Avete presente la fiaba di Hänsel e Gretel, dei fratelli Grimm? Si tratta di una delle più chiare espressioni della venatura horror che caratterizza molta della produzione fiabesca. Su questo modello sono ricalcate almeno un paio di leggende in Valchiavenna.
Quella del Pedoscìn, ambientata ad Uschione, sopra Chiavenna, racconta di un intrepido bambino imprigionato in una cassapanca da nonna e zia, streghe della peggior specie, che meditano di ingrassarlo ben bene, come un maialino, e poi di cucinarlo e mangiarselo. Per saggiare gli esiti della loro cura, le streghe gli chiedono, di tanto in tanto, di mettere fuori un ditino, con una frase ricorrente: “Pedoscin, Pedoscin, met fo ‘l tò didìn”. Pedoscin, però, è furbo e, al posto del dito lascia sporgere dal foro della cassapanca un bastoncino di legno. La nonna ci vede poco, lo tasta e commenta, sconsolata: “No, è ancora troppo magro”. Per un po’ l’espediente funziona, ma poi è la zia, insospettita, a controllare come procede la cura. E la zia ci vede bene, per cui non si fa ingannare dal bastoncino. Guarda dentro il foro e vede un bel volto paffutello. “E’ pronto, è pronto!”, commenta soddisfatta. Il bambino viene quindi tirato fuori dalla cassapanca per essere cucinato, ma, sveglio com’è, riesce ad evitare l’orribile fine. Ecco come vanno le cose. La zia scende a Chiavenna per prendere qualche erba che servirà a rendere più gustoso il pranzo, mentre la nonna cura il fuoco che serve a riscaldare l’acqua della caldaia nella quale il bambino dovrebbe essere bollito. La fiamma, però, non ne vuol sapere di prendere vigore: la legna è troppo verde, c’è più fumo che fuoco. Tenta, la vecchia strega, di attizzare il fuoco, ma con scarso successo. Ed allora, con il tono di chi si rivolge al più caro ed amato dei nipoti, si rivolge al Pedoscin, chiedendogli aiuto: “Séffla dent in del föoc”, cioè “Soffia nel fuoco”.
Ecco l’occasione che il bambino aspetta. Con un candore che ben cela i suoi propositi, risponde: “Non sono capace, nonnina cara, fammi vedere tu come si fa”. “Oh, santo cielo, ma non ti hanno mai insegnato come si soffia in un fuoco?” replica la nonna un po’ stizzita, e si avvicina al fuoco che fa le bizze, chinandosi un po’ e prendendo fiato. Il Pedoscin approfitta dell’occasione propizia e, con uno scatto da lepre, balza alle sue spalle e la spinge dentro la caldaia. Quindi scappa a gambe levale, giù, per la mulattiera, a rotta di collo. Arrivato al Belvedere, il poggio dal quale si domina Chiavenna, alle baite del Scenc, incrocia la zia, che sta risalendo ad Uschione, convinta di trovarlo già in pentola; balza, allora, su un albero al limite del bosco, e le grida, con un tono di sfida: “Ho ucciso la nonna, ho ucciso la nonna!”. Allora la zia, usando i suoi poteri, si solleva da terra, per agguantarlo, ma il Pedoscin ha in mano un ramo, appuntito con il falcetto, e, appena la zia gli capita a tiro, la infilza proprio all’altezza del cuore, ponendo fine alla sua vita scellerata.
Vediamo, ora, la variante della fiaba a Samolaco, assai simile alla prima, come ci viene raccontata nel pregevolissimo volume Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco, curato da Sergio Scuffi ed edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Anche qui il piccolo eroe è un ragazzino che incappa in tre perfide streghe, nonna, madre e figlia, non originarie di Samolaco (per dire “no” non usano il “brì”, ma il “minga”) ed abitano in una baita isolata in un luogo imprecisato dei monti di Samolaco. Catturato, viene rinchiuso in una cassapanca perché possa ingrassare ben bene e finire cucinato come pietanza principale in un orribile pasto. La trafila è sempre quella: di tanto in tanto la più vecchia gli chiede di mostrare un dito dal foro della cassapanca, ma invece del dito vien fuori uno stecchino di legno e quella, che ci vede poco, tastandolo lo trova sempre troppo magro. Alla fine, però, il ragazzo si stufa di starsene chiuso lì dentro, e decide di tentare il tutto per tutto: mostra il dito e la vecchia strega commenta, soddisfatta: “adesso è pronto!”
La madre, ancor più soddisfatta, lo fa tirar fuori dalla cassapanca e dà le disposizioni per cucinare ben bene il poveretto: la nonna preparerà il paiolo grande e lo metterà sul fuoco, per far bollire l’acqua, mentre la figlia raccoglierà la legna per tenere sempre ben vivo il fuoco. Lei, infine, sistemerà le pecore e raccoglierà qualche cipolla e qualche verdura per insaporire il pasto. E così accade: madre e figlia escono dalla baita, mentre la nonna rimane per accendere il fuoco e preparare il paiolo con l’acqua. Vecchia com’è, però, fatica a tenere tutto sotto controllo da sola, ed allora, quando l’acqua già bolle, chiede al ragazzo di soffiare sul fuoco, perché rimanga ben vivo. “Non sono capace”, “Mi sum brì bóon”, dice però lui, che non è stupido. La vecchia ci casca in pieno, e replica: “Vieni, monellaccio, che ti faccio vedere come si fa”, “Scè, brütu móstru, ce te mósi mi cumè se fè”. Con il poco fiato che le è rimasto, si mette, quindi, a soffiare sul fuoco, per ravvivarlo; il ragazzo balza, allora, rapido come una lepre e le rovescia addosso tutta l’acqua bollente, uccidendola. Riempie, poi, di nuovo il paiolo, porta ad ebollizione l’acqua e ci mette dentro a cuocere la vecchia strega già morta.
In quel mentre rientra la figlia, che vede la scena e si mette a gridare. Ma il ragazzo non si lascia disorientare, afferra una forbice e le taglia la lingua, così se ne starà per sempre zitta. Poi prepara la tavola e ci mette sopra la vecchia, che è ben cotta. Infine ruba tutti gli oggetti preziosi ed i soldi delle streghe e se ne scappa via. Solo allora rientra la madre che osserva, compiaciuta, la tavola già imbandita. Ha una fame da strega, e si avventa sulla pietanza, trovandola gustosa. La figlia si mette, allora, a farfugliare sillabe incomprensibili: “Mà….a, mà….a…e te, mà…a l’à…a”. Vorrebbe dire “Mangia, mangia che te mangia l’ava”, cioè “mangia, mangia, che mangi la nonna”, ma non ci riesce, perché è senza lingua. La madre, che ovviamente non capisce, le assesta due ceffoni, ordinandole perentoriamente di mangiare e tacere. E così accade: le due streghe, pian piano, si mangiano tutta la nonna. E il ragazzo? Tornato a casa, viene riaccolto a braccia aperte dai suoi. Quando gli chiedono conto del piccolo tesoro che ha con sé, racconta tutto, ma la sua famiglia non ne parla con nessuno. Delle due streghe, infine, non si sa più nulla: forse la figlia alla fine è riuscita a comunicare alla madre l’accaduto, o forse no. Probabilmente sono tornate al loro paese d’origine.
Accanto alle streghe venute da fuori in quel di Samolaco dobbiamo, però, anche menzionare le streghe di Samolaco migrate in altri luoghi, come quelle che si diceva (lo racconta Maria Battistessa, classe 1892, in un'intervista a Maria Pantano, il 3 aprile 1977 - cfr. “... e al strii veran fö cura l'é nocc - Ricerca sulle leggende di Valtellina e Valchiavenna”, dattiloscritto, Biblioteca della Valchiavenna, Chiavenna, febbraio 1980, leggenda n. 146) si fossero stanziate in valle di Scaravella (Val Bodengo), presso il paesino di Bedolina. Nessuno, per la verità, le aveva mai davvero viste, ma la convinzione che ci fossero davvero e la paura erano grandi, per cui non ci si attardava mai sul sentiero che passa nei pressi di tale valle. Ad una di queste streghe si attribuiva il potere di scatenare le tempeste con pochi gesti magici.
Infine, a Samolaco ci sono anche streghe che vi sono nate e che vi restano. Come quella della valle della Bolgadrégna, sopra Nogaredo, frazione fra S. Pietro ed Era. Ci racconta la sua storia Pierina del Giorgio, di S. Pietro (citato da “Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco”, a cura di Sergio Scuffi, edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca): “Adèss vöoc’ cüntáff sü una sc’tória. Sül sentée de Pièza Cavrée, un póo dópu al Mótt de Mugnína, al gh’éva sü un gran sass gròss, péna sόor al sentée, e i disévan ce ‘l gh’éva sü dedré una sc’tría, ma brüta e catíva… e ‘l na cumbináva üna par sóort, e sc’ta póara sgéent i évan própi štüff. Un bèl dí al gh’è vügnűű in ment, par fágala a quíj de Šcinόon e Nugaré, da vughè sgió ‘l sass sgió in dála Bulgadrégna, par sc’tupácc’ l’aqua par piű fágala rivè sgió. E inόra al sass… al se brutáva brí: l’á ciapée ‘na béla cadéna, al l’á lighée e pö la gh’á dècc, l’á tirée fin ce l’á pudüü ma ‘l sass al s’è brí muvűű. E inόra cus’ála büu da fè: la tirée indré la só cadéna e ‘l ghe rasc’tée sü la níza, dála cadéna. E quaiverüün i vöran brí cre, però se i váan sü a vedé, la gh’è amò sü inciöö.”
Sfuggito qualche dettaglio? Ecco, ad ogni buon conto, la traduzione in dialetto fiorentino: “Adesso voglio raccontarvi una storia. Sul sentiero di Piazza Caprara, un po’ dopo  il Mot de Mugnina, c’era un grande masso, appena sopra il sentiero, e dicevano che dietro viveva una strega, ma brutta e cattiva…e ne combinava di tutti i colori, e quella povera gente era proprio stanca. Un bel giorno le è venuto in mente, per fargliela a quelli di Schenone e Nogaredo, di far rotolare quel masso giù nella Bolgadrégna, per fermare l’acqua e non farla più arrivare giù. E allora il masso… non si  muoveva: ha preso una bella catena, lo ha legato e poi ci ha dato dentro, ha tirato finché ha potuto, ma il masso non s’è mosso. E allora che ha dovuto fare? Ha tolto via la sua catena e sul masso è rimasta l’impronta della catena. E qualcuno non vorrà crederci, però se salgono a vedere, c’è ancora oggi.”  Infatti, andando a vedere, si possono osservare, sul grande masso, i segni, come una strisciata, della catena usata dalla strega.
Quel che la signora Pierina non dice, però, è qual mai fine abbia fatto la strega. Una fine misera, se è di lei che parla un’altra leggenda, quella della “sc’trìa dàla val”, cioè della strega di una non meglio specificata valle. Costei viveva sola ed era interamente dedita ad ordire trame ai danni del bestiame e dei contadini. Uno di loro, però, che la conosceva bene, non perdeva occasione per minacciarla: se non avesse smesso di fare del male ai cristiani, glie l’avrebbe fatta pagare salata. La strega, ovviamente, a smettere di fare del male non ci pensava neppure. Pensava, invece, di sbarazzarsi dell’incomodo contadino ed un bel giorno si decise a farlo, forse esaltata dal sabba della notte di San Giovanni (solstizio d’estate: si credeva che in questa notte, la più corta dell’anno, le streghe si dessero convegno per scatenarsi in un sabba e resistere alle forze della luce; si diceva, inoltre, che in quella notte i vermi entrassero nella frutta, guastandola). Quel giorno, dunque, attese che questi scendesse lungo un sentiero stretto ed esposto su un dirupo, con un campacc’ colmo di fieno falciato sul monte, e si trasformò in un rovo, mettendosi proprio nel mezzo del sentiero, per farlo cadere. Ma il contadino, che non era uno sprovveduto, con il falcetto fece a pezzi il rovo e lo gettò nel burrone, riprendendo tranquillo il suo cammino. Giunto a casa, sentì la campana suonare a morto: gli dissero che era morta la strega della valle, in modo orribile, era stata trovata in fondo ad un burrone, fatta a pezzi. Capì subito quel che era successo, ma non lo disse a nessuno. Sia come sia, pare che della strega si siano perse le tracce.
Il roccione è, invece, ancora lì.  Poco sopra il roccione, presso la “capèla di cresc’tón”, sulla mulattiera per Piazza Caprara, si può osservare un masso di forma ovoidale, un po’ bitorzoluto, appoggiato su un masso più grande, in precario equilibrio, non si sa bene da quando e perché. Si tratta del “sàs da l’öof”, letteralmente “sasso dell’uovo”. Tecnicamente, un masso alluvionale. Ma come fa ad essere finito lì, in posizione così rialzata rispetto al solco della valle, sul crinale del crestone? Un’altra è la spiegazione veritiera. Il masso è lì perché si tratta in realtà di un uovo depositato da un drago. Questo spiega la sua posizione: non può che essere stato calato lì dall’alto. Possiamo quindi toccare con mano il segno di un secondo ed ancor più profondo mistero, segno di un tempo remoto nel quale anche sulla Valchiavenna volavano i draghi. Forse si tratta del terribile drago della vicina Val Bregaglia, che assaliva e divorava i passanti, finché gli fecero ingoiare un carico intero di sale, provocando una tale sete da indurlo a bersi un lago intero, per poi scoppiare.
Forse, però, c’è di mezzo un altro pauroso animale, il “basalesc”, mezzo gallo e mezzo drago volante, temutissimo dai contadini, perché, si diceva, poteva incenerire una persona con il solo sguardo (ed in effetti, etimologicamente, “drago”, dal greco “drakon”, è l’animale che ti punta contro lo sguardo, che vede con sguardo acuto in lontananza). Si credeva anche che il basilisco nascesse dal centesimo uovo deposto da una gallina, più piccolo di quelli normali e senza tuorlo, o anche da un uovo deposto da un gallo. Se lo si trovava, lo si doveva gettare subito alle proprie spalle, e non ci si doveva girare per nessun motivo, neppure se si sentivano rumori raccapriccianti: in caso contrario, il mostro sarebbe uscito dall’uovo dischiuso, ed allora erano guai.
Lasciamo, ora, streghe e draghi per raccontare qualche altra storia, meno cupa. Ce n’è una che parla di fantasmi, che però non sono fantasmi. A monte di Era, sul “Mot di S. Andrea” c’era un grande rudere, ormai ricoperto dai rovi, che un tempo, diceva la gente, doveva essere stato un palazzo di signori molto ricchi, che forse ci avevano nascosto una pentola di marenghi d’oro. Così, almeno, si diceva. Una volta passò di lì un tale, a notte fatta, e vide, fra le finestre del rudere, una luce. Terrorizzato, scese a rotta di collo in paese, raccontando di aver visto i fantasmi del rudere. Da quel giorno si diffuse la voca dei fantasmi del rudere. Passarono molti anni, poi un vecchio, preso da un gran febbrone, raccontò, farneticando, di essere stato più volte nel rudere, di notte, per cercare l’oro. Tutti capirono, allora, che non c’era di mezzo alcun fantasma. Morale della storia: come non è tutto oro quel che luccica, così non sono tutti fantasmi le luci che di notte si possono vedere nei luoghi più sinistri.
Ecco un’altra storia che ha una sua bella morale. Questa è assolutamente vera: ne fa menzione l’Inventario dei toponimi valtellinesi e valchiavennaschi - Territorio comunale di Samolaco, curato da Amleto Del Giorgio ed Andrea Paggi e pubblicato dalla Società storica valtellinese. Viveva, tanto e tanto tempo fa, sopra S. Pietro un vecchio che aveva raggiunto la veneranda età di 114 anni. Tutti lo conoscevano come “Pilàt”, ed il rudere che porta il suo nome c’è ancora, poco sopra Posmotta. Venne, un bel giorno, con tutta la solennità del caso, il Vescovo di Como in visita pastorale a S. Pietro e, saputo dell’incredibile longevità del Pilàt, chiese di poterlo incontrare. Salirono, allora, a dirglielo, convinti che avrebbe accolto l’invito come un grande onore: un vescovo è persona che non si incontra tutti i giorni! Il vecchio, però, non si scompose più di tanto: disse che sì, l’avrebbe incontrato ben volentieri, ma aggiunse che tutti e due avrebbero dovuto fare un po’ di sforzo: “C’incontreremo a metà strada: un po’ scendo io, un po’ salga lui!” Morale della storia: ad un vecchio carico d’anni non si deve meno rispetto che ad un vescovo (e forse ce ne sono anche altre: al lettore il compito di trovarle).
Nel volume di Amleto Del Giorgio intitolato "Samolaco, ieri e oggi" (Tipografia Mevio Washington e figlio, Sondrio, 1965, pg. 110) troviamo quest'altra leggenda, raccontata da un'anziana, che ci riporta a più foschi scenari. Si narra che una volta un giovane prese la strada che da Gordona scende a Samolaco. S'era fatto tardi, già imbruniva, quando attraversò su un ponte il torrente Boggia, nei pressi della profonda forra posta allo sbocco della Val Bodengo. Il luogo godeva di fama sinistra, perché si credeva che qui si dessero convegno streghe e diavoli. Ma il giovane, che di tali storie non s'era mai curato, procedeva con passo spedito, pensando alle cose sue e non a quelle delle potenze oscure. Senonché... c'è sempre un senonché in queste storie. Senonché sentì salire, dalla voragine della cascata, non la solita aria frizzante prodotta dalla violenza delle acque, ma un'ariaccia strana, calda e maleodorante. Ne fu colpito e non seppe darsene ragione. Un brivido corse per la sua schiena, ed affettò il passo. Ben presto, però, avvertì, alle sue spalle, dei passi altrettanto rapidi. Non ebbe bisogno di voltarsi per avere la certezza di essere seguito, ed accelerò ancora. Il diavolo stesso lo seguiva, il diavolo sbucato fuori dalla forra della valle. Non ebbe il coraggio di guardarlo, ma sapeva che era lui. Ora correva, divorando a rapide falcate il sentiero, con il cuore che gli pulsava in gola. Giunse alla località del Caletto e si fermò un attimo, perché ora aveva la sensazione che nessuno più lo seguisse. Non sentiva più nulla, infatti, solo il cuore che non voleva saperne di arrestare la sua corsa impazzita. Riprese fiato, ansimando e piegandosi ad appoggiare le mani sulle ginocchia. Guardò con attenzione dietro di sé. Nulla. Nessuno. Tornò, dunque, a casa, sconvolto per lo spavento. Si mise a letto, perché non si reggeva più sulle gambe. Il giorno dopo si svegliò che stava peggio di prima, e la sera si sentiva ancora peggio. Poi lo prese una febbre, improvvisa e violenta. Morì, dopo pochi giorni, di febbre quartana. Il diavolo glie l'aveva attaccata. Quel diavolo che non aveva neppure potuto vedere in volto.
Cambiamo, ora, decisamente registro, con un tocco di sentimento. Sì, perché storie e leggende parlano spesso di paure, streghe, fantasmi, di rado, invece, di amore. La giovinezza è l’età dei sentimenti, ma anche dei dubbi, delle incertezze: quale sarà la persona giusta da amare, la persona con la quale intrecciare l’intera vita, condividendola passo a passo? Dove trovarla? Come riconoscerla? Il cuore ha un suo linguaggio, ma non sempre è chiaro. A chi o a che cosa affidarsi, allora? Al “filamóor”, cioè al maggiolino. Questo simpatico animaletto viene, infatti, chiamato così perché un’antichissima credenza afferma che quando un giovane lega alle sue zampine un piccolo filo e poi lo lascia libero, questi volerà in direzione della persona da amare. Morale della credenza: vai non dove ti porta il cuore, ma dove ti porta il filamóor.
Chiudiamo con un tocco di buonumore, riportando, dalla bella raccolta “C'era un volta, Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna”, ed. a cura del Comune di Prata Camportaccio, Sondrio, Bonazzi Grafica, dicembre 1994 (con contributi di diverse scuole della Provincia), il divertente racconto di Giuanìn combinaguai:
"Abitava una volta in quel di Samolaco una povera vedova che aveva un figlio, Giovanni detto Giuanin, che combinava un sacco di guai. Una volta la mamma lo mandò al mercato a prendere gli aghi. Al ritorno Giuanin si fece dare un passaggio sul carro pieno di paglia da un parente. Per evitare di pungersi mise gli aghi nella paglia e non riuscì più a trovarli. La madre gli disse: "Figlio mio, dovevi metterli in sacchetto".
Qualche tempo dopo la mamma lo mandò di nuovo al mercato a prendere un maialino che aveva comprato. Giuanin, ricordandosi di quello che aveva detto la mamma per gli aghi, portò con sé un sacco mise il maialino. Quando arrivò a casa la bestia era mezza morta. madre gli disse: "ma Giuanin, al maialino dovevi mettere una corda al collo e farlo camminare dietro a te, non metterlo nel sacco!" Giuanin rimase male, in fondo lui aveva fatto quello che gli aveva detto la mamma la volta prima!
Dopo qualche tempo Giuanin venne mandato a prendere un sacco di farina al mulino. Prese una bella corda robusta e legò il sacco, poi partì di buon passo verso casa, tirandosi dietro il sacco. Strisciando sui sassi il sacco si ruppe e la farina rimase sulla strada. Quando la madre vide quel disastro esclamò: "Basta Giuanin! Non ne posso più di te! Prendi la porta di casa e vattene!"
E così fece Giuanin. Afferrò la porta di casa e, dopo vari tentativi la scardinò. Non l'avesse mai fatto! La povera donna cominciò a tirar dietro pentole, zoccoli e tutto quello che le capitava per le mani. Giuanin, che non era molto intelligente, cominciò a correre con la porta sulle spalle, finché arrivò al bosco.
Era così stanco che, dopo essere salito su un pino, vi si addormentò.  Poco dopo alcuni ladroni si fermarono sotto di lui e cominciarono a spartirsi una pentola piena di monete d'oro. Il rumore fece svegliare Giuanin, a cui scappava la pipì. Per farla, mollò la porta, che cadde sulla testa dei lestofanti, stordendoli. Finito di fare la pipì, Giuanin scese dall'albero e vide la pentola. Ricordandosi che la mamma gli aveva tirato dietro una pentola pensò di farsi perdonare portandole quella pentola, bella nuova, piena di cose luccicanti.
Caricata sulle spalle la porta e afferrata la pentola tornò a casa della madre che al vederlo gli buttò le braccia al collo e festeggiò col figlio la pentola e tutte quelle monete d'oro.
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