Ferragosto in bassa Valtellina. I maggenghi, alle prime ombre della sera, si illuminano di fuochi. E’ un susseguirsi di falò che si accendono, quasi richiamandosi, sull’uno e sull’altro versante, quello retico dei Cech e quello orobico dei Maròch. Una festa nella quale si celebra il gusto di ritrovarsi per un sereno momento di condivisione e di gioia conviviale.
Pochi, però, conoscono la leggenda che spiega l’origine della tradizione dei falò ferragostani. Una leggenda che ci riporta a tempi più oscuri, nei quali le streghe, presenza misteriosa ed inquietante, abitavano la Valtellina. Anche la bassa valle ne contava molte, nascoste, di giorno, in qualche casupola solitaria, in qualche casolare sperduto, pronte, però, ad uscire allo scoperto con il favore delle tenebre. Le notti d’estate erano le preferite. In particolare, quelle di luna calante. In queste notti le maliarde si davano convengo in un luogo misterioso, denominato “acqua di Cofana”, o “Cufana”, una radura nascosta, difficile da trovare, sul versante orobico sotto la cima del monte Pitalone (pitalùn, m. 1334), che sovrasta Morbegno.
Giungeva per prima alla radura la più anziana delle streghe, la quale, per indicare alle altre il luogo del sabba. Giungevano, poi, alla spicciolata, tutte le altre, dai quattro angoli della bassa Valtellina, chi a cavalcioni della classica scopa, chi portata a volo da un gufo, da una civetta o da un corvo, chi, infine, a piedi, ma tutte, rigorosamente, con le caviglie coperte da una lunga veste, perché se il mitico Achille aveva il suo punto vulnerabile nel tallone, le streghe ce l’avevano proprio nella caviglia: se qualcuno l’avesse vista, avrebbero perso tutti i loro malefici poteri. Tutte avevano sotto braccio una fascina di legna, per alimentare il fuoco, che ardeva sempre più vigoroso e sinistro, diffondendo bagliori cupi sull’intera bassa valle.
Prima di dare inizio al sabba, si lavavano ad una fonte, l’acqua di Cofana, appunto. Un’acqua opaca, ferruginosa, che da loro riceveva un innaturale calore, un calore infernale. Le streghe restavano pur sempre donne, e non erano insensibili al valore della pulizia e della cura della persona. Approfittavano, quindi, di quella fonte, una fonte sicura, perché quell’acqua non poteva essere benedetta, e quindi pericolosa per quegli esseri malefici. Quando si sentivano sufficientemente belle, si lanciavano in danze frenetiche, forsennate, emettendo urla che non avevano nulla di umano, illuminate dalle fiamme che divampavano selvagge e dalla luce della luna.
All’approssimarsi della mezzanotte, le streghe si placavano per un po’: raggiungevano un abete scuro, al centro della desolata radura, e si accovacciavano, aspettando il Principe del Male, Belzebù, il cui arrivo rappresentava il culmine del Sabba. Da lui, infatti, le streghe ricevevano il potere di spargere ai quattro venti il male su raccolti, animali ed esseri umani. Poi le danze riprendevano, in un crescendo che culminava quando la luna si disponeva sulla verticale del Pitalone. Era l’ora delle maledizioni più terribili, dei malefici più nefasti, che solcavano l’aria impregnandola del male che incombeva sugli ignari abitanti della bassa valle.
La luna, intanto, lentamente, tramontava, dietro il Pitalone. Scomparsa l’ultima sua fioca luce, tutto pareva placarsi, in un silenzio irreale: le malefiche megere si accasciavano a terra, levando verso il cielo lamenti strazianti. Chi si fosse trovato, per malasorte, a passare di lì avrebbe udito dei versi agghiaccianti, simili a quelli dei gatti in amore, simili a raccapriccianti lamenti di bimbi. Fra i versi si potevano distinguere, a malapena, alcune parole: erano invocazioni, rivolte al cielo. Incredibile: il pentimento si era fatto strada anche nel loro cuore piagato dal male? Ascoltando con più attenzione, però, si sarebbe compreso che non di veri e propri lamenti si trattava, ma di una parodia di lamenti, un dileggio, una beffa, sempre più sguaiata e blasfema. “Signore, abbi pietà di noi!”, "Santi del paradiso, pregate per noi!", e giù una sghignazzata da far accapponare la pelle. Intanto il fuoco scemava, e con esso la furia malvagia delle streghe. Alla fine al cielo non salivano più i mugolii di scherno, ma solo il fumo, che si levava dai tizzoni rosseggianti. Poi, solo il buio ed il silenzio.
Tutto questo si ripeteva per molte notti estive, le notti di luna calante. E l’aria era impregnata dei maléfici effetti di quei sabba. I raccolti marcivano, le bestie si ammalavano, improvvise ed inspiegabili colpivano uomini, donne e bambini. La gente non ne poteva più. Sarebbe dovuto salire qualche sacerdote, fin lassù, per esorcizzare quel luogo demoniaco. Ma, un po’ per la difficoltà del percorso, un po’ per la paura, nessuno se l’era mai sentita. Finché ad un contadino venne un’idea, semplice e geniale. Quella di moltiplicare i fuochi, per disorientare le streghe. Sì, perché queste non parevano essere maghe dell’orientamento. Ed allora, nelle sere del sabba, in tutti i maggenghi si accendevano falò, ed i punti di luce si diffondevano sui monti della bassa valle. Immaginate la sorpresa delle streghe, che volteggiavano, alte sui numerosi fuochi, senza riuscire a raccapezzarsi. Qualcuna cominciò a stancarsi, a rinunciare al sabba, e pian piano l’acqua di Cofana tornò ad essere una brulla e desolata radura, frequentata solo da gufi, civette e vipere.
Rimase, però, la tradizione dei falò estivi, anche se si perse la memoria della loro origine e si circoscrissero alla serata del 15 agosto, quando si celebra la solenne festa liturgica di Maria Assunta in cielo, simbolo della vittoria del bene sulle insidie del male.
Possiamo leggere un resoconto di questa leggenda nell’articolo di R. Passerini sul numero dell’agosto 1994 de “L Gazetin”. Questi descrive anche la radura e la sua collocazione. Si trova sotto la cima del Pitalone, in un luogo solitario, a monte di una fascia di rocce, difficile da raggiungere per chi non conosca il sentiero, perché circondato da rovi ed ontani e lontano dai maggenghi, fra il Faedo (faìi) di Arzo (aars), ad ovest, ed il Faedo di Talamona, ad ovest. Da qui si domina, con lo sguardo, l’alto lago di Como, ad ovest, la costiera dei Cech e l’imbocco della Val Masino, ad nord, le cime del gruppo del Masino, dai pizzi del Ferro (sciöma dò fèr) al pizzo Torrone occidentale, dalla cima di Arcanzo al monte Disgrazia ed ai Corni Bruciati, a nord-est, il versante retico mediovaltellinese da Ardenno a Sondrio, ad est nord est, il Crap del Mezzodì ed il versante orobico sopra Talamona, ad est. Al centro della radura è posto un abete alto una trentina di metri, scuro e bruciacchiato. Sul lato occidentale, cioè in direzione del lago di Como, si trova la sorgente dell’acqua di Cufana. Queste le indicazioni che il Passerini ci offre.
Sulla loro base ho cercato di trovarlo. Penso di non esserci riuscito e di poter offrire solo una sommaria mappa dei luoghi. Per visitarli bisogna salire ad Arzo (m. 721), frazione di Morbegno che si trova in valle del Bitto di Albaredo, sulla strada per il passo di San Marco (la si imbocca a piazza S. Antonio, a Morbegno), a 7 km da Morbegno. Qui, dopo aver ammirato lo splendido panorama in direzione dell’alto lago di Como, ci si stacca, sulla sinistra, dalla strada, che prosegue verso Albaredo, e si passa accanto al piccolo cimitero del paese. Una stradina, prima in asfalto, poi in terra battuta, guadagna quota con alcuni tornanti, prima di iniziare un traverso in direzione est, cioè verso i monti di Talamona. Ignorata una deviazione a destra (segnalazione per l’alpe Pitalone), proseguiamo fino ad una sbarra, che si trova a circa due chilometri da Arzo. Siamo poco oltre i prati del Faido (o Fai, o Faedo) di Arzo, a 963 metri. La strada pista prosegue per un buon tratto oltre la sbarra, in direzione del Faido di Talamona, poi si interrompe ad una baita solitaria, prima di raggiungere il solco della valle del torrente Ranciga.
Cominciamo, dunque, l’esplorazione della zona. Dalla sbarra, torniamo indietro per un tratto, fino ad una piazzola, nei pressi dei prati del Faido di Arzo, e qui saliamo alle baite più alte, sopra la pista. Alle loro spalle parte, non molto visibile, nel primo tratto, un sentiero che sale, tendendo leggermente a sinistra, fino ad una pianetta che potrebbe essere il luogo misterioso. Vi si trova, infatti, una sorgente, e da qui la vista raggiunge l’alto Lario. La fonte, però, è in direzione opposta (est) rispetto al lago, e l’acqua che sgorga è limpida. Il sentiero prosegue salendo verso sinistra, fino ad una piana più ampia, ora disboscata per i lavori connessi con l’installazione di una teleferica. Che sia questa la radura? Qui la vegetazione è selvaggia, caotica. Della fonte non c’è, tuttavia, traccia. Dalla piana parte un sentiero che, correndo nel bosco, sale verso destra (ovest), fino a perdersi gradualmente. Se proseguiamo a salire a vista, piegando leggermente a sinistra, raggiungiamo una zona piuttosto desolata, disseminata di massi. Con una traversata verso sinistra (est), mantenendo più o meno la stessa quota (m. 1180 circa), possiamo tagliare boschi solitari ed ombrosi, fino a sbucare sul limite superiore dei prati della Tagliata (m. 1172). Di radure non se ne incontrano più.
Dai prati possiamo, poi, scendere, utilizzando un sentiero, fino ad intercettare il sentiero che porta, seguito verso est (destra) al Faido di Talamona. Noi, invece, torniamo indietro, lungo il sentiero, verso sinistra: passiamo nei boschi che si trovano poco a valle dell’ultima baita, presso la quale termina la pista. Incontriamo, proprio nella verticale della baita, un piccolo corso d’acqua, opaca: che sia questa l’acqua di Cofana? Per scoprirlo, dobbiamo raggiungere la fine del sentiero, che ci riporta alla pista sterrata, e procedere, seguendola, verso est, fino all’ultima baita, dove termina. Appena prima della baita, ritroviamo il corso d’acqua, che esce dalla terra della montagna smossa, a monte della pista, dai lavori della sua costruzione. Un’idea: si potrebbe cercare di seguire il corso d’acqua rimontandolo fino alla sorgente originaria. Impossibile, però, farlo: se ne trova una traccia poco sopra, nel cuore del bosco, poi più nulla: se la sorgente non è quella che ora è stata raggiunta dalla strada, e si trova più a monte, per un lungo tratto scende nascosta nel cuore della terra.
Abbiamo esaurito il giro nei boschi della leggenda, ma non sono esauriti i dubbi: dov’è l’acqua di Cofana? Tornando sulla pista, verso ovest, troveremo una baita che reca sulla facciata una piccola crocifissione dipinta: forse un presidio contro le forze del male, quando queste si davano convegno nei boschi vicini. Invitiamo gli amanti del mistero, che volessero cimentarsi nella ricerca, a prestare la dovuta prudenza: aggirarsi per boschi inselvatichiti, su tracce di sentiero, richiede grande accortezza ed esperienza. E poi, forse è giusto così: il luogo, nascosto, conserva intatto il fascino dell’ignoto.
Un’ultima osservazione su questi luoghi: possiamo passare di qui anche per effettuare un interessantissimo anello di mountain-bike, partendo e tornando alla piazza S. Antonio di Morbegno. Già abbiamo detto della prima parte dell’anello: salita lungo la provinciale per il passo di S. Marco, fino ad Arzo, dove si imbocca la stradina per il Faido di Arzo. Poco prima del termine della pista, troviamo, sulla sinistra, un cartello che indica la partenza del sentiero per il Faido di Talamona. Nonostante per diversi tratti il sentiero sia ciclabile, ci conviene scendere di sella, per circa un quarto d’ora, il tempo per raggiungere i prati di Faido di Sopra. Superati due piccoli corsi d’acqua, raggiungiamo il cuore ombroso di un primo vallo (qualche tratto, esposto, richiede attenzione). Poi, dopo un breve tratto, scendiamo nel cuore della valle più grande, percorsa dal torrente Ranciga, che scende ai prati ad ovest di Talamona. Attraversato il greto sassoso del torrente, saliamo per un breve tratto, sul lato opposto, fino a ritrovare il sentiero che, in breve, raggiunge i prati di Faido (per evitare di passare nella proprietà privata di una baita, nei pressi dei prati imbocchiamo una deviazione che sale per un tratto verso destra). Siamo ad una quota approssimativa di 980 metri. Possiamo, quindi, risalire in sella ed iniziare, su strada una comoda strada asfaltata, la lunga discesa verso Talamona, ed il successivo facile ritorno da Talamona alla piazza S. Antonio di Morbegno. L’anello, davvero interessante, richiede complessivamente circa due ore e mezza.
Ma torniamo ad una domanda, che forse si sarà fatta srada nella mente di qualche lettore: e le streghe, sfrattate dall’acqua di Cofana, che fine hanno fatto? Difficile dirlo. Alcune hanno trovato, forse, un surrogato in altri luoghi maledetti, come il puz di strìi, o pozzo delle streghe, presso Sacco, il primo paese che si incontra in Val Gerola. Altre, forse, si sono inurbate, sono scese fino a Morbegno per sperimentare le gioie della vita di città. Ma non è stata una buona idea, almeno per alcune di loro. Un articolo di Rinaldo Rapella, sul numero del maggio 1970 de “Le vie del bene”, racconta, infatti, del caso delle streghe di Serta, la frazione posta sul limite di nord-ovest di Morbegno. Costoro abitavano in quella che, ancora oggi, è conosciuta come la “ca’ di strìi”, cioè la casa delle streghe, e qui, senza problematiche escursioni notturne, praticavano i loro riti infernali ed i loro oscuri convegni con il diavolo.
Ma la cosa non sfuggì ai mormorii della gente. Ed in tempi nei quali la caccia alle streghe conosceva la sua fase più acuta, per le streghe che abitavano la casa venne il momento della resa dei conti. Furono prese, processate e condannate al rogo. Singolare fu, allora, quel che accadde quando venne acceso il falò (un nuovo falò, ben diverso da quelli di Cofana e dei maggenghi della bassa valle) sul quale doveva essere arsa la più anziana e temuta di loro. Mentre la strega, emettendo urla terrificanti, bruciava, un gallo in metallo che sovrastava la casa cominciò a girare, vorticosamente, senza che spirasse un alito di vento. Fu, quello, un evento portentoso che venne interpretato come segno demoniaco. Si decise, allora, di sovrapporre al gallo una croce in metallo, per intrappolare le forze diaboliche ed impedire che in futuro la casa fosse frequentata dal diavolo. Ancora oggi si possono vedere la casa e la croce in metallo posta sul tetto: basta percorrere la strada che da Morbegno conduce al ponte di Ganda, staccandosene verso sinistra appena prima di impegnare il ponte e procedendo lungo la riva meridionale del fiume Adda; appena prima della conclusione della strada, al depuratore di Morbegno (presso il punto in cui il Bitto si getta nell’Adda), si prende di nuovo a sinistra. Dopo un breve tratto, si incontra sulla destra la casa, riconoscibile per la croce in ferro che ancora la sormonta.
Fu, questo rogo, la fine per le streghe di Valtellina? No, ma fu l’inizio di un lento crepuscolo. Come tramonta la luna dietro il Pitalone, nella frescura incerta delle notti agostane, così tramontò, anche in bassa Valtellina, l’oscuro periodo segnato dalla paura delle streghe. L’ultima strega di Valtellina fu segnalata a Piazzalunga, frazione di Ardenno: schernita, vilipesa e scomunicata, se ne fuggì nei boschi sopra il paese, e non fu più vista. Lì morì, stretta nella morsa dei rigori di un inverno. Altri tempi, rispetto a quelli nei quali le fiamme sotto il Pitalone oscuravano lo splendore della luna.

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