossi sacchi contenenti le loro colpe. Esse salgono sudando arse per la sete, quando il gelo le sferza, e rabbrividiscono, quando il sole torrido le scotta. Salgono per i gradoni della valle che si fa più aperta e chiara, a mano a mano che i sentieri diventano meno erti e spinosi. Quando quelle anime saranno giunte, dopo secoli e secoli, alla testata dell'altura, ai limiti delle nevi, detergeranno la fronte dai segni della penitenza nelle limpide acque del laghetto delle Mine e quelle ombre vane diverranno subitamente traslucide nell'aspetto. Davanti ad esse apparirà un vastissimo dilettevole scenario. Tanto vago ed ampio è il paesaggio ch'esse crederanno d'essere giunte nel paradiso terrestre e si scorderanno di proseguire per il Paradiso. Tutto ciò per opera dei buoni Livignaschi sempre pronti ai suffragi, alla pietà, al perdono, ma non alla dimenticanza.” Amara esemplificazione di un vecchio modo di dire: perdono, ma non dimentico!

Chi non può essere in alcun modo dimenticato sono gli operatori di stregonerie e malefici, streghe e stregoni. Il più curioso maleficio di cui le cronache livignasche sono memori si manifestò nel 1642; ce lo racconta Alfredo Martinelli ("La cerva, la volpe e Bepin de la Pipa"), nella raccolta "L'erba della memoria - Leggende e racconti valtellinesi" (Sondrio, 1964). Erano tempi duri, le due ondate di peste del 1629-30 e 1635-36 avevano arrecato gravi lutti anche in Alta Valtellina. Ma quella mattina la peste non c'entrava. Quella mattina, una fredda mattina d'inverno, diverse donne cacciarono un urlo tanto acuto e potente da richiamare l'attenzione di mezzo paese. La Maddalena, per prima, e subito, a ruota, Lucrezia del Canton, e, via via, molte altre. Cosa c'era da strillare? Queste buone donne, alzandosi dal letto di buon'ora, perché le cose da fare in una casa sono sempre tante, e troppe, si accorsero, con raccapriccio, che i loro piedi non entravano nei grossi scarponi che calzavano per difendersi dai rigori del freddo. Non c'era proprio verso: per quanti sforzi facessero, i piedi non ne volevano sapere di entrare. Piedi gonfi? Scarponi ristretti? Macché! I piedi erano diventati più grandi, di almeno due dita. Lo si vedeva ad occhio nudo. E le dita, quelle erano tanto deformate, da ritorcersi l'una sull'altra. All'inizio ebbero tanta vergogna che si chiusero in casa e pregarono, tutto il giorno e tutta la notte successiva. Senza esito. Si fecero, quindi, coraggio ed uscirono in paese, dove constatarono che la stregoneria non aveva risparmiato nessuno. Come, da chi e perché fosse venuta non ci fu modo di saperlo con sicurezza, anche se girarono voci diverse sul maligno visto su a li Steblina, su un gatto nero e su una lontra che avevano emesso versi diabolici, su una civetta a tre code che si era vista sul Ponte del Gallo. Si diede la colpa anche ai quei folletti dispettosi che di notte si intrufolano nelle baite attraverso gli “usciol” per il ricambio dell'aria, annidandosi nel petto di chi dorme e provocando gli incubi. Come annullare la stregoneria, però, questo era il problema più importante. Si decise di salire in pellegrinaggio all'alpe Vago e di piantarvi una croce come segno di penitenza e come supplica della misericordia divina. La quale non mancò di venire in soccorso dei Livignaschi, i cui piedi tornarono delle misure consuete.

Non c'è stregoneria senza stregone. Ecco, al proposito, la storia di Bepin de la Pipa, che ebbe modo di fare esperienza diretta di questa verità. Ce la racconta di nuovo Alfredo Martinelli ("La cerva, la volpe e Bepin de la Pipa"), nella raccolta "L'erba della memoria - Leggende e racconti valtellinesi" (Sondrio, 1964); così la riassume Maria Pietrogiovanna:
Il cacciatore Bepin de la Pipa, andato a caccia risalendo il ponte delle Capre su per la valle del torrente Torto verso Trepalle, vide una bella cerva legata ad un albero e la slegò, lasciandola libera invece di ucciderla. Recatosi poi alla fiera di Tirano e non avendo venduto il bestiame, egli venne avvicinato da una bellissima donna a lui sconosciuta. Costei diede a Bepin il denaro corrispondente al bestiame, lasciando al livignasco sia i soldi sia gli animali. Ella raccomandò al cacciatore, inoltre, di essere sempre buono con la Cerva del Bosco e di uccidere, invece, la Volpe fulva delle Mine. Il montanaro comprese che la trasformazione della fanciulla in cerva era stato un incantesimo, uno dei tanti compiuti da un tizio stregone in grado di mutare la natura delle più belle fanciulle e di rilegarle in luoghi deserti e paurosi.
Passarono alcune stagioni ed un pomeriggio, mentre si trovava a falciare l'erba in un prato che aveva alla Tresenda presso lo Spöl all'imbocco della Valle delle Mine, Bepin de la vide Pipa vide la volpe. Egli la colpì con una terribile falciata, sicché la bestia, assai malconcia nelle zampe, fu costretta a fuggire e si infilò su per la valle verso li Steblina, dove le ossa di chi lassù muore devono essere lasciate. Infatti, se vengono tolte di là, subito vi tornano per forze misteriose, condannate alle pietraie spente fuor del tempo. La sera di quel giorno stesso, in paese fu portato d'urgenza il viatico ad un tizio stregone, ferito alle gambe così come era avvenuto alla volpe rabbiosa colpita da Bepin. Certo il tizio era "el striòn" che si era incarnato in quell'animale; altri non era che lo stregone che aveva fatto male a quella fanciulla, così pensò e commentò il montanaro nelle sere successive. Vero è anche, che con la morte di costui, nella vallata non si sentì più parlare di incantesimi. Infatti, non si è più sentito raccontare né di cerve legate né di volpi ringhiose in quel di Livigno. Neppure è più avvenuto che alle donne del luogo si involassero i panni e che le lenzuola stese fuori sui prati si vedessero poi, il giorno successivo, biancheggiare sulle cime dintorno. Solo nella Valle delle Mine si odono ogni tanto i gemiti degli spiriti delle solitudini, i quali si divertono a far rotolare sassi e macigni e che nelle notti solenni mandano lunghi ululati di angoscia.”

Ma la manifestazione più paurosa del male è quella del maligno stesso che, secondo antiche leggende, si manifestava nella forma di orrendi animali: il basilisco dall'occhio di fuoco, che andava nelle notti di plenilunio a caccia di anime al Grasso di Pra Grata, e la volpe maschio, dal pelo irto e coperto di aculei, che nei giorni del “solastro” veniva giù dalla Valle dell'Orsa, in cerca di cristiani da divorare. La vide, una volta, il coraggioso Stefanìn, venire giù dalla cima Serraglio. Se ne stava presso il crocifisso vicino alle pareti della cima, e non indietreggiò, ma, invocando la potenza divina e quella di San Michele, capo dell'esercito degli angeli, ingiunse alla belva di andarsene. Le sue parole provocarono una spaventosa saetta che colpì la belva, precipitandola sul fondo della valle. La leggenda narra, poi, che al coraggioso Stefanin capitò di trovare lo stesso crocifisso caduto giù dalla Cresta Serraglio e stretto nella morsa del gelo. Riconoscente per l'aiuto che gli aveva prestato quella volta di fronte alla volpe-diavolo, lo portò a casa sua, lo riscaldò e gli promise che l'avrebbe rimesso al suo posto. Questo avvenne, e fu così che Stefanin sentì tutto l'orgoglio di aver potuto ricambiare l'aiuto che gli era venuto dal Signore. La storia, però, non termina qui: al pastore era apparso anche lo spirito del nonno Stefanon, che gli aveva detto come liberarsi definitivamente dal basilisco-demonio: bisognava sorprenderlo nelle notti di novilunio e centrarlo, con un colpo di carabina, proprio nell'occhio di fuoco con il quale stregava e portava via le anime.
E con questo suggerimento che, forse, tornerà utile una volta o l'altra anche al più scettico fra i lettori, si chiude degnamente questa breve carrellata sui notturni livignaschi.
Ma dopo la donne, si sa, viene l'alba, e l'alba più attesa dell'anno era, un tempo, forse quella dell'Epifania, perché vi si giocava una gara d'abilità e d'astuzia: ciascuno cercava di sorprendere gli amici apostrofandoli, per primo, con la parola "gabinàt!"
Per chiudere con una nota simpatica, ecco, dunque, un divertente episodio raccontato da Glicerio Longa in “Usi e costumi del Bormiese” (1912, riedito da Alpinia Editrice nel 1998), che ha fra i protagonisti un sacerdote livignasco, don Doménik:
“È ancor vivo il ricordo di due buoni preti, dei quali uno mingherlino e quasi nano (al Sc’kenìn), l'altro corpulento ed aitante (don Doménik). Tutt'e due d'arguto e giocondo umore, vicini di casa ed amicissimi.
In una di tali feste il grosso prete se n'andava alla parrocchiale per dir la messa cantata; ma ogni tanto si voltava indietro guardingo, per tema di qualche sorpresa. Nulla. Solo da lontano, sulla strada bianca di neve, un uomo con una gerla s'avanza dritto e rapidamente, come se essa fosse vuota. Si era ormai alla piazza, fra la turba degli accorrenti alla chiesa. Ad un tratto dalla gerla emerge il capo grigio dello Sc’kenìn, che suona un pugno sulla groppa dell'amico, gridandogli, sghignazzando: «Gabinàt!».
"Te me l'èsc féjta sc’tòlta, ma te me la pagarèsc! Tu me l'hai fatta questa volta, ma tu me la pagherai!" risponde don Doménik – che era livignasco – voltandosi come sbalordito.
Poi, tra le risa approvatrici della folla, se ne vanno a braccetto in sagrestia.
Si racconta che l'anno appresso, al Sc’kenín venisse d'urgenza chiamato al letto d'una puerpera, di cui aveva battezzato il rampollo nella giornata.
Non è a dire come rimanesse, quando, entrato nella camera, sentì risuonare un allegro ghibinèt e riconobbe nella puerpera... l'amico don Doméník…
L'usanza di vincere il gabinàt è comune in tutto il Bormiese. A Cepina e in Valfurva dicono gabinèt, a Semogo ghebinèt, a Livigno ghibinèt. Qualche volta il prevenuto, sorpreso dal grido «Bondì, ghibinèt!», risponde scherzosamente: «Tiri la ció al ghèt! Tira la coda al gatto!».
Nota: Così la parola gabinàt, che vuol dire dono della Befana, come l'usanza sono di origine germanica (Baviera). Ma a noi l'usanza stessa pervenne certo dal Tirolo (Alto Adige), col quale pure l'abbiamo in comune. A Poschiavo, gabinàt regalo di capodanno, capodanno; trentino beghenate, benagate, i doni della befana, dal tirolese-bavarese gébnacht che significa natale, capodanno, epifania. Nel trentino, anche: canzoni cantate davanti alle case da ragazzi poveri da natale sino alla befana, e i doni che per ciò ricevono.

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