Luci ed ombre in Val Caronno
La Valle di Caronno, o Valle di Scais, è fra le più belle del versante orobico, e propone scenari alpini gentili ed insieme maestosi, assai noti agli amanti dell'escursionismo e dell'alpinismo, che trovano nel rifugio Mambretti (m. 2003), del CAI di Sondrio, un ottimo punto di appoggio per camminate ed ascensioni. Meno note sono le numerose storie e leggende fiorite in questa valle. Eccone alcune.
La prima ha come protagonista il basilisco, temutissimo animale immaginato come serpente con una cresta di fuoco, capace di stecchire una persona con un semplice fischio. Con atteggiamento piuttosto dissacrante ce ne parla Bruno Galli Valerio, naturalista ed alpinista, che molto frequentò ed amò Alpi Retiche ed Orobie fra la fine dell’Ottocento ed il primo decennio del Novecento. A lui la parola: “E per prima la leggenda del basilisco, il serpente dalla cresta rossa, che si vede di quando in quando sui pascoli di Caronno.
- L'hai mai visto? domandai un giorno a un pastore.
- Sì l'ho visto, rispose sgranando gli occhi, e indicando col dito, tenendosi a rispettosa distanza, la bella vipera stesa nella mia scatola dell'erbario, in mezzo ai fiori dai colori brillanti, l'ho visto, come vedo questo serpente.
Ciò che il pastore diceva di aver visto, era il grande serpente dalla cresta di fuoco, con gli occhi che ruotano nelle orbite: il basilisco. La cresta era almeno dello spessore di un grosso dito. L'aveva proprio visto lassù nei cespugli di rododendri della valle di Caronno, e potete immaginare il suo spavento. Non aveva avuto il coraggio di seguirlo come ora non osava toccare la mia vipera, nonostante fosse morta. Non si sa mai!
E tutti gli altri pastori erano raggruppati intorno a noi, gli occhi fissi sulla povera vipera, le orecchie tese al racconto fantastico del loro amico. E a poco a poco, sotto l'influenza suggestiva delle parole, la mia vipera appariva ai loro occhi sempre più grande, la cresta cominciava a comparire sulla testa, una cresta ancora piccolina, appena visibile, gli occhi cominciavano a muoversi nelle orbite...e un anno dopo, tutti lassù raccontavano la storia fantastica di un grosso serpente dalla cresta rossa, che io avevo ucciso sui pendii dello Scotes che tutti avevano visto, gli occhi giravano ancora nelle orbite, nella mia scatola erbario! La leggenda del basilisco era stata così interamente confermata dai fatti ed ora non poteva più essere messa in dubbio dai giovani pastori che, oramai potevano testimoniare coi vecchi l'esistenza di quella orribile bestia, là, in mezzo alle Alpi orobie...Un giorno o l'altro, mi vorranno come testimone!” (Bruno Galli Valerio, Punte e passi, a cura di Luisa Angelici ed Antonio Boscacci, Sondrio, 1998).
Sempre il Galli Valerio racconta, con tono solo apparentemente asciutto (ma in realtà accorato e partecipe) la triste fine dell'ultimo orso di Scias:
“E là allora, gli altri raccontarono dell'enorme orso che vagava nel bosco del Mottolone terrorizzando l'alpe di Scais e di Caronno, dove di quando in quando appariva per impossessarsi di una capra. Ecco là, sì, era un orso! Un giorno l'avevano visto entrare sotto un enorme blocco che formava come una specie di caverna. Si apprestarono a cercare su tutti gli alpeggi dei fucili, e li sistemarono intorno all'ingresso della caverna con un sistema di funicelle e di leve che dovevano uccidere l'animale con una scarica formidabile. Ma Martino, coi sui piccoli occhi, li guardava fare dal fondo del suo nascondiglio e sorrideva. E tutti all'alpe di Caronno, là nella notte, tendevano le orecchie. Si aspettavano ad ogni istante la scarica dei fucili. Ma all'improvviso si udirono i gridi spaventosi di una capra che veniva sgozzata.
- Corso! tutti esclamarono rannicchiandosi nella piccola baita.
- Giunta l'alba, andarono a vedere. Era scomparsa una capra. Salirono alla grotta: tutti i fucili erano ancora al loro posto e i colpi non erano partiti. Girando intorno al masso si accorsero che sotto i cespugli, quell'orso aveva un buco che comunicava con la grotta: Martino se ne era uscito tranquillo da lì lasciandovi solo qualche pelo e aveva ricominciato le sue scorribande. E un giorno, infine, G. Bonomi andò a cercarlo nel bosco del Mottolone. I due giocarono per qualche momento a nascondino. Poi si incontrarono faccia a faccia e il Bonomi con un sol colpo di fucile lo uccise. Quello fu l'ultimo orso di Scais.”
Chiudiamo questa breve carrellata di storie con un racconto che vira decisamente verso il noir-horror. Lo scenario è la piana di
Scais che, prima che venisse costruita la diga, ospitava baite e pascoli.
Qui, una tranquilla notte d’agosto, un pastore udì rumori
insoliti, che lo destarono dal sonno. Tese l’orecchio e distinse
dei passi. Qualcuno stava scendendo lungo la mulattiera che dalla piana
dell’alpe di Caronno conduce a Scais. Si alzò allora dal
giaciglio e si affacciò all’uscio della sua baita, per
vedere chi mai fosse in cammino a quell’ora della notte: forse
qualcuno che si era perso, forse un forestiero. Era una bella notte
di luna piena, ed il pastore non faticò a distinguere in quel
misterioso viandante notturno la figura di un cacciatore. Per quanto
si sforzasse, però, non riusciva a distinguerne il volto, che
sembrava nascosto dal bavero rialzato. Riusciva a vedere, invece, che
il cacciatore stringeva qualcosa, che sicuramente doveva essere il frutto
di quella singola caccia notturna. Una preda anche piuttosto ingombrante,
per quel poco che si poteva scorgere. La caccia doveva essere stata
molto buona. Il nostro pastore non era un tipo facilmente suggestionabile,
ma curioso sì, questo lo era, parecchio.
Per
questo, senza timore alcuno, non esitò a rivolgersi all’ignoto
cacciatore, buttando là una battuta che voleva essere un pretesto
per attaccar bottone: “O casciadù de la bona cascia, portemen
anca a mi de la vosa cascia”, cioè “O cacciatore
della buona caccia, portate anche a me qualcosa della vostra caccia”.
Non ebbe alcuna risposta: il cacciatore passò ad una certa distanza
da lui e proseguì oltre, con passo deciso, finché il buio
della notte lo inghiottì. Il pastore rimase ancora qualche istante
sull’uscio, finché anche l’ultimo flebile rumore
dei passi si spense, poi, scrollando le spalle e lamentandosi fra sé
dell’insocievolezza di certi uomini (“i è tucc malmustùs
encóo”, bofonchiò, cioè “sono tutti
scostanti, al giorno d’oggi”), se ne tornò a dormire.
Non tardò a riprendere sonno, finché venne l’alba.
Era solito, come tutti i pastori, alzarsi di buon’ora, e così
fece anche quella mattina. Lì per lì, al primo risveglio,
non ricordò neppure il singolare incontro notturno. Si alzò
e si accinse alle svelte occupazioni di sempre. Fu allora che il suo
occhio cadde alla catena che pendeva dal camino: uno spettacolo orripilante,
un cadavere, anzi, mezzo cadavere, la
metà inferiore di un cadavere tagliato in due. E, tutt’intorno,
tracce di sangue, il sangue dell’uomo ucciso. Il sangue del pastore,
invece, gli si ghiacciò nelle vene. Rimase per qualche istante
paralizzato per lo shock e per il disgusto, poi corse fuori dalla sua
baita e si diresse, sempre di corsa, giù, ad Agneda, a quei tempi
villaggio importante, con diverse decine di famiglie. Un fatto di quel
genere non poteva essere frutto degli uomini, ci doveva essere qualcosa
di diabolico, e se c’era, l’unico che avrebbe potuto dirgli
come comportarsi era il parroco.
Lo raggiunse mentre, nella chiesetta di S. Agostino, era intento a recitare
il mattutino. Il curato ascoltò il racconto concitato del pastore,
rivolse al Signore una breve implorazione di misericordia (così
si usava, a quei tempi, quando si aveva notizia di qualche fatto sconvolgente)
e, dopo una breve meditazione, diede questo consiglio: “Lascia
il cadavere là dove lo hai trovato ed anticipa il taglio del
fieno d’agosto, tagliane un po’ ed aspetta: se vedrai tornare,
la prossima notte, il diavolo, perché è il diavolo che
si cela dietro il misterioso cacciatore, digli di riprendersi la sua
caccia. Ma, bada bene, dovrai startene nascosto sotto il fieno fresco
di taglio, perché il primo fieno tagliato è sempre benedetto. Lì
sarai al sicuro ed il cacciatore ti lascerà in pace”.
Il pastore se ne tornò a casa e fece come gli era stato detto.
Tagliò una parte dei suoi prati, fece un mucchio del fieno tagliato
e, calata la notte, vi si nascose, attendendo che passasse di nuovo
il cacciatore maledetto. Nel cuore della notte, ecco di nuovo risuonare
quei passi decisi e sinistri, ecco di nuovo la figura nera del cacciatore
profilarsi sul fondo del sentiero e venire avanti speditamente. Il pastore,
con il cuore in gola, si appellò a tutto il coraggio che gli
rimaneva e gridò al suo indirizzo: “O casciadù de
la bona cascia, vignìn pür a tosla la vosa cascia”,
cioè “O cacciatore della buona caccia, venite pure a riprendervela
la vostra caccia”. Poi si acquattò, più che potè,
dentro il fieno umido. Non osò guardare quel che accadde. Attese,
lì, l’alba. Solo a giorno fatto uscì per vedere
quel che era successo. Si precipitò all’interno della baita,
e non trovò più alcuna traccia del cavadere dimezzato.
Giurò che da quel giorno si sarebbe fatto i fatti suoi, e non
volle neanche più pensare chi potesse essere la disgraziata vittima
del cacciatore infernale. Nessuno lo seppe mai.
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