Ponte di Ganda
Il
ponte di Ganda (punt de gànda) costituisce uno dei simboli
di Morbegno. Edificato verso la fine del Quattrocento, come
ponte in pietra (unico, sul torrente Adda), in località
Ganda, venne distrutto da una piena nel 1566, e ricostruito
nel 1568; di nuovo abbattuto nel 1772, venne ricostruito nel
1778, su progetto del capomastro Antonio Nolfi di Como, ma ad
opera dell'ingegner Francesco Ferrari, con un piano carreggiabile
largo sei metri arcuato a schiena d’asino e con materiali
di pietra locale in modo da poter
resistere alle piene dell'Adda.
Può essere la base di partenza per almeno un paio di
interessantissimi anelli di mountain bike, godibilissimi anche
nella stagione invernale, perché la felice esposizione
della Costiera dei Cech, sulla quale si sviluppano, fa sì
che la neve, quando viene, resista assai poco e che il pericolo
di placche di ghiaccio sia ridotto al minimo. Nulla vieta, ovviamente,
che questi anelli vengano percorsi anche a piedi. In entrambi
i casi, costituiranno un’occasione preziosa per conoscere
alcuni fra i più bei luoghi del versante retico valtellinese
di mezza costa, del quale il comune di Morbegno si ritaglia
una porzione non ampia, ma significativa.
Usciamo, dunque, da Morbegno verso nord, prendendo
a sinistra al primo semaforo in ingresso (per chi proviene da
Milano; indicazioni per la Costiera dei Cech), superando il
cavalcavia sulla linea ferroviaria, un semaforo ed una rotonda,
fino al nuovo ponte sul fiume Adda a ridosso del versante retico.
Superato il ponte, prendiamo a destra e, prima del tornante
sx, lasciamo l’automobile ad un ampio parcheggio che troviamo
sulla sinistra (m. 250). Saliti in sella, torniamo sulla strada,
salendo a tornante sx, dove troviamo un inatteso “stop”
(non è questa, infatti, la strada principale, bensì
quella che, con sede decisamente più stretta, sale da
destra, proprio dal ponte di Ganda;
al tornante troviamo anche il cartello che specifica che siamo
al km 0 della strada provinciale n. 10 della Costiera dei Cech
orientale, che porta a Dazio – 5 km -, Civo – 7
km – e Caspano – 9 km). Scendiamo, dunque, verso
destra (con velocità moderata, perché la carreggiata
non consente il transito contemporaneo di due veicoli in direzione
opposta), raggiungendo in breve l’imbocco settentrionale
del ponte di Ganda, alla nostra destra. Lo
possiamo ammirare in tutta la sua bellezza, che neppure il transito
di veicoli turba.
Torniamo, poi, indietro, risalendo fin quasi al tornante; appena
prima, però, imbocchiamo una stradina asfaltata che si
stacca sulla destra (indicazione per San Bello e Case Morelli)
e sale sul ripido fianco della Costiera. Se siamo a piedi, ci
conviene sfruttare la vecchia mulattiera chiamata “strada
vèsgia de san bèl”; su due ruote, invece,
percorriamo la “strada növa de san bèl”,
inanellando una sequenza di tornanti sx-dx-sx-dx-sx-dx, senza
eccessiva fatica, perché la pendenza è regolare
e non eccessiva. Il colpo d’occhio su Morbegno, poi, è
davvero ottimo: da qui possiamo apprezzare la forma regolare
dell’ampio conoide del Bitto che ospita le sue case. Alle
sue spalle, sul fondo della Val Gerola, fanno capolino le più
famose cime della sua testata, vale a dire, da sinistra, il
caratteristico uncino del Torrione della Mezzaluna, l’affilato
profilo del Pich (Torrione di Tronella), il poderoso e regolare
cono del pizzo di Trona e l’arrotondato cupolone del pizzo
dei Tre Signori. Passiamo anche a destra di una splendida fontana
ricavata da un unico blocco di granito.
Dopo l’ultimo tornante dx, al quale ci raggiunge, da sinistra,
la mulattiera, portiamoci al successivo tornante sx ma, invece
di impegnarlo, proseguiamo diritti, percorrendo il breve tratto
che ci separa dalla chiesetta di San Bello (“sgésa de san bèl”, m. 352). È,
questa, insieme alla più famosa chiesa a Monastero di
Berbenno, l’unica dedicata alla memoria di san Benigno
de Medici, soprannominato, per la nobiltà dell’aspetto,
il Bello. Figura interessantissima di santo, di cui vale la
pena ripercorrere, anche se solo per sommi capi, le vicende.
Morbegno
Nacque il 19 luglio 1372 a Volterra, dall’illustre casata
de Medici, e si addottorò in teologia, a Parigi, nel
1399. Entrato nell’ordine degli Umiliati, scelse una interamente
dedita alla predicazione, alla fondazione di sempre nuovi monasteri
ed all’esercizio dell’umiltà. Era di bell’aspetto,
di solidissima cultura teologica, di grande eloquenza e di fede
profondissima: teneva sotto le vesti, spesso ben curate, il
cilicio, e conduceva sempre un tenore di vita modestissimo.
Dopo vari peregrinazioni in Italia ed Europa, fu alla Maroggia
di Berbenno, dove si legò d’amicizia con un ricco
contadino della famiglia de Lupi. Tornò altre volte in
Valtellina, e qui scelse di rimanere negli ultimi anni della
sua vita: il 29 ottobre del 1458, ad 86 anni, “si prese
a locazione per dodici anni la terza casa di Lorenzo, Domenico
et Andrea Marongini o Maini de Lupi della Maroggia” (Romerio
del Ponte, “Vita di San Benigno de Medici detto Bello”,
tradotta dal latino da Vincenzo Guarinoni e pubblicata nei numeri
80-81 del 2002 dei Quaderni Valtellinesi). La voce dell’arrivo
di una figura già circonfusa di un alone di santità
si diffuse in tutta la Valtellina: ed ecco che il 9 settembre
del 1459 San Benigno “fu visitato dal molto reverendo
di Berbenno con quattro sacerdoti et sei dei principali di Berbenno.
Di puoi si fermò ivi esso padre abbate Benigno Bello
con grandissima soddisfatione non solo del popolo di Berbenno
e della plebe, ma di tutta la Valtellina, li di cui infermi
incurabili se gli conducevano davanti… si risanavano”.
Restituì anche alla sua importanza il monastero di Assoviuno,
a monte della Maroggia (l’attuale Monastero di Berbenno),
e ne divenne abate.
Strada di San Bello
Morì il 12 febbraio 1472. Dopo la sua morte non cessarono
i miracoli riconducibili a lui: “Nel spatio puoi di quelli
tre giorni che stette insepolto…furono guariti cento sette
infermi…, cioè tre indemoniati…, di più
un cieco muto e sordo per causa d’un fulmine…et
altri due ciechi,…di più due muti,…di più
sei sordi,…di più quattro paralitici,…di
più cinque zoppi…et tre podagrosi invecchiati”,
e numerosi altri, i cui nomi non furono annotati dal fedele
compagno padre Modestino. Tutti furono risanati “al tocco
del corpo di questo beato”. Sette anni più tardi
fu di nuovo il santo a venire in soccorso della comunità
a lui così cara: nel 1479 “nel mese di maggio,
essendo venuta una grossissima e continua pioggia, talmente
che pareva fosse insorto un torridissimo
diluvio in Bormio e suo distretto, nella Valtellina e nel contado
di Chiavenna e da per tutto, puoiché l’Adda talmente
crebbe che inondò fino a toccare le case sotto l’Arbosta
di Tallamona, onde non vi era sicurezza alcuna nella pianura,
puoca nelli monti, in cui li torrenti de fiumi conducevano gran
sassi, che sovvertivano tutti gli luoghi coltivati, e pochissima
nell’alpi, le valli delle quali erano impedite dalli arbori
spiantati, ma in questo tempo così piovoso fu osservato
da molti, degni di fede…che ogni giorno, circa le hore
venti, benché da per tutto fosse piena l’aria di
aquose nubi, però sopra il luogo di Monastero…per
un’hora continua si vedeva un lucidissimo sereno,…ed
altresì…che il fiume della Maroggia non era cresciuto
e…nel contorno delli arbori non era caduta alcuna goccia
d’acqua”. Nacque così la consuetudine, che
si conservò nei secoli, di invocare il santo per riportare
il bel tempo quando gli elementi della natura scatenano la loro
furia.
Ma ora è tempo di riprendere a pedalare, non prima, però,
di aver gettato lo sguardo dal sagrato al sottostante
fondovalle, cui precipita un ripidissimo versante montuoso.
Ridiscendiamo alla strada che sale dal fondovalle e continuiamo
la salita fino ad intercettare la strada provinciale 10 dei
Cech orientale, che dobbiamo attraversare per imboccare la stradina
che parte sul lato opposto (indicazione: Santa Croce, m. 450,
comune di Civo: infatti passando sul lato opposto della provinciale
lasciamo, temporaneamente, il territorio del comune di Morbegno).
Una sequenza di tornanti dx-sx-dx ci porta al centro del paese,
appena a sinistra della chiesa.
Santa Croce (santa crùus), picco borgo di 128
abitanti, è posta nel cuore di una fascia di vigneti,
con ottima vista panoramica su Morbegno, la bassa Valtellina
e le valli del Bitto. Sul sagrato della chiesa parrocchiale,
di origine secentesca, restaurata nel 1933, si respira un intenso
profumo d’antico, ed anche la caratteristica Trattoria
di Santa Croce, di fronte al sagrato, contribuisce a conservare
l’atmosfera di paese, raccolta, tranquilla. Sul lato opposto
della trattoria c’è, infine, una splendida fontana,
datata 1873, con acque così limpide e pulite da restituire
un riflesso verde assai raro da osservare. Santa Croce è
anche, per noi, un crocevia: qui si congiungono, infatti, i
due anelli di mountain-bike che possono essere percorsi separatamente
o congiuntamente. Partiamo da quello che si sviluppa più
ad ovest, passando per Mello e Civo.
Dalla piazzetta di fronte alla chiesa prendiamo a sinistra (ad
ovest), proseguendo fino al limite occidentale del paese, dove
la strada lascia il posto ad una pista che comincia a salire,
tagliando una splendida fascia di vigneti.
Si tratta della vecchia strada per Mello. Dopo un primo tratto
di salita, ignoriamo un ripido tratturo in cemento, che se ne
stacca sulla sinistra (scende a Corlazzo, dove si trova l’antica
chiesetta di S. Caterina, e prosegue fino ad intercettare la
strada Traona - Mello), ed incontriamo un paio di tornanti,
che ci portano ad un rustico che ha dipinta, sulla facciata,
una crocifissione. Poi il fondo della strada, da sterrato, diventa
asfaltato, e superiamo i nuclei rurali dei Freddi e di Ca’
du Carna.
La strada ridiventa sterrata, entra nell’ombra di una
selva di castagni e scavalca, su un ponte, la valle che scende
al piano in località Valletta. Non manca molto alla meta:
usciti dalla selva, dopo un ultimo tratto in salita raggiungiamo
il piazzale che sta di fronte all’ingresso del cimitero
di Mello. Percorso l’ultimo tratto della
via S. Croce, raggiungiamo la via Papa Giovanni XXIII, per la
quale possiamo salire al centro del paese. Lasciano l’imponente
chiesa parrocchiale di San Fedele alla nostra sinistra, proseguiamo
salendo verso est, sulla strada per Civo.
Ignorata la deviazione a sinistra per Poira, passiamo per la
frazione di Ca’ Molinari, uscendo dal paese e portandoci,
in breve, al limite occidentale dello splendido pianoro che
ospita Civo (“cììf”,
m. 754). Entrati in paese, dirigiamoci verso la splendida chiesa
parrocchiale di Sant’Andrea Apostolo, che sorge, isolata,
sul limite orientale del paese, su un piccolo colle, in posizione
bellissima. È, questo, il punto più alto dell’intero
anello. A destra (sud) della chiesa parte la strada che conduce
a Serone, centro amministrativo del comune di Civo: imbocchiamola,
scendendo, fino a trovare, sulla destra, una stradina asfaltata
che sale da ovest, provenendo da Santa Croce.
Lasciamo, ora, la strada Civo-Serone e scendiamo per questa
stradina o, in alternativa, per la mulattiera in risc, cioè
con fondo acciottolato, che la taglia in diversi punti: la troviamo
al primo tornante sx e proviene anch’essa da Civo). Dopo
una sequenza di tornanti sx-dx-sx-dx, prestiamo attenzione:
sulla nostra sinistra, in corrispondenza di un punto nel quale
la mulattiera intercetta la strada asfaltata, parte una pista
che porta ad una chiesetta, che vediamo proprio davanti a noi,
al termine di una breve discesa. Si tratta della chiesetta di S. Biagio alle vigne (sgésa de san biàas
ai végn, detta anche sgésa de sèlva piàna),
di origine secentesca (il portale, invece, reca incisa la data
1769), dedicata anche a S. Giuseppe e restaurata nel 1953 dai
“benefattori d’America”.
Siamo tornati nel territorio del comune di Morbegno e possiamo
proseguire la discesa per due vie. La più diretta ed
interessante sfrutta la prosecuzione della mulattiera che abbiamo
incontrato più in alto, e che riprende a scendere proprio
a sinistra della chiesa: si tratta della “strada de riègn”,
chiamata così perché attraversa l’omonimo
nucleo di baite, in una splendida fascia di vigneti. Qui, nel
secolo scorso, veniva aperta, in primavera, addirittura una
scuola elementare, per i bambini dei contadini di Civo che scendevano
alle vigne per lavorarle. La discesa, un po’ ripida, ci
porta ad un lavatoio, oltre il quale la mulattiera diventa una
stradina con fondo in asfalto e, dopo pochi tornantini, intercetta
la più larga strada che da Santa Croce porta a Cerido
(strada de santa crùus, scerìi, sèlva piàna),
appena a sinistra di una baita che reca sulla facciata un dipinto
che ritrae la Madonna incoronata, con Bambino, fra due santi.
Vediamo come giungere fin qui con percorso più tranquillo.
Invece di scendere passando a sinistra della chiesetta di S.
Biagio, proseguiamo sulla strada asfaltata (strada di garài),
che propone una sequenza di tornanti sx-dx-sx-dx, prima di ricondurci
alle porte di Santa Croce (limite orientale),
dove si potrebbe chiudere
il primo anello, con ritorno al ponte di Ganda. Raccontiamo,
però, il secondo possibile anello (o la prosecuzione
del primo), che passa per Dazio, Vallate, Cerido, Cermeledo
e Campovico. Non appena vediamo il cartello che annuncia Santa
Croce, prendiamo a sinistra, invertendo bruscamente la direzione
ed imboccando la strada asfaltata la cui partenza non si vede
molto (è segnalata da un cartello che indica Selvapiana
e Marsellenico: si tratta della già citata “strada
de santa crùus, scerìi, sèlva piàna”).
Dopo una breve discesa, ignoriamo, sulla destra, una strada
a fondo cieco che si stacca per scendere alle case più
basse di Marsellenico (marsalènech),
nucleo in territorio del comune di Morbegno, di origine assai
antica (è sicuramente citato, nella forma “Masxalinico”,
in un documento del 992, e forse, nella forma “Marcellisco”,
in un più antico documento del 843). La successiva moderata
salita ci regala un colpo d’occhio ottimo su Campovico
ed il fiume Adda. Superata una fontanella, vediamo, in alto,
proprio nel mezzo della fascia di vigne che caratterizza il
versante, due enormi massi erratici di granito, fermatisi, chissà
come, proprio lì. Il più grande è chiamato
“corna de riègn”; poco più in alto
la già menzionata chiesetta di San Biagio alle vigne.
Siamo
alla località di Selvapiana (selva piàna),
ad una quota di circa 450 metri, costellazione di baite che
popola lo splendido versante di vigneti e castagneti, per divisa
fra il territorio del comune di Civo e quello di Morbegno. Entrati
in una breve selva di castagni, passiamo a destra della baita
con dipinto alla quale scende anche la strada de riègn,
descritta sopra come via più breve per giungere qui.
Usciti dalla selva, ci troviamo ad un parcheggio, oltre il quale
la strada si restringe un po’ ed oltrepassa una grande
casa con inferriate alle finestre. Scendiamo gradualmente fino
al punto nel quale ci intercetta, sulla destra, una pista in
cemento; poi iniziamo a salire, sempre molto gradualmente, passando
a sinistra di una corna rocciosa a ridosso della strada ed a
destra di una cappelletta. Superiamo, quindi, su un torrentello
il torrente Acquate (aquàa), che nasce sopra Cerido e
si getta nell’Adda a sud-ovest di Campovico. Proseguiamo
la discesa all’ombra dei castagni, fino al punto nel quale
all’asfalto si sostituisce il fondo in cemento e la pendenza
si fa più accentuata. Qui la strada piega leggermente
a destra, mentre sulla sinistra vediamo un sentiero che porta
a Cerido. Scendendo per quella che un tempo era chiamata la "strada de la riva", passiamo a destra dell’agriturismo
“La pecora nera”, raggiungendo, infine, il punto
in cui la pista confluisce nella strada provinciale 10 dei Cech orientale, che percorriamo
salendo verso sinistra.
Ignorate due deviazioni (la prima, a sinistra, per Cerido, la
seconda, a destra, per Cermeledo), proseguiamo, superando su
un ponte il torrente Toate (tuàa) e passando dal territorio
del comune di Morbegno a quello di Dazio. Ci affacciamo alla
splendida piana di Dazio (dasc), scavata dalla
colata dei ghiacciai del quaternario, che non è riuscita
ad avere ragione della fiera resistenza del più antico
granito del Culmine di Dazio, che si frappone, fiero e boscoso,
alla nostra destra, fra la piana e la bassa Valtellina. Giunti
alle case di Dazio, sul cui limite basso si impone alla vista
la chiesa parrocchiale di San Provino (m. 568), seguiamo la
strada provinciale, che descrive un arco verso sinistra, ed
ignoriamo la strada che se ne stacca, sulla destra, per salire
a Cadelsasso, Cadelpicco e Caspano. Proseguendo diritti, raggiungiamo,
in breve, la frazione di Vallate (m. 697),
sul confine fra i comuni di Dazio e Civo.
Qui dobbiamo prestare attenzione sulla sinistra: appena oltre
le ultime case, che si trovano sul lato destro della
strada, vediamo, a sinistra, appunto, una pista che scende ad
un ponticello che scavalca un torrente tributario del Toate,
nei pressi di una cappelletta e di un grande castagno solitario.
Scendiamo al ponticello e, ignorate le indicazioni del Percorso
Anna per Ca’ Donai, ci portiamo sul lato opposto del torrente,
dove parte la mulattiera che scende a Cerido (molto bella ed
incredibilmente non indicata sulla carta IGM). Per un tratto
la mulattiera segue il limite orientale di un ampio prato (sulla
nostra destra vediamo un curiosissimo castagno con il tronco
cavo ed un grande masso altrettanto curioso, per la sua forma
piatta ed arrotondata, in mezzo al prato). Poi iniziamo a scendere
per breve tratto lastricato, cui segue un tratto pianeggiante
con fondo regolare e sterrato: stiamo tagliando il fianco del
vallone boscoso sul cui fondo scorre il torrente, di cui sentiamo
il fragore. Poi, superata una cappelletta sulla destra della
mulattiera, ritroviamo il fondo lastricato a riprendiamo a scendere,
fino ad una seconda cappelletta, questa volta sulla sinistra.
Fermiamoci
un attimo ad osservare il dipinto, una Madonna con Bambino che
ha ai lati san Sebastiano, immancabilmente trafitto dai dardi,
e san Rocco, che mostra la coscia destra con la piaga della
peste. La devozione a questo santo si diffuse molto, in Valtellina,
soprattutto dopo la terribile epidemia del 1630-31, portata
dai famigerati lanzichenecchi, che ridusse la popolazione a
poco più della metà o, secondo alcuni, a poco
più di un quarto. Interessante osservare l’espressività
dello sguardo del santo, carico di mestizia. Proseguiamo nella
discesa, prestando un po’ di attenzione perché
il fondo sconnesso propone un paio di “salti”; dopo
una sequenza di tornanti sx-dx, l’ultimo tratto, molto
bello, in ottime condizioni, ci riporta in territorio del comune
di Morbegno, alla parte alta del nucleo di Cerido ("scerìi, m. 508), di origine antica, essendo attestato
per la prima volta in un documento del 1357, nella forma "Zerido".
Ci accoglie un enorme masso erratico, sotto il quale è
stata ricavata una sorta di cantina; scendendo, lasciamo alla
nostra sinistra una fontana e, dopo pochi zig-zag, usciamo dalla
selva di castagni piegando a destra e raggiungendo il cuore
del borgo, che regala un'atmosfera unica e davvero suggestiva.
Un nucleo ricco di storia e di una curiosa e simpatica umanità.
Basti pensare ad alcuni soprannomi delle famiglie che un tempo
lo popolavano, e che si sono trasferiti ai luoghi.
Un gruppo di case e terreni è chiamato "cagazéchìn":
vi abitava un tal Venina, cui non faceva difetto certamente
il buonumore, e che era solito raccontare, con aria serissima
e compresa, delle straordinarie qualità del suo asino,
parente, alla lontana, della famosa gallina dalle uova d'oro,
dato che quello (l'asino, s'intende), quando andava di corpo,
non deponeva a terra vile sterco, ma preziosissimi zecchini
d'oro. Un altro gruppo di case è denominato "orài",
dal soprannome di un ramo della famiglia Alberti, un componente
della quale, emigrato in America e tornato al paese natìo,
intercalava ogni frase con un sonoro "all right",
nel quale esprimeva tutta l'ammirazione per quel lontano e grande
paese. Un terzo gruppo di case era quello dei "giascgià",
dal soprannome di un ramo della famiglia Busnarda, derivato
dalla curiosa abitudine di un suo componente: lo incontravi,
e ti salutava con un "Ehilà, ehilà.";
gli chiedevi come stesse, e
ti sentivi rispondere un "Bene, bene"; ti lamentavi
che le stagioni non sono più quelle di una volta, ed
avevi come risposta un cenno di assenso ed un convinto "Già,
già..." Per chiudere con un'ultima pennellata queste
scarne note di colore, varrà la pena di ricordare che
a Cerido venne, molti e molti anni or sono, avvistato un animale
più unico che raro, il "ghetùn ghèt",
"gattone gatto", una sorta di folletto, alto un’ottantina
di centimetri, con le orecchie appuntite e pelose, le lunghe
braccia, le dita dotate di unghie affilate e gli occhi giallastri
e fosforescenti, che brillavano, sinistri e diabolici, sul far
della sera e nel cuore della notte, terrore dei bambini disubbidienti.
Una lince, forse.
Raggiunte le case di Cerido, vedremo facilmente anche un cartello
che ci indirizza al Torchio di Cerido. Nei giorni di giovedì
e domenica, dalle 14.30 alle 17.00, potremo visitare questo
piccolo museo della civiltà contadina, un torchio vinario e di un frantoio oleario del
secolo XVII (funzionanti fino agli anni '40 del secolo scorso),
cui si sono aggiunti altri interessanti oggetti della
vita contadina nei secoli passati (gerli, tini e tinozze, stadere,
irroratori, mazze, stai, ceste, pentole, lampade, borracce,
cappelli, e così via). La gentile signora Amelia Margnelli
si renderà, poi, disponibile a fornire notizie interessanti
su questi strumenti che rappresentavano, nell'economia contadina,
risorse essenziali in una zona nella quale la viticoltura si
è sempre avvalsa di un'ottima esposizione al sole.
Qui arriva anche la strada asfaltata che sale dalla provinciale
n. 10 e che sfruttiamo, scendendo, con un tornante dx ed uno
sx, fino alla confluenza con quest’ultima. Appena prima
di immetterci nella provinciale, però vediamo, alla nostra
sinistra, una pista in cemento che, dopo breve quanto ripida
salita, ci porta al sagrato della chiesa di S. Nazzaro,
la "sgésa de scèrmelée", dedicata
ai santi Nazzaro e Celso, il cui primo nucleo fu edificato,
dalla famiglia Castelli Sannazzaro, di origine comasca, nel
1369, per poi essere ampliato nel 1624. La cui importanza è
testimoniata dal fatto che nei secoli XVII e XVIII fu chiesa
parrocchiale di Campovico, quando buona parte della popolazione
del comune era concentrata qui.
Siamo in località Dosso del Visconte ("dossum sancti
Nazarij, nel secolo XV, "dòs del viscùunt"
o semplicemente "el dòs", con voce dialettale).
La denominazione è legata al fatto che in epoca medievale
probabilmente qui sorgeva un castello (di cui si sono perse
le tracce), dimora del Visconte di Valtellina, investito della
signoria sull'intera valle. Se così è, negli oscuri
secoli IX e X il baricentro della Valtellina era qui. Oggi sul
sagrato della chiesa regna quasi sempre una profondissima
quiete, rotta veramente, forse, solo l'ultima domenica di luglio,
quando si celebra la festa dei santi Nazzaro e Celso.
Di fronte alla facciata della chiesa c’è una cappella,
con un dipinto presso il quale vale la pena sostare e meditare,
perché apre uno squarcio storico di cui ci parla Giustino
Renato Orsini nella sua Storia di Morbegno (Sondrio, 1959):
“Un quadro assai mediocre nella cappella antistante alla
chiesa di S. Nazzaro in Cermeledo ci ritrae questi emigranti
che, scalzi e in misere vesti, curvi sotto il loro fardello,
arrivano ad un porto e ringraziano la B. Vergine del viaggio
compiuto… I nostri massicci montanari, pieni di buon volere,
lasciavano in piccole frotte il loro paesello per recarsi nei
luoghi più lontani: i Chiavennaschi a Palermo, a Napoli,
a Roma, a Venezia e persino in Francia, a Vienna, nella Germania
e nella Polonia: a Napoli i Delebiesi e quelli di Cosio Valtellino; a Napoli,
Genova e Livorno quelli di Sacco; pure a Livorno ed Ancona i
terrieri di Bema e di Valle; a Venezia quelli di Pedesina; a
Verona quelli di Gerola; a Roma, Napoli e Livorno quelli d'Ardenno.
Numerosi muratori e costruttori di tetti emigravano in Germania;
e i montanari della Valmalenco si spargevano come barulli nei
più diversi paesi.
Ma
la meta preferita, specialmente dai terrieri della zona dei
Cech, da Dubino sino a Vervio, fu Roma, dove il Pontefice, anche
per sostenere la fede cattolica combattuta dai Grigioni, accordò
loro protezione e privilegi. Nella dogana di terra in piazza
S. Pietro furono loro riservati ventiquattro posti di facchini,
e alcuni posti anche nell'ospedale dell'Isola Tiberina; formavano
pure la compagnia dell'annona, come facchini, misuratori e macinatori
di granaglie; e furono detti Grigi, provenendo da luoghi dominati
dai Grigioni.
Scendiamo, ora, alla provinciale n. 10 e percorriamone,
per la seconda volta, un brevissimo tratto, in salita, fino
a trovare, dopo una semicurva a sinistra, lo svincolo, sulla
destra, della stradina che scende a Cermeledo. Portiamoci a
questo nucleo, anch’esso di straordinario interesse storico,
scendendo subito alle sue case e baite.
Cermeledo ("scèrmelée", anch'esso,
come Cerido, frazione di Morbegno, e, prima del 1938, di Campovico),
è uno splendido piccolo borgo rurale che si trova, nascosto
fra i castagni, a monte di Campovico, a 461 metri. Il suo nome
deriva da "cerro" o dal nome personale latino "Celemna"
(come Cermenate). Ne parla anche Giovanni Guler von Weineck,
che fu governatore per le Tre Leghe Grigie della Valtellina
nel 1587-88, nell'opera "Rhaetia", pubblicata a Zurigo
nel 1616: “Mille passi al disopra di Campovico, sopra
un ameno ripiano del monte sta Cermeledo: fertile paese, i cui
campi, in parecchi punti vengono rinfrescati dai ruscelletti
che scendono da Roncaglia. La popolazione è numerosa;
ma buona parte di essa, essendo angusto il territorio, deve
cercar lavoro in paesi forestieri”. Data la natura dei
luoghi, gli abitanti di Campovico furono addirittura indotti,
in passato, a trasferirsi qui in massa, per sfuggire alle conseguenze
rovinose di alluvioni e vicende belliche.
A destra (per chi scende) della bella fontana che ci ha accolto
scendendo al paese vediamo la partenza di una mulattiera che
scende a Campovico: si tratta della "strada de scèrmelée",
un tempo la più praticata della zona, vera delizia per
i bikers, per il suo fondo (che alterna cemento, risc ed asfalto)
e la sua pendenza regolari. Al primo tornante sx troviamo una
splendida fontana, con sedile in pietra che invita alla sosta,
conciliata anche dalla fresca ombra dei castagni. La stradina
propone, poi, una sequenza di diversi tornanti dx ed sx, e termina
proprio al sagrato della chiesa parrocchiale di Campovico,
dedicata alla visitazione della B. V. Maria (la "sgésa
de camvìic", la cui costruzione iniziò nel
1613 e la cui consacrazione è del 1706), arroccata, a
281 metri, su un bel poggio che domina il paese, a monte del
cimitero.
Scendiamo, così, in breve al paese, che merita un’attenzione
particolare, in quanto, fino al 1938, tutti i luoghi del territorio
del comune di Morbegno toccati dalla nostra pedalata appartenevano
al comune di Campovico, che a quella data fu inglobato in quello
di Morbegno. Ecco, di nuovo, quanto ci riferisce Giovanni Guler
von Weinceck: “Vicino ai Torchi c’è Campovico,
in basso nella pianura vicino all’impetuoso torrente Tovate;
è un villaggio assai antico che fu un giorno molto fiorente,
sia per la sua numerosa popolazione, sia ancora per i mercati
settimanali e per le fiere annuali che ivi si tenevano prima
che fossero trasferiti a Morbegno. L’Adda ed il torrente
Tovate, in mezzo ai quali sta Campovico, hanno poi rovinata
e insabbiata non solo la pianura che era vasta e ridente, ma
anche il paese stesso; e a tal segno che oggi si scorgono appena
poche tracce della sua passata floridezza, perché gli
abitanti si sono trasferiti in alto, a Cermeledo. Presso Campovico
si combatté anticamente una sanguinosa battaglia contro
i Milanesi, i quali durante la guerra con Como volevano occupare
l’intera Valtellina; e avrebbero vinto i Milanesi, se
in Valtellinesi non fossero stati di grande aiuto ai Comaschi
e a loro favorevoli”. Luogo denso di storia, dunque, anche
questo, degna conclusione di questo duplice anello che, per
bellezza di scorci, luminosità, intensità di colori
e profumi, ha pochi eguali in provincia di Sondrio.
Scesi lungo le vie del paese, ci immettiamo nella strada
provinciale Valeriana che lo attraversa e, procedendo verso
destra, superato il semaforo all’uscita del paese, ci
portiamo all’ex-centrale di Campovico,
anch’essa un pezzo di storia: si tratta, infatti, dell’ex-centrale
idroelettrica della Società Strade Ferrate Meridionali
(la "centràa"), la prima della provincia di
Sondrio: costruita nel 1900 per servire l’elettrificazione
delle linee Sondrio-Lecco e Colico-Chiavenna, le prime, in Italia,
a sfruttare l’alimentazione elettrica aerea. Oltre la
stretta della centrale, eccolo, ad attenderci con sguardo magnanimo
e benevolo, il ponte di Ganda, cui abbiamo
intitolato l’anello, che si chiude poco oltre, dopo un
ultimo strappo che ci riporta al parcheggio nel punto di partenza
della strada provinciale n. 10.
Il percorso integrale descritto comporta un dislivello in altezza
di circa 720 metri. Data la natura dei luoghi, però,
carta alla mano possiamo disegnarne almeno una decina di varianti,
per tutti i gusti, capacità e tempi.