ESCURSIONI A TEGLIO

Ci sono le streghe e ci sono gli stregoni. Un po’ più rari, questi ultimi, ma anche loro, insieme ai maghi, assoldati nell’esercito del male.
Su questa disparità nei numeri leggiamo, nell’operetta “Le streghe in Valtellina”, di Vittorio Spinetti (Sondrio, 1903):
“…il Malleus maleficarum riporta ancora che vi sono più donne streghe che uomini, perché: — Tre sono le cose che nella natura non possono tenere il posto di mezzo nella bontà, e nella malizia: la lingua, l'ecclesiastico e la femmina. — Perché — l'avarizia è il fondamento di tutti i vizi delle donne. — Perché — altro non è la donna se non la nemica dell' amicizia, una pena che non si può sfuggire (inevitabile), un domestico pericolo, un danno che si desidera, un male della natura dipinto con bel colore. — Perché — la donna fu formata dalla costa curva, cioè dalla costa del petto, che è torta, e quasi contraria (voltata contro all' uomo). Dal qual difetto anche ne viene che essendo un animale imperfetto sempre inganna.” Ricordiamo che il “Malleus maleficarum”, trattato composto da due frati domenicani tedeschi, fu, nell’età moderna, il testo di riferimento usato dagli inquisitori nella caccia alle streghe.
Non sono numerose, dunque, le leggende che vedono protagonisti gli stregoni, ma qualcuna val la pena di raccontarla.
In bassa valle è abbastanza nota la storia dell’”om cui pè de caval”, l’uomo con i piedi da cavallo, raccontata da Renzo Passerini nel numero di febbraio 1995 de 'L Gazetin. L’ambientazione è rappresentata dai boschi del Culmine di Dazio, o Colmen, la caratteristica formazione montuosa che interrompe l’andamento regolare della media Valtellina da Castione ad Ardenno, imponendo alla valle una doppia curva ad “s” fra Ardenno e Talamona e segnando il confine fra media e bassa Valtellina. Viveva qui, in un tempo di cui appena si conserva la memoria, un uomo che aveva avuto in sorte, al posto dei piedi, un paio di grossi zoccoli in tutto e per tutto identici a quelli dei cavalli. Con estremità di quel genere, non c’era calzatura che potesse indossare, per cui era costretto ad andarsene in giro mostrando quei rumorosi e comici zoccoli. In breve era diventato lo zimbello di tutti, e ciò l’aveva indotto a nascondersi nei boschi, a fuggire la gente.
La solitudine l’aveva inselvatichito ed incattivito. Si era fatto anche brutto a vedersi, ricoperto di un pelo ispido e di una barba incolta. Alla fine, per tutti fu semplicemente lo stregone. Uno stregone cattivo, che lanciava occhiatacce sinistre a chiunque si imbattesse sul suo cammino, e che si aggirava, senza fissa dimora, non solo nei boschi della Colmen, ma anche in quelli sopra Dazio e nella valle di Spluga, la bellissima e selvaggia valle che si apre sopra Cevo, all’ingresso della
Val Masino. Aveva preso di mira soprattutto le donne, probabilmente per il risentimento che nutriva nei loro confronti, lui che, a causa dell’aspetto, non ne aveva mai trovata una che l’avesse degnato di uno sguardo. Si appostava, quindi, per cercare di sorprenderne qualcuna sola, e la spaventava con parole e scherzi volgari, scurrili. Ben presto divenne il terrore del gentil sesso in tutta la zona.
D’estate, in particolare, imperversava negli alpeggi della Valle di Spluga, all’alpe Cavislone, all’alpe Desenigo ed a quella di Spluga, prendendo di mira ragazze e donne che, da Biolo, Piazzalunga e Cevo vi si recavano, soprattutto alla fine della stagione, quando dovevano andare in cerca delle capre, per recuperarle. Non se ne poteva più.
Per porre fine a questo tormento, alcune donne decisero di recarsi da un santo eremita, che da molti anni viveva di rinunce e preghiere al “Purscelìn”, la località Porcellino, posta e mezza costa sul fianco meridionale della Colmen. Lo trovarono intento alla preghiera, e non osarono rivolgergli la parola prima che l’avesse terminata. Esposero, quindi, il motivo della loro angoscia. Il santo eremita stette qualche istante come immerso in una profonda meditazione, poi disse: “L’uomo con il quale avete a che fare non è un uomo comune, ma si è votato al male e la sua anima è del Maligno. Non potrete liberarvi di lui se non con la forza della fede, e per farlo dovrete recitare un rosario quando passerete nei luoghi dove può sorprendervi. E se lo vedrete, gli mostrerete la corona ed il crocifisso che porterete sempre con voi. In questo modo non potrà farvi alcun male”.
Così fecero. Armate di corona e crocifisso, salirono agli alpeggi, attendendo lo stregone con i piedi di cavallo. Quando costui balzò fuori per oltraggiare una di loro, che, recitando Ave Marie, saliva su una balza alla ricerca delle sue capre, costei gli mostrò corona e crocifisso, che teneva nell’una e nell’altra mano. L’effetto fu immediato: come folgorato, lo stregone fu scosso da un tremito, indietreggiò, bestemmiò, fuggì nel cuore dei boschi, che parvero inghiottirlo. Da allora, infatti, non fu più visto.
In segno di ringraziamento fu allora edificata, nei pressi del Ponte del Baffo, in Val Masino, ad un tornante della strada che sale da questa località a Cevo, una cappelletta. Il timore dello stregone si conservò per molto tempo, e, con esso, la consuetudine, ancora viva fra le donne fino a non molto tempo fa, di recitare il rosario alla cappelletta e di salire agli alpeggi della Valle di Spluga con il rosario a portata di mano.
Se misera fu la fine dello stregone della Colmen, ben diversa fu la vicenda del mago di Carona (di cui si legge nell'articolo "La leggenda del mago di Carona", di anonimo, pubblicato su "Pro Valtellina" nell'ottobre 1910, ed in "Leggende e tradizioni valtellinesi", di Giuseppina Lombardini, Sondrio, Mevio Washington, 1925, pg. 10). Costui era un uomo dall’aspetto assai distinto, che da Carona, piccolo centro di mezza montagna sul limite orientale della catena orobica, scese, un giorno, al piano, incamminandosi verso Chiuro. Giunse in paese, accompagnato dagli sguardi dei molti curiosi che si domandavano chi fosse mai quell’individuo che non si era mai visto da quelle parti.
Chiese, allora, alle persone che incontrava dove potesse trovare un alloggio per riposare quella notte. Nessuno, però, forse per diffidenza, forse per timore, forse per indifferenza, gli rispose. Bussò, poi, a diverse porte, ma anche questa volta senza esito. Alcuni finsero di non sentire, altri opposero un iniquo rifiuto: così racconta la leggenda, riportata nella raccolta “Storie e leggende dei nostri paesi” del 1976, curata da Armida Bombardieri e dagli alunni della classe IV Elementare di Chiuro. Il rifiuto era iniquo, perché non si nega ospitalità ad un forestiero.
Il distinto signore lasciò, allora, Chiuro, e salì a Ponte. Già calavano le ombre della sera, ed era molto stanco. Per sua fortuna, qui trovò ben diversa accoglienza: alla prima richiesta, gli fu offerto un confortevole alloggio, nel quale potè ristorarsi e riposare. Passò la notte, ma non il suo risentimento nei confronti degli abitanti di Chiuro, che si erano mostrati così poco ospitali.
Meditò, dunque, la sua vendetta e, siccome non era un uomo comune, pensò ad una vendetta del tutto fuori del comune, una vendetta terribile. Da Ponte proseguì verso l’imbocco della Val Fontana. Giunto sul greto del torrente, cominciò ad accumulare massi, che poneva nel suo mezzo, come per costruire una diga. Poi tracciò strani segni nell’aria, pronunciò formule incomprensibili. Era un mago. Se ne andò, la sua vendetta era pronta.
Il giorno dopo, infatti, il cielo si rabbuiò quasi d’improvviso, cominciarono a cadere i primi goccioloni, poi la pioggia si fece fitta, violenta, torrenziale. Il torrente Valfontana si ingrossò in un batter d’occhio, le sue acque, con straordinaria forza, investirono la gran catasta di massi, trascinandoli via, giù, verso il paese di Chiuro. La massa dirompente di massi e fango investì la fiorente contrada di Gera, spazzandola via. La vendetta, tremenda, si era consumata. Il mago sparì, così come era sparita la contrada di Gera. Rimase la terribile lezione, per gli abitanti di Chiuro: chiudere le porte in faccia a chi chiede ospitalità è colpa che si può pagare assai cara.
La leggenda ha uno sfondo storico: l’antichissima e fiorente contrada di Gera effettivamente scomparve, anche se non per un singolo evento alluvionale, bensì per ripetute alluvioni, unite alle devastazioni operate dalle truppe di passaggio nella media Valtellina.
Spostiamoci, ora, un po’ più ad ovest, al luminoso versante retico posto immediatamente a ponente di Sondrio. Vi troviamo il paese di Castione, cui la felice posizione climatica conferisce un aspetto particolarmente luminoso e ridente. A monte del paese, però, sul fianco meridionale del monte Rolla, sta un’ampia fascia di fitti boschi, inframmezzati da alcuni alpeggi. È, questo, il regno dell’ombra, il regno dell’uomo verde, di cui si racconta nella raccolta "C'era una volta", edita a cura del comune di Prata Camportaccio nel 1994.
L’espressione, di per sé, non appare granché inquietante, ma la realtà di questo essere mostruoso, a quanto raccontano, era veramente tale da incutere terrore. Chi l’aveva visto ed era sfuggito alla sua ferocia (davvero pochi, in verità), stentava a descriverlo, tanto era brutto, orribile. Sembrava una metamorfosi fra l’uomo e l’animale, metamorfosi però, a differenza di quella celeberrima di cui racconta Kafka, interrotta a metà. Era enorme, e di color verde, come se avesse una pelle di rospo. Ma conservava le fattezze umane, un volto cattivo, un ghigno crudele, uno sguardo di fuoco. Fin qui i testimoni concordavano: poi ciascuno ci aggiungeva qualcosa di suo, e non li si poteva biasimare, visto lo spavento corso.
Per qualcuno era il diavolo in persona, per altri, invece, uno stregone che era rimasto vittima dei suoi stessi incantesimi ed ora vagava nei boschi intrappolato in quelle sembianze da mostro. Una cosa era certa: se qualcuno, uomo o donna, vecchio o bambino che fosse, si addentrava nei boschi per cercar legna e non faceva più ritorno, era finito nelle sue fauci. L’uomo verde, infatti, mangiava ogni essere umano che incontrava sul suo cammino.
Particolare pietà e commozione suscitò, una volta, la disgraziata fine di un vecchierello che, con grande fatica, vista l’età avanzata e le forze sempre più deboli, si era recato nel bosco per portarsi a casa, su una carriola, un po’ di legna da ardere. Non si addentrò molto nel bosco, ma quel tanto bastò per decretare la sua fine. Mentre era chino per raccogliere della legna fine, vide un’ombra che si sovrapponeva alla sua. Lasciò legna e carriola per fuggire in direzione opposta, ma l’ombra lo seguì, facendosi sempre più grande. Percorse poche decine di metri, inciampò, e l’ombra gli fu addosso. Non osò voltarsi. Fu ghermito dalle manacce orrende e verdi del mostro del bosco, che lo divorò intero. Di lui rimasero solo il cappello, la carriola rovesciata e la poca legna sparsa sul sentiero.
Così almeno raccontano da queste parti, soprattutto ai bambini che, addentrandosi soli nei boschi o uscendo dai sentieri battuti, potrebbero perdersi e finire anche loro nelle sue fauci.

Chiudiamo quella carrellata con la vicenda dell'ultimo stregone di Livigno. Ha come protagonista positivo Bepin de la Pipa e ce la racconta Alfredo Martinelli ("La cerva, la volpe e Bepin de la Pipa"), nella raccolta "L'erba della memoria - Leggende e racconti valtellinesi" (Sondrio, 1964); così la riassume Maria Pietrogiovanna, nella bella raccolta “Le leggende in Alta Valtellina” (dattiloscritto, Valfurva, 27 giugno 1998):
Il cacciatore Bepin de la Pipa, andato a caccia risalendo il ponte delle Capre su per la valle del torrente Torto verso Trepalle, vide una bella cerva legata ad un albero e la slegò, lasciandola libera invece di ucciderla. Recatosi poi alla fiera di Tirano e non avendo venduto il bestiame, egli venne avvicinato da una bellissima donna a lui sconosciuta. Costei diede a Bepin il denaro corrispondente al bestiame, lasciando al livignasco sia i soldi sia gli animali. Ella raccomandò al cacciatore, inoltre, di essere sempre buono con la Cerva del Bosco e di uccidere, invece, la Volpe fulva delle Mine. Il montanaro comprese che la trasformazione della fanciulla in cerva era stato un incantesimo, uno dei tanti compiuti da un tizio stregone in grado di mutare la natura delle più belle fanciulle e di rilegarle in luoghi deserti e paurosi.
Passarono alcune stagioni ed un pomeriggio, mentre si trovava a falciare l'erba in un prato che aveva alla Tresenda presso lo Spöl all'imbocco della Valle delle Mine, Bepin de la vide Pipa vide la volpe. Egli la colpì con una terribile falciata, sicché la bestia, assai malconcia nelle zampe, fu costretta a fuggire e si infilò su per la valle verso li Steblina, dove le ossa di chi lassù muore devono essere lasciate. Infatti, se vengono tolte di là, subito vi tornano per forze misteriose, condannate alle pietraie spente fuor del tempo. La sera di quel giorno stesso, in paese fu portato d'urgenza il viatico ad un tizio stregone, ferito alle gambe così come era avvenuto alla volpe rabbiosa colpita da Bepin. Certo il tizio era "el striòn" che si era incarnato in quell'animale; altri non era che lo stregone che aveva fatto male a quella fanciulla, così pensò e commentò il montanaro nelle sere successive. Vero è anche, che con la morte di costui, nella vallata non si sentì più parlare di incantesimi. Infatti, non si è più sentito raccontare né di cerve legate né di volpi ringhiose in quel di Livigno. Neppure è più avvenuto che alle donne del luogo si involassero i panni e che le lenzuola stese fuori sui prati si vedessero poi, il giorno successivo, biancheggiare sulle cime dintorno. Solo nella Valle delle Mine si odono ogni tanto i gemiti degli spiriti delle solitudini, i quali si divertono a far rotolare sassi e macigni e che nelle notti solenni mandano lunghi ululati di angoscia.”


Livigno

Hanno, queste leggende, uno sfondo storico? Sì, purtroppo. Nei quattro secoli ed oltre di caccia alle streghe fu preso di mira anche qualche presunto stregone. Il caso forse più emblematico è quello di un disgraziato giovane di Semogo, nella Magnifica Terra di Bormio, Giovanni Merenda, o Merenda, detto “Marendìn”. Un giovane di cent’anni, come moltissimi altri, ad eccezione di un particolare: era figlio di tal Maria delle Runi, condannata come strega. Come moltissimi altri, si innamorò di una giovane, Maddalena Giordani, che lo ricambiava. La sorella della giovane, però, Maria, non vedeva affatto di buon’occhio quel legame, ed allora si inventò una storia che pareva a dir poco assurda, accusandolo di essere stata rovinata da lui: durante una discussione, il Marendin le avrebbe toccato un braccio, e da quel momento in poi la buona salute l’avrebbe abbandonata. Quell’accusa bastò a mandare il giovane sotto processo: del resto, appena un anno prima era stata giustiziata la madre, e questo solo fatto lo poneva in una luce niente affatto rassicurante. Il processo fu condotto, come molti altri, con spietata determinazione: ci si avvalse della tortura per fargli raccontare tutta una serie di nefandezze originate dal patto con il diavolo che l’aveva costituito stregone. Massimo Bormetti, nella sua bella monografia “Al tempo delle streghe” (Bissoni, Sondrio, 1963 I), così riporta il racconto della prima partecipazione ad un sabba, una dalle sue confessioni estorte: “Poco dopo la partenza s'accorge però che la destinazione non è affatto verso i bassi luoghi infernali e neppure verso il settentrione, ma verso il cielo, al disopra dei paesi, delle valli, delle montagne. Sul cavallo, che nel frattempo ha assunto proporzioni di smisurata grandezza, passa da una montagna all'altra, come a volo, senza alcun bisogno di scendere e risalire per gli aspri pendii delle Alpi. A un certo momento la comitiva giunge sopra le torri di Fraele. Era questa una località che aveva acquistata larga rinomanza durante i grandi avvenimenti dell'epoca. Le due torri ivi esistenti e che erano state costruite in preparazione della guerra dei trent'anni, formavano due poderosi capisaldi di un vasto sistema di fortificazioni: poste su due alti roccioni ai due lati del passo di Fraele ne dominavano il passaggio ed avevano, come hanno tuttora, un aspetto di maschia potenza e un'arcana storia di piani e di stratagemmi astutamente escogitati dagli eserciti in lotta per conquistarle o per difenderle. Finita la guerra furono abbandonate e la fantasia popolare provvide subito a sostituire alla cessata occupazione militare i ritrovi di diavoli e streghe. Sopra quelle torri la comitiva fa un giro a largo raggio forse per vedere se mai in quei paraggi si trovi qualche affiliato e dargli appuntamento per la tregenda.
Poi riprende la marcia e dopo aver girovagato un poco attraverso le nuvole e le giogaie va a fermarsi, dice testualmente il processo, “su in alto, in alto, sopra le rovine di Cepina, fra il picco di Sandilla e la cima Piazzi”. Quivi Marendin scende dal cavallo e trova uno spiazzo contornato da alte roccie, da burroni e da vette e inaccessibile ai miseri mortali se non con mezzi soprannaturali. Nel mezzo brilla un gran chiaro che illumina tutto. Ivi streghe e stregoni sono radunati a centinaia, a migliaia. Vi sono fra questi qualcuno che gli sembra conoscere e molt'altra gente “piccoli et grandi, uomini et donne, alcune con le vesti lunghe, altre con le vesti corte et altre affatto ignude”. A mezzanotte in punto entra Belzebù, che per l'occasione ha assunto la forma di un “homo grande con li piedi di cavallo” e si pianta là nel mezzo “tremendissimamente sentato in cadrega che luceva tutta” e procede alla rivista del terribile esercito delle streghe.
Queste sfilano, sostano appena un momento davanti a lui per fargli riverenza, inginocchiarsi in atto di adorazione, baciarlo, onorarlo. Marendin entra anche lui, si fa della compagnia, rinnega in forma solenne Dio e la fede, partecipa ai festeggiamenti, mangia, beve, balla. Tutti i presenti non hanno di mira che di divertir lui nuovo arrivato, nuovo satellite. Vogliono lasciargli un ricordo indimenticabile. Lo stesso Demonio si presta a questo intento: “Viene fuori dalla cadrega dove era sentato et vi senta dentro un altro che diventa una bellissima giovane et così egli Marendin fa peccato con lei in quella maniera e forma che era”. Poi, all'improvviso, presso lo spuntar dell'alba, tutto sparisce, il gran chiaro si spegne ed egli si trova piantato in asso senza Belzebù, senza cavallo e senza la bellissima giovane e così, mesto mesto, riprende la via del ritorno, tutto solo, montato però a cavalcioni di un bastoncino che lo porta via come il vento.” Prima che aggiorni è alla sua casa e nessuno, nè in quella nè in altre scappate analoghe, si è mai accorto della sua assenza.”
Questa e numerose altre assurdità confessò il giovane (per poi ritrattarle tutte, prima di morire), ed alla fine fu condannato a morte. La sentenza fu eseguita con tutta la solennità del caso al Pra’ della Giustizia, presso la chiesetta di San Gallo, per mano del ministro di giustizia (così si chiamava il boia) Hans Gerich, che giunse, non senza lauto compenso, da Coira, per decapitare il giovane e bruciarne il cadavere. Era mercoledì 20 dicembre del 1673.

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