A San Salvatore i teschi fanno il bello e cattivo tempo. Non nel senso che scorazzino e spadroneggino orde di scheletri, ma nel senso letterale: si dice che alcuni teschi contenuti nell’ossario abbiano il potere di scatenare la pioggia o riportare il sole.
Ma andiamo con ordine. La Valle del Livrio, nelle Orobie centrali, fu, fin dalle età più antiche, una delle più frequentate vie di transito fra Valtellina e bergamasca. All’ingresso della valle, sul suo fianco orientale, troviamo, come sentinella, la chiesa di San Salvatore (m. 1311), nella parte bassa dell’omonimo alpeggio. Si tratta di una delle chiese più antiche di Valtellina, come testimonia anche la sua dedicazione non ad un santo, ma a Gesù Cristo, ed è monumento nazionale. Secondo la tradizione, risalirebbe al VI secolo d.C., e lo storico Francesco Saverio Quadrio testimonia l’esistenza di una lapide con incisi caratteri gotici, secondo la quale sarebbe già stata edificata nel 537 d.C. Per trovare le prime testimonianze certe dell’edificio sacro, però, dobbiamo portarci al XII secolo. E’ abbastanza certo, comunque, che esso fu uno dei primi presidi della fede cristiana in terra di Valtellina, se non il primo in assoluto, anche se dell’edificio originario non resta ormai più nulla, e quello attuale risale all’età barocca.
Non stupisce, quindi, che intorno ad essa siano fiorite diverse leggende e tradizioni. La più oscura rimanda al presunto omicidio di un parroco presso l’altare della chiesa, che, pare, venne per questo riedificato in una posizione diversa (rivolto ad occidente), dopo l’atto criminale che l’aveva profanato.

La più curiosa riguarda, invece, la conservazione, nell’ossario sul lato meridionale della chiesa, di molti teschi di dimensioni superiori alla media. Ne esaminò 108, insieme alle rimanenti ossa, sul finire dell’Ottocento, il naturalista ed alpinista Bruno Galli Valerio (i cui resoconti sono stati raccolti nel volume “Punte e passi”, edito nel 1998 a cura di Luisa Angelici ed Antonio Boscacci), che così sintetizza l’esito delle rilevazioni: “Le misurazioni delle ossa ci hanno dimostrato che trattatasi, in generale di persone di grande taglia (da 1 m.70 a 1 m.90) e le grosse impronte muscolari hanno evidenziato una forte muscolatura” (Op. citata, pg. 38). Lo stesso fa menzione di una credenza molto radicata, secondo la quale quei teschi possedevano poteri sovrannaturali, capaci di influire sulla situazione meteorologica. Racconta, al proposito, che il parroco, dopo averlo autorizzato all’esame dei crani, gli rivolge la raccomandazione: “Per amor del cielo, non mischiate i due crani che trovansi sull’altare. I contadini li portano di quando in quando vicino al torrente, l’uno per far piovere, l’altro per avere il sole. Uno scambio potrebbe avere delle conseguenze funeste” (Op. citata, pg. 37).

In effetti questi teschi vennero per secoli utilizzati per compiere riti propiziatori: in particolare, durante le tempeste più violente, la donna più anziana del paese prelevava il teschio legato al bel tempo e lo portava presso il torrentello che si trova immediatamente a valle della chiesa (si tratta del torrentello che scende dalla valle della Chiesa, denominazione che testimonia l’antichissima importanza religiosa di questi luoghi; del resto, anche Albosaggia deriva da “alpes agia”, che significa alpe sacra), immergendolo nell’acqua ed implorando la fine delle precipitazioni. Non sempre, però, le cose andavano per il verso giusto.
Si raccontano almeno un paio di “incidenti” che indussero seriamente a ripensare all’opportunità di simili rituali. Il primo capitò dopo due mesi di grande siccità, che avevano messo in ginocchio colture e contadini. Venne allora l’idea di utilizzare uno dei teschi prodigiosi, che fu portato al torrentello e bagnato con quel filo d’acqua cui esso si era ormai ridotto. La cosa sembrò funzionare, perché, in un rapido volgere di tempo, il cielo si fece scuro e cominciò a piovere. Ma la pioggia si fece sempre più violenta, divenne torrenziale, e si alzò anche un fortissimo vento, che sradicò alberi e scoperchiò tetti. Alla fine, per soprammercato, cadde anche, con grande veemenza, la grandine. La gente interpretò quanto accaduto come punizione divina contro un gesto che doveva considerarsi sacrilego. Un’altra volta capitò qualcosa di simile, ma con il secondo teschio, quello del bel tempo. Pioveva, come si suol dire, che Dio la mandava, e la gente cominciò a temere per la tenuta di prati e valgelli. Il teschio venne, quindi, prelevato per il rito consueto, ma questa volta il tempo, anziché migliorare, peggiorò, e gli elementi parvero intensificare la loro furia. Anche in questo caso vi fu chi interpretò l’accaduto come punizione per il rito sacrilego, ma non mancò chi spiegò l’accaduto parlando di un intervento del demonio, cui, com’è noto, si attribuiva il potere di scatenare tempeste ed uragani.
Sembra, infine, che il rituale del lavaggio dei teschi avesse un significato più ampio del semplice rito propiziatorio: infatti questi venivano lavati per ingraziarsi i defunti ed assicurarsi, così, la loro protezione.

Raggiungere San Salvatore è facile: si utilizza una carrozzabile che parte dal centro di Albosaggia (m. 490), nei pressi del municipio e del palazzo Paribelli. La strada si dirige ad ovest, attraversando una bellissima fascia di castagni e raggiungendo, dopo 2,5 km, la chiesetta di S. Antonio (m. 775), recentemente restaurata, addentrandosi, poi, nella valle. A 4,3 km da Albosaggia raggiungiamo Cantone (m. 990) e, circa mezzo chilometro più avanti, Nembro (m. 1070), dove l’asfalto cede il posto al fondo in cemento, per l’ultimo strappo dalla pendenza davvero severa. A San Salvatore dobbiamo imboccare una strada che scende leggermente sulla destra per raggiungere il sagrato della chiesa, che si trova a 5,6 km da Albosaggia. Qui troviamo anche il rifugio Saffratti, ottimo punto di appoggio per molteplici soluzioni escursionistiche.
Gli amanti della mountain-bike possono proseguire sulla pista sterrata che risale, con alcuni tornanti, i prati dell’alpeggio, proseguendo in una bella traversata degli alpeggi più alti che si stendono ai piedi dei pizzi Campeggio e Meriggio. La traversata, di grandissima suggestione panoramica, passa ai piedi dell’alpe Meriggio e prosegue con la discesa all’alpeggio Campelli, dove troviamo una comoda strada asfaltata che ci riporta, dopo circa 27 km e mezzo, al centro di Albosaggia.
Ovviamente, possiamo anche effettuare diverse escursioni a piedi, nei fiabeschi boschi di larici sopra San Salvatore, raggiungendo il lago della Casera o quello della Zocca. Salendo lungo la strada sterrata che parte da San Salvatore, troviamo, sopra le case più alte della contrada Ca’ (m. 1516), l’edicola del Parco delle Orobie Valtellinesi, dove un cartello segnala la partenza di un sentiero (segnavia bianco-rossi) che si inoltra in un bellissimo bosco di larici. Uscito dal bosco, il sentiero, dopo un breve tratto di salita ripida in un’ampia radura, supera alcune baite sulla destra del sentiero e raggiunge un bivio, segnalato da cartelli. Proseguendo diritti, in salita, raggiungiamo il bordo settentrionale del laghetto della Casera, a 1910 metri, che si trova in una conca sul limite inferiore dell’alpe omonima, dove si trova anche il rifugio Baita Lago della Casera. Salendo all’alpe, ci ricongiungiamo con la strada sterrata, seguendo la quale possiamo effettuare una comoda traversata, verso sinistra, alla bellissima piana delle Zocche, dove troviamo l’omonimo laghetto (m. 2061). Dall’alpe delle Zocche possiamo proseguire la traversata verso nord-est e raggiungere l’alpe Meriggio, o sfruttando la pista sterrata, oppure il sentiero che, più in alto, sale al facile passo di Portorella (m. 2127). Se, invece, al bivio sotto il laghetto della Casera prendiamo a destra (per chi sale), troviamo, poco oltre un casello per l’acqua, la partenza del sentiero pianeggiante che, ad una quota di poco superiore ai 1800 metri, segue il canale di gronda della Sondel e porta, dopo un primo tratto sostanzialmente pianeggiante (una decina di minuti) al rifugio Baita Calchera (m. 1830). Da qui, risalendo i ripidi prati alle sue spalle, su traccia di sentiero, possiamo raggiungere l’alpeggio di Camp Cervè (m. 2184), in un’ampia conca ai piedi del pizzo Campaggio (m. 2052): qui ritroviamo la pista sterrata, seguendo la quale, verso sinistra, possiamo effettuare la traversata all’alpe della Casera (passando a monte del lago della Casera, al quale possiamo facilmente scendere se vogliamo chiudere un breve anello tornando al bivio di partenza) e da qui all’alpe delle Zocche.
Alcuni, dal rifugio Baita della Casera, proseguono lungo il canale di gronda, addentrandosi sul fianco orientale della valle del Livrio, alla volta del rifugio Caprari (m. 2130). La pista, pianeggiante, supera la selvaggia valle di Camp Cervè, ma il transito è vietato ai non autorizzati, anche perché è necessario attraversare alcune gallerie, una delle quali, piuttosto lunga, richiede anche una torcia. In ogni caso, essa porta, superato anche il solco della valle Biorca (o Biolca, dal mantovano “biolca”, bue, oppure dal dialettale “biork”, forca), ad una baita isolata, a quota 1860, alla quale si può giungere anche sfruttando un sentierino che sale dal fondovalle. Per effettuare la traversata dal rifugio Saffratti al rifugio Caprari, dunque, conviene seguire questa diversa via.
A San Salvatore, invece di salire alla parte alta dei prati, imbocchiamo la pista che scende tagliando il fianco della valle. Perdiamo, così, qualche decina di metri di quota e ci portiamo sul fondovalle dove troviamo, in successione, le località della Teggia (m. 1266) e della Crocetta (m. 1251). Qui la pista riprende a salire, fino alla località del Forno (m. 1315), dove un ponte ci porta sul lato destro (per noi) della valle. Proseguiamo fino alla radura della Piana (m. 1464): qui dobbiamo tornare, sfruttando un ponticello, sul lato sinistro della valle, ed imboccare il sentierino che sale, ripido, sul fianco meridionale (di destra, per chi sale) della valle Biorca, fino ad intercettare i binari del carrello di servizio. Una ventina di metri a sinistra il sentierino riprende a salire e conduce, in breve, alla baita di quota 1860.
Dalla baita al rifugio Caprari il percorso è semplice: basta seguire il sentiero segnalato da segnavia rosso-bianco-rossi, che inizia a guadagnare quota con un primo strappo severo, e che ci porta alle baite Scoltador (m. 2046). Qualche sforzo ancora, e siamo al rifugio (m. 2130), nei pressi del lago di Publino.
La traversata da San Salvatore al rifugio richiede circa tre ore di cammino, necessarie per superare poco meno di 900 metri di dislivello.

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