Qual è l’aggettivo che meglio disegna la natura di una strega? Di sicuro “pestifera”. In un duplice senso. Innanzitutto nel senso etimologico del termine, di “apportatrice di peste” ed, estensivamente, dei più diversi morbi, che potevano colpire i raccolti, le bestie e talora anche le persone. In secondo luogo nel senso più comune del termine, cioè di persona dedita ad ogni sorta di scherzi, molestie, vessazioni, angherie a danno degli altri.
Un esempio illustra bene questa natura. Riferiamoci alle streghe del Bitto, di cui ci racconta Renzo Passerini nel numero del settembre 1994 de “’L Gazetin”. Possiamo denominare così una congrega di maliarde che aveva eletto come luogo di ritrovo per il Sabba la zona alla confluenza delle due valli del Bitto, quella di Albaredo, ad est, e quella di Gerola, ad ovest. I due rami del torrente Bitto si congiungono qui, nel punto in cui il lungo dosso di Bema, che sale, a sud, fino alla vetta del pizzo Berro, precipita, a nord, in uno sperone roccioso e selvaggio. Non lontano dal punto di confluenza si trova, ad est, il ponte di Bema, dove ora passa la tormentata strada che costituisce l’unica via di accesso all’omonimo paesino, collocato a mezza costa, in posizione amena, sul dosso.
Nei pressi del ponte, infine, si trova il dosso Barnabà ed il Bon Cavriil, nella cornice di un bosco di castagni, località denominata così perché vi si trovava un ricovero per le capre. Era questo il luogo del sabba scelto dalla congrega delle streghe del Bitto. Un luogo che rappresentava la degna cornice per la blasfema adunanza: abbastanza selvaggio, cupo e solitario, posto com’era ai piedi del selvaggio e dirupato versante montuoso che quasi precipita nel letto del Bitto di Albaredo, e, nel contempo, adatto ad accogliere le danze animalesche nelle quali le streghe si scatenavano in attesa del convitato d’onore, il Diavolo. Quel che accadeva in questi sabba è difficile a descriversi: aiutati dall’immaginazione, figuratevi quanto di più blasfemo, bestiale e sconcio possa partorire un’anima umana votata al male: probabilmente il quadro che ve ne sarete fatti si allontana dal vero per difetto.

Su, a mezza costa, dove se ne stavano, e se ne stanno tutt’ora, i paesini di Campo Erbolo (campèrbul) e Valle (val, sulla strada per Albaredo), ad est, e di Bema, ad ovest, giungevano, nelle notti senza luna, appena attutite dalla distanza, le urla disumane, i versi raccapriccianti, i gemiti e le risa sguaiate di questi esseri immondi. E fosse stato solo questo il danno prodotto dalla loro presenza, lo si sarebbe potuto sopportare. In realtà le streghe non si accontentavano di celebrare il sabba: il desiderio del male, a differenza di quello del bene, raramente conosce riposo. Eccole, allora, risalire l’aspro versante orientale della Valle del Bitto di Albaredo, per ripidi sentierini, raggiungendo le case di Campo Erbolo e Valle. Eccole presentarsi, con un’impudenza inaudita, alla piena luce del giorno, o sul far del tramonto.
Eccole molestare ed infastidire gente di tutte le età e condizioni. Ai bambini facevano paura, mostrando uno sguardo torvo e due occhi di brace che li riempivano di terrore. Occhiate tutt’affatto diverse lanciavano ai baldi giovanotti: facevano gli occhi dolci, accennavano qualche moina, qualche frase vezzosa, invitandoli a raggiungere con loro un certo posto appartato, per godere delle gioie dell’amore. Non è necessario aggiungere che inviti di questo genere venivano cortesemente declinati, e che i giovani pensavano bene di eclissarsi in men che non si dica, tutt'altro che conquistati dai sorrisi sdentati delle megere. Gli anziani, infine, venivano letteralmente minacciati, e si assisteva al penoso spettacolo di queste donne decrepite che inveivano contro quelli che chiamavano “vecchiacci”. Questo, e altro, facevano, importunando tutti, nessuno escluso.
Ma c’era di peggio, perché non era solo la pazienza della gente ad essere minacciata, ma anche i loro beni e la loro salute. Alle beffe si aggiungevano i danni. Danni alle cose: orti devastati, pollame, canapa, miglio e legna rubata, canali di irrigazione deviati. Danni alla salute: malattie che colpivano i raccolti ed il bestiame. Fino a giungere ai danni diretti alle persone.
Il malocchio era ciò che più la gente temeva. Queste ribalde, infatti, passavano, di tanto in tanto, fra le vie dei paesini, assumendo una cert’aria stanca ed affranta, bussando alle porte e chiedendo la carità di qualche soldo. La gente capiva che si trattava di un inganno, e neppure apriva. Queste approfittavano del rifiuto per scagliare contro i malcapitati qualche terribile maledizione, il temutissimo malocchio. Le si vedeva andar via borbottando nonsoché, con l’aria cattiva e con un ghigno di soddisfazione. E, puntuali, arrivavano le disgrazie: moriva un vitello, qualche caro si procurava una frattura cadendo, dissidi fra famiglie che da sempre avevano vissuto in armonia, discordie all’interno delle famiglie, tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra coniugi, ragazze lasciate dai fidanzati e ragazzi traditi dalle fidanzate, insomma, cose di questo genere, ed anche più gravi.

Ai Bemini capitava anche di peggio. Costoro, per salire al loro paese, dovevano passare proprio nei pressi del famigerato dosso Barnabà, prima di impegnare la bella mulattiera di San Carlo, che risale il dosso di Bema, tenendosi approssimativamente sul suo filo. Ed allora non sapevano mai cosa li attendesse, soprattutto se l’ora era un po’ più tarda del solito, e già la campana dell’Ave Maria, da Sacco o da Bema, aveva fatto udire i suoi rintocchi.
Allora venivano giù sassi dal monte sul sentiero, quando andava bene, ma potevano anche capitare incontri faccia a faccia con le malefiche arpìe, qualcosa che non avresti augurato al tuo peggiore nemico. Accadeva perfino, di rado, ma accadeva, che di qualcuno si perdessero le tracce. Cosa fosse avvenuto non lo si poteva sapere, ma lo sventurato non ricompariva più e veniva pianto per morto, senza la consolazione di una sepoltura in terra benedetta.

Le cose non potevano più andare avanti così. Le comunità di Bema e Campo Erbolo, quindi, tennero consiglio congiunto, e decisero di edificare una serie di cappellette, per propiziarsi l’aiuto dei santi e della Madonna. Eressero, dunque, una cappelletta sul sentiero vecchio di Bema, una al Bon Cavriil, una al dosso Barnabà, una alla Ca’ Rosa, sotto Campo Erbolo, ed infine il gisöo di mezzavia. Tutti offrirono quanto occorreva per l’opera, perché il flagello delle streghe non risparmiava nessuno.
La gente attese, fiduciosa, che le cappellette adempissero al loro compito e disinfestassero la zona dalla presenza del male. All’inizio, però, non sembrava che fosse cambiato granché: le temute presenze non si erano diradate, la gente continuava ad essere vessata dalle streghe. Poi venne in mente a qualcuno che le cappellette potevano allontanarle solamente dopo una solenne benedizione, perché è soprattutto l’effetto dell’acqua benedetta ciò che questi essere malvagi temono. Una per una vennero dunque asperse con l’acqua che è segno della vittoria del bene sul male, con le formule più solenni che i buoni curati potessero trovare sui loro libri sacri. Formule in latino, che suonavano misteriose e potenti.

Ed allora fu veramente la fine per la comunità delle streghe del Bitto. Dovettero lasciare quei luoghi, nei quali avevano fin troppo a lungo fatto i loro comodi, e ripiegare su luoghi più scomodi e remoti. Risalirono il ramo del Bitto di Albaredo, insediandosi nelle forre nelle quali il versante orientale della valle precipita, proprio sotto il paese. La via per Bema era libera, ed ancora oggi la possiamo percorrere, dal bivio sulla strada Morbegno-Albaredo (ad 1,5 km circa da Morbegno) fino al ponte di Bema con la macchina (nelle fasce orarie in cui il transito è consentito), dal ponte fino a Bema a piedi, sulla bella mulattiera di San Carlo (la troviamo, dopo il ponte, scendendo un po’ a destra, sul primo troncone della strada nuova, fino a trovare, sulla sinistra, poco prima della galleria, la partenza, scalinata, del sentiero che, dopo un tratto ripido, porta ad essa; salendo, troveremo anche i ruderi dell’antichissima cappelletta dedicata a San Carlo e risalente ai secoli XII o XIII).
E di Albaredo, che dire? Che notizie ci giungono dalla città così legata alla più illustre Venezia? Notizie di urla, lamenti, imprecazioni, maledizioni, che salgono su, dal tenebroso Bitto, nelle notti senza luna, ma come attutite, lontane. Nessun altro segno delle temute streghe. Per ora.

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