La volpe, o “golp”, come si dice nei dialetti di Valtellina, l’animale furbo ed inafferrabile per eccellenza, non poteva non ispirare credenze e leggende. Sentite queste due, che la presentano sotto una luce enigmatica ed inquietante.
Non so se vi è mai capitato di fermarvi ad osservare il versante montuoso sopra Colorina, nelle Orobie centrali. Colorina, per chi non lo sapesse, è il paese che si trova a ridosso del versante orobico della media Valtellina, immediatamente ad ovest di Fusine (sul lato opposto rispetto al torrente Madrasco) e di fronte a Berbenno
di Valtellina. Il versante montuoso, dicevo: sale, restringendosi, come un grande cono, rivestito, nella parte superiore, di un fitto e bellissimo bosco di abeti, il bosco Nono. Un bosco che sembra fatto apposta per la caccia.
Oggi la caccia qui è vietata, ma un tempo non era così, ed i sentieri che si intrecciano, dipanano e perdono fra gli abeti, splendidi ed alteri, erano spesso calcati da cacciatori solitari e taciturni, tutti presi nelle loro storie, nei loro silenzi, nei pensieri il cui filo attendeva solo di essere spezzato dalla comparsa improvvisa della preda, che era come un sollievo, una liberazione. Uno di costoro si alzò, un giorno, di buon mattino, uscì dalla sua casa di Colorina, senza quasi far rumore, e si incamminò verso il monte. Era alla Madonnina, appena sopra il paese, quando le prime luci dell’alba sembravano invitare tutte le cose a ricomporsi dopo l’abbraccio complice delle tenebre.
Continuò a salire per l’antica mulattiera che passava per i maggenghi di Gavazzi e Cantone, prima di raggiungere la località di Cornello, che oggi è raggiunta da una carrozzabile che termina poco sopra, ad una quota approssimativa di 1050 metri. Non si fermò a Cantone, ma proseguì, di buona lena, sul sentiero che sale alle baite di Arale (m. 1382), e che ancora oggi si può facilmente trovare, poco prima del termine della carrozzabile, e percorrere: una lunga diagonale verso sinistra, poi una svolta a destra, prima di uscire dal bosco sul limite inferiore dei prati di Arale. Era giorno fatto quando, dopo poco più di due ore di cammino, toccò i prati.
Si ferm ò e guardò, guardò il superbo scenario di cime che da sempre stava lì, a nord, dai pizzi Badile e Cengalo ai Corni Bruciati ed al monte Disgrazia, e, più a destra, lasciò riposare lo sguardo sull’ampio spaccato della media Valtellina chiuso, sull’orizzonte, dal gruppo dell’Adamello. Pensò a quanto corresse veloce, la sua vita, a confronto di quella quiete perenne nella quale sembravano da sempre immersi quegli scenari. Pensò che erano già lì prima che occhio potesse vederli, e che sarebbero rimasti dopo che l’ultimo occhio di vivente si sarebbe chiuso. Pensò, ed anche il pensiero corse veloce. Quando lo lasciò si era già rialzato per riprendere il cammino.
Un sentiero, meno marcato, prende a salire leggermente partendo dal limite alto di destra dei prati, piegando poi a sinistra e diventando gradualmente più ripido. Gli alti abeti, diritti ed orgogliosi nella loro bellezza, sembravano non accorgersi neppure di quanto accadeva nell’ombra nella quale qualche squarcio di luce si faceva strada, a fatica, di tanto in tanto. Il proposito del cacciatore era di raggiungere la baita del Pizzo, più in alto (m. 1845), e lì pernottare per poi vagare senza meta precisa, l’indomani, nei boschi più alti. Ad una delle tante svolte del sentiero, il passò si arrestò prima che potesse focalizzare il perché: si fece immobile, e solo allora l’occhio vide.
Vide la volpe. Una splendida volpe dal pelo rossastro. Mai vista una volpe di aspetto così elegante. Sembrava intenta a frugare nell’incavo di un vecchio tronco marcio. Non si era accorta di lui. Tolse, con movimenti lenti e silenziosi, il fucile dalla tracolla. L’aveva già imbracciato, quando i suoi occhi incrociarono i piccoli occhi della volpe, che aveva tolto il muso dall’incavo. Un attimo. Pensò che sarebbe fuggita via prima che potesse prendere la mira. Esitò, stava per abbassare il fucile. Ma la volpe non si mosse. Lo guardava. Non sembrava impaurita. Aveva uno sguardo indefinibile. Se fosse stata un essere umano, sarebbe parso perfino uno sguardo malinconico.
Mirò e sparò. Non mancò il colpo. La volpe cadde, fulminata, presso il vecchio tronco marcio. Un’ottima preda. Imbalsamata, avrebbe fatto la sua bella figura nella sua cucina. Mosse qualche passo per avvicinarsi all’animale morto, ma prima che potesse toccarlo udì una risata. Una risata argentina, come di bambino che accoglie il padre al ritorno a casa con un dono inatteso. Si volse intorno, più volte, perlustrò il bosco con lo sguardo: non c’era nessuno. “Sono stanco,” pensò, “sento voci che non ci sono, meglio che torni oggi stesso a casa, questa bella volpe mi ripagherà della fatica di queste ore di cammino”. E così fece. Ai rintocchi dell’Angelus di mezzogiorno era di ritorno a casa. Passò così quella giornata, e ne passarono molte altre.

Passarono mesi, addirittura, prima che accadesse un fatto che lo costrinse a ripensare a quella misteriosa risata, che aveva attribuito alla sua stanchezza. Un giorno se ne andava per le vie di Morbegno, dopo aver fatto qualche acquisto al mercato di piazza S. Antonio. “Ehi, voi, cacciatore, ehi, voi”: una voce lo raggiunse dalle spalle. Si volse, guardò in alto, vide una distinta signora, dai bellissimi capelli rossicci, che gli faceva ampi segni da un balcone. “Ehi, voi, sì, voi, venite, salite, per cortesia, ho da dirvi una cosa di grande importanza”. Esitò, perché non conosceva quella donna, ma l’invito si fece più insistente, ed alla fine l’uomo, anche per la curiosità, si indusse a salire: come poteva sapere, quella donna, che era un cacciatore?
La donna lo accolse, gentile, sulla soglia di casa, lo introdusse in un elegante appartamento, lo fece accomodare. “Vi debbo molto, voi non lo potete sapere, ma vi debbo molto”, disse, con un tono di tale serietà che al cacciatore non venne neppure in mente che si trattasse di una burla. “Cosa mi dovete, signora? Neppure vi conosco. Chi siete, voi?” “Chi sono? Chi sono stata, piuttosto, vi dovrei dire. Un tempo la malvagità mi prese, mi votai al male. Fui punita per i miei malefici, trasformata in animale e condannata a vagare senza sosta e senza pace per boschi e selve, finché qualcuno mi avesse liberato da questa pena. Voi, uccidendomi, mi avete liberato.” Il cacciatore ancora non comprendeva. “Io ero quella volpe che vi guardò, un giorno non lontano, sperando che mi liberaste. Quella volpe ero io.” Capì, allora, vide: vide nei capelli della donna il pelo quella volpe. Lasciò, allora, senza una parola la sua casa. Aveva, ora, nuovi pensieri da portare con sé nelle lunghe e solitarie giornata di caccia.
Dopo una storia a lieto fine, eccone una meno rassicurante. Portiamoci sul versante retico, nei boschi presso Tresivio, ad est di Sondrio. Un uomo andò un giorno in una selva, appena fuori del paese. Non per cacciare, ma per fare un po’ di legna. Raccolse qualche fascina, al bordo del sentiero, e si stava disponendo a trascinarla fino a casa, quando vide una volpe. Una volpe che lo guardava con due occhi di brace.
“Via, bestiaccia”, gridò, scagliandole contro un bastone. Ma quella non si mosse. Quegli occhiacci gli mettevano i brividi, e decise di riprendere la strada di casa lasciando la legna. La volpe, però, prese a seguirlo. Ogni tanto si voltava, e la bestia era sempre là, ad una certa distanza, ma sempre là, e non gli toglieva gli occhi di dosso. Solo quando fu fuori dal bosco, la perse di vista. Era tutto sudato per la paura. Corse a casa per riprendere coraggio, ma non si sentiva affatto bene. Aveva le gambe molli, le ossa rotte, come se lo avessero bastonato. Si mise a letto, sperando che la notte gli restituisse le forze. Ma il giorno dopo stava ancora peggio. E così il giorno dopo ancora. Non si alzò più. Dopo alcuni giorni, morì. In paese si parlò a lungo della volpe diabolica, se ne dissero molte, ma nessuno seppe mai con sicurezza chi fosse veramente quell’animale malefico.

Una volpe malefica e mostruosa è segnalata anche nel livignasco. Ne sa qualcosa Bepin de la Pipa, che ebbe modo di fare esperienza diretta di questa verità. Ci racconta la sua storia Alfredo Martinelli ("La cerva, la volpe e Bepin de la Pipa"), nella raccolta "L'erba della memoria - Leggende e racconti valtellinesi" (Sondrio, 1964); così la riassume Maria Pietrogiovanna (“Le leggende in Alta Valtellina”, dattiloscritto, Valfurva, 27 giugno 1998):
Il cacciatore Bepin de la Pipa, andato a caccia risalendo il ponte delle Capre su per la valle del torrente Torto verso Trepalle, vide una bella cerva legata ad un albero e la slegò, lasciandola libera invece di ucciderla. Recatosi poi alla fiera di Tirano e non avendo venduto il bestiame, egli venne avvicinato da una bellissima donna a lui sconosciuta. Costei diede a Bepin il denaro corrispondente al bestiame, lasciando al livignasco sia i soldi sia gli animali. Ella raccomandò al cacciatore, inoltre, di essere sempre buono con la Cerva del Bosco e di uccidere, invece, la Volpe fulva delle Mine. Il montanaro comprese che la trasformazione della fanciulla in cerva era stato un incantesimo, uno dei tanti compiuti da un tizio stregone in grado di mutare la natura delle più belle fanciulle e di rilegarle in luoghi deserti e paurosi.

Passarono alcune stagioni ed un pomeriggio, mentre si trovava a falciare l'erba in un prato che aveva alla Tresenda presso lo Spöl all'imbocco della Valle delle Mine, Bepin de la vide Pipa vide la volpe. Egli la colpì con una terribile falciata, sicché la bestia, assai malconcia nelle zampe, fu costretta a fuggire e si infilò su per la valle verso li Steblina, dove le ossa di chi lassù muore devono essere lasciate. Infatti, se vengono tolte di là, subito vi tornano per forze misteriose, condannate alle pietraie spente fuor del tempo. La sera di quel giorno stesso, in paese fu portato d'urgenza il viatico ad un tizio stregone, ferito alle gambe così come era avvenuto alla volpe rabbiosa colpita da Bepin.Certo il tizio era "el striòn" che si era incarnato in quell'animale; altri non era che lo stregone che aveva fatto male a quella fanciulla, così pensò e commentò il montanaro nelle sere successive. Vero è anche, che con la morte di costui, nella vallata non si sentì più parlare di incantesimi. Infatti, non si è più sentito raccontare né di cerve legate né di volpi ringhiose in quel di Livigno. Neppure è più avvenuto che alle donne del luogo si involassero i panni e che le lenzuola stese fuori sui prati si vedessero poi, il giorno successivo, biancheggiare sulle cime dintorno. Solo nella Valle delle Mine si odono ogni tanto i gemiti degli spiriti delle solitudini, i quali si divertono a far rotolare sassi e macigni e che nelle notti solenni mandano lunghi ululati di angoscia.”
Qualche volta, infine, la volpe si associa alla manifestazione del maligno stesso che, secondo antiche leggende, si presentava nella forma di orrendi animali: il basilisco dall'occhio di fuoco, che andava nelle notti di plenilunio a caccia di anime al Grasso di Pra Grata, e la volpe maschio, dal pelo irto e coperto di acueli, che nei giorni del “solastro” veniva giù dalla Valle dell'Orsa, in cerca di cristiani da divorare. La vide, una volta, il coraggioso Stefanìn, venire giù dalla cima Serraglio. Se ne stava presso il crocifisso vicino alle pareti della cima, e non indietreggiò, ma, invocando la potenza divina e quella di San Michele, capo dell'esercito degli angeli, ingiunse alla belva di andarsene. Le sue parole provocarono una spaventosa saetta che colpì la belva, precipitandola sul fondo della valle. La leggenda narra, poi, che al coraggioso Stefanin capitò di trovare lo stesso crocifisso caduto giù dalla Cresta Serraglio e stretto nella morsa del gelo. Riconoscente per l'aiuto che gli aveva prestato quella volta di fronte alla volpe-diavolo, lo portò a casa sua, lo riscaldò e gli promise che l'avrebbe rimesso al suo posto. Questo avvenne, e fu così che Stefanin sentì tutto l'orgoglio di aver potuto ricambiare l'aiuto che gli era venuto dal Signore. La storia, però, non termina qui: al pastore era apparso anche lo spirito del nonno Stefanon, che gli aveva detto come liberarsi definitivamente dal basilisco-demonio: bisognava sorprenderlo nelle notti di novilunio e centrarlo, con un colpo di carabina, proprio nell'occhio di fuoco con il quale stregava e portava via le anime.

 

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